La spinta imperialista alla guerra segna totalmente di sé questa fase storica. Da questa spinta assume verosimiglianza anche la tragica possibilità di una terza guerra mondiale, che addirittura potrebbe essere già iniziata, anche se non si combatte su tutti i fronti.
Tre fattori, tra gli altri, concorrono a determinare quel “combinato disposto” che si offre come base materiale all’estensione, sul piano planetario, del “sistema” di guerra imperialista:
- Primo, dopo l’89 e il crollo dell’Unione Sovietica e del blocco dei Paesi del socialismo reale la storia non è finita, come al contrario aveva teorizzato il politologo statunitense Francis Fukuyama. Si è rivelata totalmente illusoria e priva di basi storiche concrete l’idea secondo cui il processo di evoluzione sociale, economica e politica dell’umanità avrebbe raggiunto il suo apice alla fine del XX secolo, snodo epocale a partire dal quale si sarebbe aperta una fase finale di conclusione della storia in quanto tale.
Fin dagli inizi degli anni ’90 del XX secolo, i fatti si sono incaricati di smentire clamorosamente quella, idealistica, teoria.
In America Latina una potente pulsione assolutamente contraria, avversa alla prepotenza imperialista inizia a segnare di sé l’intero continente: non solo Cuba resiste e rilancia il proprio progetto socialista rivoluzionario, ma in molti Paesi prende forma, a partire dal Brasile di Lula e dall’avanzato progetto socialista della Bolivia, un progetto di liberazione dal dominio nordamericano che giunge sino alla proclamazione di un inizio di percorso volto al socialismo, come nel Venezuela di Hugo Chávez.
La stessa volontà di liberazione dall’opprimente imperialismo si leva nel continente africano, dall’Africa australe sino ai Paesi dell’Africa del Nord. L’asse Libia-Sud Africa, o Gheddafi – Mandela e Partito Comunista del Sud Africa, per un’Africa libera dall’imperialismo e dal dollaro, spinge il fronte imperialista a distruggere la Libia ed assassinare Gheddafi.
In Asia si assiste al più grande sviluppo economico della storia dell’umanità, quello cinese, uno sviluppo che pone al centro dei “moti” politici planetari una nuova potenza socialista, e di conseguenza annichilente dell’imperialismo: la Repubblica Popolare Cinese, anche se è presente in quella società una classe capitalista estremamente dinamica che richiede grande attenzione per salvaguardarne il carattere socialista. Un’attenzione alle nuove contraddizioni di classe che “il socialismo dai caratteri cinesi” ha esso stesso evocate per favorire il necessario sviluppo economico e di cui il Partito Comunista Cinese è ben consapevole, sino al punto di rilanciare con forza – al suo 19° e, allo stato delle cose, ultimo Congresso – il proprio ruolo come partito d’avanguardia e a capo della lotta di classe per la difesa e lo sviluppo del socialismo.
Ciò mentre è sconfitto il tentativo di penetrazione imperialista in Russia e lo stesso progetto USA-UE di dividere Mosca da Pechino e trasformare la Russia in un altro satellite dell’universo imperialista. Obiettivo non colto, dal fronte imperialista, che di nuovo scatena la mai sopita russofobia occidentale.
Il mondo assiste, dunque, al rapido e imponente passaggio da una fase incongruamente definita “fine della storia” all’avvio di un cambiamento profondo dei rapporti di forza mondiali. Un cambiamento che innanzitutto “spunta le unghie” all’imperialismo USA.
- Secondo: la spaventosa bancarotta, nel 2008, della colossale banca americana Lehman Brothers, si presenta come una crisi allineabile, per profondità, a quella del sistema capitalistico che determina la Prima Guerra Mondiale e alla stessa crisi del 1929. I fallimenti e le liquidazioni si allargano e dagli USA la crisi capitalistica diventa mondiale. La stessa UE risponde a tale crisi con le temporalmente lunghe e socialmente violente politiche dell’austