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Calcata: come produrre energia da fonti rinnovabili senza distruggere l’habitat? – Cappello introduttivo per il convegno del 13 marzo 2010 su “Energia pulita in chiave sostenibile”

Voglio iniziare questa breve analisi ricordando l’avvio, il 30 luglio 2008  a Torre Valdaliga nord (Civitavecchia), della riconversione della centrale ad olio combustibile sostituito dal cosiddetto “carbone pulito” (scusate l’eufemismo). Da notare che quest’impianto, ora crudamente contestato,  fu voluto dal governo Prodi e votato dalle stesse forze (verdi, comunisti, etc) che ora montano la protesta.

Ma qui debbo dire che capisco perfettamente i cittadini dell’alto Lazio che si vedono inquinare (senza vantaggi di ritorno) per scelte non loro, come capisco le proteste degli abitanti dell’arco alpino che  vivono a ridosso delle centrali nucleari Francesi. Noi compriamo energia elettrica dalla Francia ma le loro centrali sono  ai confini con l’Italia (che al presente è ancora un paese denuclearizzato). Queste incongruenze della povera Italia hanno una storia lunga   dietro….  La storia inizia con il “boom” economico del dopoguerra, con la creazione dell’Eni e con la scomparsa  (uccisione?) di Mattei il suo presidente battagliero che si era messo in testa di rendere il nostro paese “autonomo” dal punto di vista energetico. L’autonomia dello Stivale non è mai piaciuta  alle Grandi Potenze, l’Italia poteva anche sviluppare una sua economia industriale purché restasse succube e ricattabile. Vedi ad esempio, una cosa che può sembrare banale, la sostituzione della canapa (che per legge fu proibita dal trattato di pace con gli USA) per poter introdurre il nylon e le fibre sintetiche.  Ma andiamo per ordine. 

Il nostro Paese sino alla fine degli agli anni ’50 ed in parte ‘60 del secolo scorso ricavava la massima parte di energia elettrica  attraverso centraline idroelettriche poste lungo i fiumi che scorrono nel mezzo di  tutte le città italiane (infatti le città una volta nascevano proprio lungo i fiumi per  ovvia ragione  approvigionativa).

Sino ad un certo punto questa produzione energetica localizzata funzionò,  il problema di ampliarne la quantità  venne solo con l’avvento del modello consumista, per  produrre utensileria perlopiù di plastica, quali: suppellettili, mobili, giocattoli, stoviglie, etc. Da quel momento l’Italia si dovette piegare al sistema della produzione elettrica concentrandola in grossi impianti che  funzionavano (e funzionano) ad olio combustibile.  Sappiamo quali erano gli interessi delle case produttrici del petrolio e così andò a finire che diventammo sempre più schiavi di scelte economico-politiche “atlantiche” che non erano per nulla negli interessi nazionali.   Poi ci provammo con il nucleare, anche questo non per nostro interesse, ma fu abbandonato in seguito ad un referendum nazionale. Ci  abbiamo infine riprovato con il metano ma anche questo (lungi dalla ricerca di fonti nostrane) arriva da paesi  che possono chiuderci i rubinetti -Russia ed Algeria- anche perché le condotte italiane sono “terminali”  ovvero non “transitano” sul nostro territorio nazionale ma finiscono qui…

Ma torniamo a parlare di come si potrebbe risolvere il problema energetico nella penisola. Certo il “carbone pulito” non è la soluzione, come non lo è il nucleare… il petrolio è in fase di esaurimento ed anch’esso  viene importato come il metano e  come lo sarebbe l’uranio (se si vorrà tornare al nucleare). Di cosa è ricca l’Italia? Per antonomasia canora si dice “chisto è ‘o paese do sole..” quindi si potrebbe ricorrere al solare, ma attualmente i pannelli solari anch’essi inquinano, soprattutto nella fase produttiva del silicio necessario al loro funzionamento,  ma si potrebbe (sviluppando la sperimentazione in tal senso) allungarne la capacità di raccolta e la  durata (che oggi arriva a circa vent’anni).

Ciò non sarebbe però sufficiente per soddisfare le esigenze della grande industria del futile. Si potrebbero allora  realizzare impianti ad idrogeno, in effetti i motori ad idrogeno  esistono da anni (basti pensare ai razzi che vanno a questo propellente) e tra l’altro la scissione dell’acqua in idrogeno ed ossigeno sarebbe facilmente ottenuta con pannelli solari, ma l’idrogeno non piace ai potentati economici che campano sul petrolio. Si potrebbe ricorrere  alla geotermia e persino ai famigerati  “termovalorizzatori”  ma anche questi inquinano (la cosa da ridere è  che inviamo la plastica  differenziata delle nostre immondizie in Germania, pagando per lo smaltimento, e poi la Germania con essa ci produce corrente elettrica che rivende all’Italia…. e noi  paghiamo 2 volte….). 

Una soluzione intelligente potrebbe derivare dalla riconversione dei rifiuti organici e dei liquami in biogas, un ciclo concluso come si dice in gergo, ad esempio in certi paesi dell’Asia nei villaggi si produce elettricità dal gas ottenuto con la cacca degli umani e degli animali.   Insomma tutte queste opzioni potrebbero andar bene… l’importante -per ora- sarebbe diversificare al massimo e cercare di rendere la produzione energetica il più possibile “autonoma” e non soggetta a ricatti esterni.  Ma per far questo serve una chiara volontà e coraggio politico e soprattutto un reale decentramento  produttivo. Teoricamente anche forze come la Lega, attualmente al governo,  dovrebbero essere interessate a tale decentramento ma questa scelta non piace alla grande industria ed alle multinazionali e (come abbiamo visto in altri casi)…. i conflitti di interessi  sono troppo forti.

Da non trascurare nel contesto generale di una riorganizzazione nella produzione energetica  l’aspetto del risparmio energetico derivato dalla coibentazione degli edifici.  E poi perché non considerare il riciclaggio totale dei rifiuti solidi urbani? Carta che ritorna carta, metallo che ritorna metallo, vetro che ritorna vetro, etc. Ma soprattutto occorre tornare alla produzione energetica locale.  Ogni comune od al massimo provincia può tranquillamente produrre energia senza ricorrere né al poli-combustibile, né al carbon fossile, né al nucleare. Basta utilizzare in modo intelligente le fonti naturali presenti sul luogo: sole, vento,  geotermia,  biogas, corsi d’acqua,  etc.

E  faccio degli esempi concreti. Se invece di essere concentrata in grossi impianti industriali la produzione energetica fosse diffusa sull’intero territorio nazionale  è vero che a Civitavecchia e Montalto scomparirebbe qualche inutile e dannoso  posto lavoro ma ne sorgerebbero a migliaia in altri contesti. Nella produzione e montaggio di pannelli solari ad esempio nel ripristino di chiuse idriche e ventole, nel recupero di materie organiche di scarto per il biogas, nell’utilizzo di fonti termali…. d’impianti per biomasse, etc.   Ed in tutti quei  modi in cui si può produrre energia elettrica pulita…. E così  si può anche incentivare l’occupazione.  Il sovrappiù energetico che non servisse al comune od alla provincia potrà essere “venduto” all’Enel e ritrasmesso a città come Roma che forse non ce la fanno ad auto-sostenersi. Dico “forse” ma son convinto che con un po’ d’inventiva ed intelligenza persino Roma potrebbe diventare autosufficiente, basterebbe cominciare ad utilizzare in toto l’organico che ora finisce al macero in discarica. Ed inoltre vediamo quanta dell’energia assorbita da Roma è veramente necessaria al suo funzionamento sociale, magari si scopre che tantissima energia va sprecata inutilmente

Il metodo “eolico” merita un capitolo a parte nell’analisi. In effetti l’eolico potrebbe funzionare benissimo, purché non sia una scusa per aggredire territori vergini che, in seguito all’installazione di mega impianti pesantissimi, vedono trasformare la denominazione d’uso da “agricola, boschiva e pastorale” a “industriale”…. Tra l’altro la maggior parte degli impianti così realizzati sono rimasti cadaveri inusati,  poiché non sono nemmeno collegati all’Enel. In effetti il sistema eolico pesante è spinto da poteri mafiosi che aggrediscono le ultime zone verdi d’Italia. C’è poi la concentrazione di emissioni elettromagnetiche ed il rumore che diversi studi scientifici americani dimostrano causa di malattie per gli umani e gli animali che vi sono soggetti. Senza contare la distruzione ambientale e la deturpazione sul  paesaggio, altrimenti usabile anche come risorsa turistica e culturale. Forse gli unici punti in cui si potrebbe prevedere l’installazione di piloni pesanti sono alcune aree già fortemente degradate, come lungo le autostrade o le zone industriali, dove tra l’altro l’energia prodotta potrebbe essere direttamente usata in loco. Diverso il discorso sul mini eolico e sul piccolo solare, per consumo immediato e diretto, che sarebbe indicato soprattutto per portare all’autonomia energetica tutte le abitazioni periferiche.

In verità per rendere  l’Italia libera da ricatti energetici occorrerebbe che il modello consumista venisse rivisto, la produzione industriale oggi è tutta tesa al superfluo (imballi, ciarpami ed  involucri usa e getta) ed andrebbe riordinato tutto il sistema  di produzione e riciclo rispettando la  “sostenibilità ecologica ” e le reali necessità  sociali.

Paolo D’Arpini – Coordinatore della  Rete Bioregionale Italiana,  Bioregione Tuscia. 

Programma del Convegno: Sabato 13 marzo 2010 – Presso Il Granarone – Calcata Vecchia – “Energia pulita in chiave sostenibile” -  Introduzioni di Enrico Bianchi e Paolo D’Arpini – Moderatrice alla   tavola rotonda,  Dott.ssa Giovanna Canzano.

Interventi di: Prof. Benito Castorina, Avv. Vittorio Marinelli, Avv. Giancarlo Castiglia, Dr. Giorgio Vitali, Dott.ssa Simonetta Badini, Dr.  Franco Proietti.  Gli interventi saranno intercalati da poesie e canzoni curate da Patrizia Pellegrini.

Info ed adesioni:

Enrico Bianchi -  Tel. 389.1955880  – bianchistudio@gmail.com

Paolo D’Arpini, Tel. 0761/587200 – circolo.vegetariano@libero.it

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Canapa, le ragioni nascoste della proibizione e la verità svelata sulla pianta che potrebbe salvare i mondo….. Se ne parla a Calcata il 28 marzo 2009 alla tavola rotonda “Arte ed Agricoltura”

Messaggio ricevuto:

Nell’articolo di Paolo D’Arpini sull’energia dalle fonti naturali del 31/07/2008 è, fra l’altro, scritto che “….la sostituzione della canapa, la cui coltivazione per legge fu proibita dopo il trattato di pace con gli USA, per poter introdurre il nylon e le fibre sintetiche….”. Ho letto il trattato di pace citato ma non ho trovato quanto asserito da D’Arpini. Forse si tratta di uno degli allegati. Vorrei saperne di più. Nella provincia di Caserta, prima che la coltivazione della canapa venisse vietata, si producevano i migliori semi al mondo oltre che ad un’apprezzabile produzione. Ora che l’Unione Europea non finanzia più la coltivazione del tabacco e sostiene, invece, la reintroduzione della canapa, mi sembra interessante inquadrare, sul piano storico tutta la vicenda. Per cui sarei molto grato a D’Arpini se mi aiutasse in questa ricerca. Ringrazio per l’attenzione.    Dr. agronomo Giuseppe Messina – Caserta

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Caro Dr. Giuseppe Messina, grazie per la sua lettera.

In effetti quanto da me affermato non risulta nei patti di pace fra USA ed Italia, poiché la proibizione non poteva essere espressa in quei termini… Avvenne “di fatto” -in seguito alla visita di Alcide De Gasperi negli Usa ed all’entrata dell’Italia nella Nato- che il governo italiano all’inizio degli anni ’50 proibisse la coltivazione. Altro particolare che fa riflettere è la contemporanea invenzione del Moplen che avvenne in quel periodo e che poteva affermarsi solo con l’eliminazione della canapa. Ovviamente la cosa fu ordita in forma mascherata, alla base (ufficiosamente) c’era la pressione politica USA, in chiave proibizionista, contraria cioè alla produzione di elementi vegetali che potessero avere usi narcotici. Infatti tutti sanno che la canapa di produzione italiana è alquanto ricca di cannabinolo…

Lei inoltre sarà consapevole che la canapa in se stessa è una sola pianta, non vi sono differenze sostanziali fra le piante denominate: sativa, marijuana, ganja, cannabis, etc. La specie è unica e si feconda tranquillamente con qualsiasi consimile di qualsiasi provenienza… La sola differenza sta nella selezione che viene fatta: o in funzione della produzione di fibra tessile o in funzione della produzione di cannabinolo.

Il luogo di coltivazione ovviamente a tali fini è importante, più si scende verso l’equatore e maggiore è la quantità di cannabinolo mentre molto minore è nelle zone temperate e fredde. Dal punto di vista del cannabinolo le faccio un esempio con la pianta della vite. In Sicilia, Grecia, etc. si produce vino a forte tasso alcolico mentre in Germania, Inghilterra, etc. a malapena si raggiungono i 6/7 gradi, tant’è che in passato la Guerra dei Cent’anni fra Inghilterra e Francia in realtà nascondeva la volontà di accaparrarsi le piane della Bretagna e del Midì in cui si produceva buon vino, che era molto ricercato in Inghilterra… soprattutto da nobili e dalla “corona”, mentre il volgo si accontentava della birra…. Questo, ritornando alla canapa, spiega anche come mai in Germania ci sono forti aiuti per la coltivazione della canapa invece in Italia sono assenti.

Qui nella Tuscia, ritornando al periodo pre-bellico, esistevano paesi che specificatamente vivevano di questa coltivazione (vedi Canepina..), Calcata era uno di questi, i contadini chiamavano la canapa il “tabacco dei poveri” (sino a vent’anni fa in Africa essa veniva chiamata “tabac africaine”). Ovviamente se la fumavano oltre che farci lenzuola, braghe e corde, allo stesso modo in cui si fumavano il tasso barbasso o la vitalba…. Dalla fine della guerra, quando subentrò la proibizione della coltivazione, tutte le sementi furono consegnate ai consorzi che provvidero a distruggerle. Questa è storia, sia pur travestita e manipolata…. ed oscurata (tante di queste notizie mica sono riprese negli annali.. sono tramandate a voce e basta).

Oggi la canapa potrebbe sostituire non solo le fibre sintetiche ma addirittura essere una valente fonte alimentare, energetica e di disinquinamento ecologico, soprattutto per rivitalizzare i campi sfibrati e desertificati dalla coltivazione intensiva del tabacco (questa sì che è una vera droga e nociva al massimo) o da altre coltivazioni intensive, infatti non è un mistero che la canapa (come l’ortica) è capace di riequilibrare le qualità organolettiche dei terreni.

Comunque ritengo che, nell’ambito della Fiera Arti Creative e della discussione sull’agricoltura ecologica che si terrà qui a Calcata il 28 marzo 2009, il suo collega prof. Giuseppe Altieri porterà elementi di approfondimento, sia dal punto di vista storico che agricolo, sulle qualità, uso e coltivazione della canapa nel bacino del Treja.   La invito a partecipare, cordiali saluti.

Paolo D’Arpini

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Calcata com’era… Una calcatese originaria racconta la magia di un tempo che fu, nel dramma della scissione dal luogo natio!

Quete righe che seguono sono i ricordi di Gabriella Coletta, una signora nata a Calcata, poi emigrata a Roma dove trascorse tutta la giovinezza e parte dell’età matura. Da alcuni anni Gabriella è tornata a vivere nel paese natio e su mia insistenza ha raccontato la sua esperienza della Calcata che fu, di quando bambina veniva a trovare i nonni ed a trascorrervi le vacanze, la ringrazio sentitamente per la condivisione. (P.D’A.)

Le vacanze estive, per me da bambina erano Calcata; di solito vi arrivavo di mattina, in giugno. Quello che mi colpiva era il silenzio; si sentiva soltanto il cinguettio dei passeri sui letti; il paese era completamente vuoto e nessun bambino per poter giocare: erano tutti in campagna per la mietitura. Di solito facevo una ricognizione per esplorare i posti dove avevo giocato l’anno precedente e poi aspettavo; aspettavo la sera seduta sullo scalino della casa infondo al vicolo e succedeva i miracolo; a gruppi la gente tornava dal lavoro, il paese si rianimava e cominciava a vivere. Le donne scendevano a prendere l’acqua alla fontana, accendevano il fuoco per preparare la cena; gli uomini sistemavano gli asini nella stalla e i bambini si riversavano nella piazza per giocare: per me cominciava la festa. Dopo cena gli uomini sedevano in piazza sui muretti e sulle scale della chiesa a parlare e le donne con i bambini si raccoglievano a gruppi nell’”uscio” ossia negli slarghi dei vicoli, sotto casa; filavano la canapa con le rocche e i fusi, facevano la calza o semplicemente si riposavano; c’era quasi sempre una vecchia che raccoglieva intorno a se i bambini e raccontava favole interminabili che procedevano per due o tre sere; oppure spesso ci scatenavamo per correre o giocare a “tana”.

Quello che mi colpisce riflettendo su quel periodo è che la gente non crollava mai per la stanchezza dopo una giornata di duro lavoro, al rientro, dovevano lavorare ancora, in casa, trovando anche il tempo per trascorrere insieme un’ora o due prima di andare a letto. Poi, negli anni `60, si cominciò a parlare di crollo imminente; dovunque andavo la gente parlava di questo crollo e il paese che aveva retto a mille intemperie sembrava dovesse venir giù da un momento all’altro.

Le prime case nuove che vennero costruite furono quelle popolari di via Cadorna (un grosso parallelepipedo squallido) e le famiglie a cui furono assegnate vi si trasferirono; continuavano però a scendere al paese per la spesa e per stare in compagnia. Altre case vennero costruite e il paese cominciò a dividersi: chi era andato a vivere al paese nuovo ancora scendeva quasi obbedendo a un richiamo silenzioso. Quando anche l’ultima famiglia si trasferì, la vecchia Calcata sarebbe dovuta rimanere spopolata, ma non fu così: i vecchi non se ne vollero andare; si rifiutavano di lasciare le loro case, i muretti della piazza, le scale della chiesa e i vicoli dove si era svolta la loro vita e la vita dei loro padri e dove avevano i ricordi di gioventù.

Mia nonna fu portata via quasi a forza dopo la morte di mio nonno, ma per questa violenza arrivò a maledire mia madre e a rimpiangere fino alla morte la sua casa: «ti sei costruita il castello; io devo vivere nel castello…» continuava a ripetere e piangeva. I figli continuavano a scendere, per curare i genitori, ma quando una anziana donna fu trovata morta da un paio di giorni anche i più caparbi cominciarono a cedere e il paese rimase abbandonato. Quando, a volte, scendevo trovavo lo stesso silenzio dei giorni da bambina, mi sedevo sullo scalino, fumavo una sigaretta e risalivo sconsolata per quel bene perduto; in tanti lo rimpiangono: loro che hanno vissuto al vecchio paese ricordano la solidarietà che c’era fra tutti, la comunicativa, il mutuo soccorso, la semplicità. Soltanto í giovani sono “liberi” da questo legame: nei loro ricordi la vecchia Calcata non c’è…

Gabriella Coletta

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Calcata notizie storiche varie ed aggiunte…. con commenti seri e semiseri. Dalla fondazione di Fescennium al furto del Prepuzio….

Sul presente sito molto è stata trascurata la storia  e le notizie sulla geografia e società di Calcata. Volutamente ho tralasciato questi argomenti perché non era mia intenzione fare un sito su Calcata, ce  n’é  già più d’uno…  Anche se  -debbo dire- il primo sito su Calcata venne  messo in rete proprio da noi del Circolo VV.TT.  e si chiamava http://www.calcata.net/. Questo avveniva  nei primi anni ‘90 del secolo scorso, quando internet era ancora un esperimento.  Poi il dominio fu da noi abbandonato, ripreso da qualcun altro e poi ancora abbandonato… insomma  debbo dire che della  presenza  su internet ho iniziato ad interessarmi solo nel 2007. Ovviamente molto prima di quella data avevo scritto e raccolto testi storici su Calcata, siccome ho avuto la fortuna di ricevere informazioni di prima mano da varie fonti mi sembra utile  e necessario che almeno una parte di quel materiale venga qui presentato.

Questi testi che seguono (assieme ad altri che conservo nel cassetto) sono stati da me raccolti per un libro che doveva essere edito dal Circolo Vegetariano VV.TT.  e chiamarsi “I racconti della città invisibile”  (speravo di pubblicarlo con l’ausilio del Comune di Calcata e del Parco Valle del Treja alla fine degli anni ‘90 del secolo scorso). Purtroppo quel libro  non solo non venne pubblicato ma  tanti articoli vennero persino copiati e riutilizzati per  pubblicazioni tardive di altri autori….     Pazienza… comunque non è mai troppo tardi e vi sottopongo perciò questi due saggi che almeno potranno far luce su alcuni aspetti interessanti della storia calcatese (e perché no… anche del Circolo).

 
La storia di Calcata  secondo le scritture…..

Calcata è un piccolo paese posto ai confini meridionali della provincia di Viterbo, e dista dal capoluogo circa sessanta chilometri. Sembra uno dei tanti castelli da presepio con le caselle antiche le une addossate alle altre, e sorge su un poggio (172 mt. s.l.m.) tagliato da profondi burroni: tutt’intorno è il verde delle acacie e dei castagni. La popolazione (626 ab. nel dicembre 1966) è dedita all’agricoltura e soprattutto alla pastorizia: infatti si scorgono frequentemente scavi nel tufo a forma di caverne per il ricovero degli animali. A Nord-Ovest scorre un piccolo fiume, ramificazione del Tevere, il Treja, importante per l’irrigazione dei campi (da notare che sotto Calcata confluisce nel Treja anche il Fosso della Mola n.d.r.). Il territorio, di 767 ha, (il più piccolo territorio della provincia dopo quello di S. Giovanni in Tuscia) confina con Nepi, Castel S. Elia, Faleria, con Mazzano Romano (a pochi chilometri più a Sud, vicino alla via Cassia vi è il rumoroso autodromo di Vallelunga n.d.r.).

La chiesa parrocchiale è intitolata ai SS. Cornelio e Cipriano (in verità al Santissimo Nome di Gesù n.d.r.). A Nord di Calcata, passato il Treja, su una piattaforma di tufo circondata da precipizi vi e una caratteristica chiesetta, ora abbandonata (un tempo dedicata alla Madonna, si tratta di Santa Maria  n.d.r.) risalente al secolo XIV.  Nel territorio si trova un’interessantissima necropoli etrusca (in verità è una necropoli falisca n.d.r.) dalla quale provengono numerosi reperti conservati nel museo di Villa Giulia in Roma. Probabilmente Calcata sorse in tempi antichissimi e non è errato pensare addirittura a una sua origine etrusca (aridaje…. si tratta di Fescennium la mitica città falisca n.d.r.). Ma abbiamo notizie certe del castello solo dal 974, come uno dei tanti territori destinati ad essere sfruttati, dati in pegno, tolti o venduti dai Signori del tempo. Proprio in quell’anno il papa Gregorio, in una cessione di beni di Ruciliano, offre Calcata all’abate S. Gregorio di Roma. Per un certo periodo si chiamò  «Castrum Sinibaldorum », castello dei Sinibaldi, in quanto Pietro e Ottone, appartenenti a questa antica famiglia, furono affittuari delle terre vicine di S. Biagio a Nepi. Il Castello è ricordato più tardi come tributario della Chiesa nel «liber censum»  del 1192; poi i documenti ci riportano al 1291 quando Lanfranco di Scano, collettore dei censi della Chiesa, descrive sul registro il castello caduto in rovina come appartenente al conte Anguillara: quando vi fu il passaggio dalla famiglia dei Sinibaldi a quella degli Anguillara? E perché il castello venne distrutto?

Ci è noto che il castello si chiamava di già Calcata (i) quando passò agli Anguillara; perché quindi tralasciò il nome di «Castrum Sinibaldorum» allora, sotto gli antichi padroni, e non dopo come sarebbe più logico?  I documenti tacciono ancora per molto tempo finché nel 1432 troviamo il paese riedificato e ancora appartenente a quei signori; proprio quell’anno gli Anguillara lo diedero in permuta Pensoso, “ricevendone in cambio un terzo del Castello di Monteranno”, inspiegabilmente il Castello non fu consegnato e restò ancora in possesso dei baroni. Sfuggì poi alla confisca del Papa Paolo II proprio perché appartenente, agli Anguillara di Stabia, ultimo ramo della famiglia. Carlo, figlio di Lorenzo Anguillara e Arfisia Sinibaldi, non avendo eredi ed essendo egli stesso l’ultimo discendente, vendette Calcata ai parenti della madre nel 1734. È da notare che la vendita era stata autorizzata dal papa Alessandro VII già dal 1659; ma allora non si fece. Così il Castello dopo molti secoli tornò ad essere il «Castrum Sinibaldorum». Passò poi in eredità ai Massimo e infine, nel 1828, ai Massimo Colonna, ultimi signori del luogo (fatto curioso del destino volle che un ultimo rampollo di questa famiglia, Stefano Massimo, sia ora ritornato a Calcata dove risiede per 6 mesi all’anno n.d.r.).

La Reliquia di Gesù: il Prepuzio….  (e che prepuzio…)
A Calcata, che come abbiamo visto è uno dei più piccoli e modesti paesi del Viterbese, si conserva  (si conservava poiché la reliquia è “scomparsa” a metà degli anni ‘80, ma di questo parleremo in una altra sessione successiva n.d.r.)  la più importante reliquia corporea di Gesù: una particella minuscola di carne che venne recisa al Bambinello durante la circoncisione e misteriosamente conservata per circa duemila anni. Com’è noto, presso gli Ebrei la circoncisione era una pratica soprattutto religiosa e spesso le famiglie usavano custodire il piccolissimo frammento, un po’ come in certi luoghi si usa oggi conservare per qualche tempo il primo dentino caduto al fanciullo. Così, anche la Madre del Redentore tenne presso di sé la Reliquia, alla quale aggiunse, poi, alcune gocce del sangue divino raccolte sotto la Croce. Sull’esistenza, sulla storicità, sulle conseguenze di ordine teologico connesse con tale frammento dell’umanità di Cristo, è stato a lungo discusso: S. Tommaso e S. Bonaventura affermano che Gesù «onni integritati resurrexit», ma che l’esistenza di questa Reliquia in terra non contrasta con l’integrità della Resurrezione, in quanto il  Redentore « risorse quale visse ». Quali prove.possiamo avere sull’autenticità della Reliquia stessa, come possiamo veramente, davanti al prezioso scrigno che la contiene (anche il prezioso scrigno è scomparso e ben prima della reliquia n.d.r.),   mormorare commossi   «qui dentro si conservano una particella del corpo di Gesù e alcune gocce del suo sangue divino? Non è possibile, ovviamente, basarsi su una rigorosa documentazione storica: c’è però una tradizione di secoli che parla in favore della Reliquia, e soprattutto ci sono i prodigi, – i misteriosi segni del soprannaturale – che sono fioriti intorno ad essa; anche qui, insomma, è questione di fede: «beati quelli che credono…».Ma a questo punto il lettore vorrà certamente conoscere come la preziosa Reliquia sia potuta giungere fino a Calcata. Dopo la morte di Maria, le gocce del sangue di Gesù e il frammento della sua carne vennero custodite da S. Giovamni. l’apostolo prediletto, e da questi dovettero poi passare in altre mani devote; così amorosamente conservate di generazione in generazione, pervennero a Carlo Magno che le recò dapprima nella chiesa di S. Maria in Aquisgrana, poi in una chiesa da lui fatta edificare appositamente nella diocesi di Poitiers. In occasione della sua incoronazione l’Imperatore le donò a Leone III che le collocò nella cappella di S. Lorenzo detta «Sancta Sanctorum ». E qui rimasero alla venerazione dei fedeli per oltre sette secoli. Nel 1527 durante il famoso «sacco di Roma» le soldatesche fuggirono con parecchi reperti e ricchezze  (omissis). In particolare un lanzicheneccho rubò un cofanetto ripromettendosi d’aprirlo con comodo per venderne poi il contenuto. Giunto nei pressi di Calcata venne però arrestato da alcuni contadini armati e rinchiuso in una grotta. Timoroso delle conseguenze che avrebbero potuto nascere se gli avessero trovato indosso la refurtiva, nascose allora la cassettina nella grotta, e quando venne liberato preferì lasciarvela, forse pensando di recuperarla poi, in tempi migliori. Tornato a Roma il soldato cadde invece gravemente ammalato, e in punto di morte confessò a un sacerdote il furto commesso; ma non seppe indicare la località dove aveva nascosto il cofanetto, se non che questa doveva trovarsi nei pressi di un Castello appartenente ai signori Anguillara. Del fatto venne subito informato Clemente VII il quale diede ordine a Giovan Battista Anguillara che nei suoi feudi di Stabbia, di Mazzano e di Calcata, si facessero diligenti ricerche, ma queste, per lunghissimi anni non dettero alcun risultato.

Finalmente, nell’ottobre del 1557, fu proprio il parroco di Calcata che rinvenne nella grotta il cofanetto prezioso. Il Moroni così racconta l’avvenimento: (i) «il sacerdote portò il piccolo scrigno lungo mezzo palmo e alto 4 dita, a Maddalena Strozzi moglie di Flaminio Anguillara allora dimorante a Stabbia. L’aprì la dama alla sua presenza, di Clarice sua figlia di circa otto anni e di Lucrezia Orsini, vedova del sunnominato Giovar Battista, e vi trovò degli involtini di tela ciascuno con cartine co’ propri nomi difficili a leggersi come logori dal tempo…
Un fagottino bianco avea scritto il venerabile nome di Gesù, ma inutilmente la dama tentò di scioglierlo, per due volte irrigidendosi le mani. Sorpresa dell’avvenimento, pregò Dio a sua gloria di farglielo sciogliere, ma le dita nuovamente divennero immobili. Rimasti tutti i presenti stupefatti, disse Lucrezia forse contenere la reliquia di Cristo, la cui ricerca avea Clemente VII commessa al suo defunto marito. Appena ciò detto, uscì dall’involto una soave fragranza e così acuta che tosto sì diffuse per tutto il palazzo. Tutti smarriti pel nuovo prodigio, consigliò il sacerdote di farne tentare l’apertura alla verginella Clarice, la quale felicemente sciolse il gruppo,
ed apparsa la reliquia la depose in un bacile d’argento, … e l’olezzo che, tramandò di grato odore, durò due giorni nelle mani di Clarice e di sua madre. Da questa si collocarono poi le SS. Reliquie in nuove borsette di seta, e ripostele nello scrigno le restituì al parroco onde le riportasse a Calcata, e ponesse alla venerazione de’ fedeli nella chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano, ove presto Dio operò strepitosi miracoli. I due principali prodigi sono: Quando la contessa Maddalena Strozzi recatasi a Roma per ragguagliarne Paolo IV, questi inviò subito a Calcata per riconoscerne l’identità.

Pipinello e Attilio della famiglia Cenci canonici della basilica Lateranense. Giunti a Calcata ed eseguito con atto pubblico il riconoscimento, Pipinello Cenci provò a spremere la Reliquia per osservare se fosse arrendevole, ma avendola troppo compressa si divise in due parti, rimasta l’una grossa quanto un piccolo cece l’altra come un granellino di seme di canapa (la canapa era coltivata estensivamente a Calcata sino al 1946 anno in cui fu proibita e le sementi consegnate alle truppe alleate per la distruzione. n.d.r.)”.

A quel fatto sembrò sdegnarsi il Cielo (e benché fosse uno de’ giorni più sereni di primavera) oscurandosi all’improvviso, accrescendo lo spavento di tutti con tuoni e folgori. Cessato il sagro terrore la SS. Reliquia fin riposta a suo luogo. Il secondo
prodigio avvenne nel 1559 allorché il primo gennaio alcune donne della compagnia di S. Orsola di Mazzano, un miglio distante da Calcata, si portarono processionalmente a venerarla, con molti uomini e fanciulli, portando torce e candele accese. Ottennero di vedere la Reliquia, ma posta sull’altare dall’arciprete, sorse istantaneamente una nuvola che la ricoprì in un attimo ed il sacerdote uscito di sensi, e si dilatò per tutto il tempio con tanta densità che ninno vide il vicino, durante quattro ore. Nel qual tempo qua e là scorsero stelle e lampi di fuoco. Abbagliati e tra gemiti, si suonarono le campane per invitare i paesi circostanti a vedere il portento, e non bastando agli accorrenti la Chiesa, scoprirono il tetto per ammirare l’avvenuto miracoloso…».

Naturalmente i Canonici Lateranensi vollero in seguito recuperare la Reliquia per riporla di nuovo nella loro basilica, ed invitarono, con il permesso del Papa, alcuni messi a Calcata; gli abitanti però vi si opposero fermamente e Clemente VIII ritenne
opportuno accogliere la loro richiesta e lasciare che l’insigne Reliquia rimanesse per sempre là, nel paesino dove era stata ritrovata (i).
1 ) Forse il Castello prese il nome di Calcata per la località depressa in cui è collocato.
2) Moroni, Dizionario storico-ecclesiastico.
3) Speciali indulgenze vennero concesse da Sisto V, da Urbano VIII, da Innocenzo X, da Alessandro VII: Benedetto XIII nel 1724 estese l’indulgenza in perpetuo, come si legge da una lapide posta nella chiesa dei SS. Cornelio e Cipriano, per la venerazione della Reliquia che «dentro una custodia conservasi amovibile, ricoperta sempre di ricco velo, sostenuta da due Angeli in piedi dell’altezza di mezzo palmo su base alta due dita e piana di massiccio argento dorato con merletto d’oro, a figura di vaso ovale con piede proporzionato che si apre a guisa di scatoletta, servendogli di coperchio imperiale corona arricchita di gemme preziose. Nella concavità interna dell’urna, foderata di taffetano bianco, sur un pulito cristallo si scorge a meraviglia la Reliquia aspersa di sanguine stille e rosseggiante».
(Moroni, op.cit.)
Ecco,  questa è una bella testimonianza storico religiosa e vi invito a conservarla gelosamente nei vostri scrigni telematici (e non solo).

Ciao a tutti ed alla prossima…..

Paolo D’Arpini 

Risultato della ricerca:

Energia elettrica ed autonomia politica in Italia

category Comunicati Stampa ilaria 31 luglio 2008

Il 30 luglio 2008 è stata  avviata a Torre Valdaliga nord (Civitavecchia) la riconversione della centrale ad olio combustibile che viene sostituito dal cosiddetto “carbone pulito”. Questo secondo alcuni è un passo necessario per l’abbassamento del tasso d’inquinamento  nella produzione energetica, ed in verità,  anche se all’inaugurazione c’erano  Scaiola e Letta del governo Berlusconi (era atteso anche lui il Cavaliere ma forse l’opportunità politica gli ha consigliato di non farsi vedere), quest’impianto fu voluto dal governo Prodi e votato dalle stesse forze (verdi, comunisti, etc) che ora montano la protesta.

Ed allora perché  ho espresso la mia solidarietà ai cittadini di Tarquinia che protestano per la polluzione di fumi e veleni  sul loro territorio ? 

E qui debbo dire che capisco perfettamente i tarquiniesi che si vedono inquinare (senza vantaggi di ritorno) per scelte non loro, come capirei le proteste degli abitanti dell’arco alpino che  vivono a ridosso delle centrali nucleari Francesi. Noi compriamo energia elettrica dalla Francia ma le loro centrali sono  ai confini con l’Italia (che è un paese denuclearizzato). Queste incongruenze della povera Italia hanno una storia lunga   dietro….  La storia inizia con il “boom” economico del dopoguerra, con la creazione dell’Eni e con la scomparsa  (uccisione?) di Mattei il suo presidente battagliero che si era messo in testa di rendere il nostro paese “autonomo” dal punto di vista energetico. L’autonomia dello Stivale non è mai piaciuta  alle Grandi Potenze, l’Italia poteva anche sviluppare una sua economia industriale purché restasse succube e ricattabile. Vedi ad esempio, una cosa che può sembrare banale, la sostituzione della canapa (che per legge fu proibita dal trattato di pace con gli USA) per poter introdurre il nylon e le fibre sintetiche.  Ma andiamo per ordine.  Il nostro Paese sino alla fine degli agli anni ‘50 ed in parte ‘60 del secolo scorso ricavava la massima parte di energia elettrica  attraverso centraline idroelettriche poste lungo i fiumi che scorrono nel mezzo di  tutte le città italiane (infatti le città una volta nascevano proprio lungo i fiumi per  ovvia ragione  approvvigionativa). Ricordo ad esempio che proprio in quegli anni -in cui abitavo a Verona- andavo spesso  a passeggiare in periferia e sulla diga che sbarrava l’Adige e da cui si ricavava l’energia per tutta la città.

Sino ad un certo punto questa produzione energetica localizzata funzionò,  il problema di ampliarne la quantità  venne solo con l’avvento del modello consumista, per  produrre utensileria perlopiù di plastica, quali: suppellettili, mobili, giocattoli, stoviglie, etc. Da quel momento l’Italia si dovette piegare al sistema della produzione elettrica concentrandola in grossi impianti che  funzionavano (e funzionano) ad olio combustibile.  Sappiamo quali erano gli interessi delle case produttrici del petrolio e così andò a finire che diventammo sempre più schiavi di scelte economico-politiche “atlantiche” che non erano per nulla negli interessi nazionali.   Poi ci provammo con il nucleare, anche questo non per nostro interesse, ma fu abbandonato in seguito ad un referendum nazionale. Ci  abbiamo infine riprovato con il metano ma anche questo (lungi dalla ricerca di fonti nostrane) arriva da paesi  che possono chiuderci i rubinetti -Russia ed Algeria- anche perché le condotte italiane sono “terminali”  ovvero non “transitano” sul nostro territorio nazionale ma finiscono qui…

Ma torniamo a parlare di come si potrebbe risolvere il problema energetico nella penisola. Certo il “carbone pulito” è meno inquinante del petrolio ma anch’esso viene importato come il metano e  come lo sarebbe l’uranio (se si volesse tornare al nucleare). Di cosa è ricca l’Italia? Per antonomasia canora si dice “chisto è ‘o paese do sole..” quindi si potrebbe ricorrere al solare, ma attualmente i pannelli solari anch’essi inquinano, soprattutto nella fase produttiva del silicio necessario al loro funzionamento,  ma si potrebbe (sviluppando la sperimentazione in tal senso) allungarne la capacità di raccolta e la  durata (che oggi arriva a circa vent’anni).

Ciò non sarebbe però sufficiente per soddisfare le esigenze della grande industria del futile. Si potrebbero allora  realizzare impianti ad idrogeno, in effetti i motori ad idrogeno  esistono da anni (basti pensare ai razzi che vanno a questo propellente) e tra l’altro la scissione dell’acqua in idrogeno ed ossigeno sarebbe facilmente ottenuta con pannelli solari, ma l’idrogeno non piace ai potentati economici che campano sul petrolio. Si potrebbe ricorrere all’eolico ma qui subentrano fattori di carattere estetico ambientale, oppure alla geotermia e persino ai famigerati  “termovalorizzatori”  ma anche questi inquinano (la cosa da ridere è  che inviamo la plastica  differenziata delle nostre immondizie in Germania, pagando per lo smaltimento, e poi la Germania con essa ci produce corrente elettrica che rivende all’Italia…. e noi  paghiamo 2 volte….). 

Una soluzione intelligente potrebbe derivare dalla riconversione dei rifiuti organici e dei liquami in biogas, un ciclo concluso come si dice in gergo, ad esempio in certi paesi dell’Asia nei villaggi si produce elettricità dal gas ottenuto con la cacca degli umani e degli animali.   Insomma tutte queste opzioni potrebbero andar bene… l’importante -per ora- sarebbe diversificare al massimo e cercare di rendere la produzione energetica il più possibile “autonoma” e non soggetta a ricatti esterni.  Ma per far questo serve una chiara volontà e coraggio politico e soprattutto un reale decentramento  produttivo. Teoricamente anche forze come la Lega, attualmente al governo,  dovrebbero essere interessate a tale decentramento ma questa scelta non piace alla grande industria ed alle multinazionali e (come abbiamo visto in altri casi)…. i conflitti di interessi  sono troppo forti.

In verità per rendere  l’Italia libera da ricatti energetici occorrerebbe che il modello consumista venisse rivisto, la produzione industriale oggi è tutta tesa al superfluo (imballi, ciarpami ed  involucri usa e getta) ed andrebbe riordinato tutto il sistema  di produzione e riciclo rispettando la  “sostenibilità ecologica ” e le reali necessità  sociali.

Ma finché si continuerà a voler produrre energia in grosse centrali inquinanti come non potrei offrire la mia solidarietà ai cittadini di Tarquinia?

Paolo D’Arpini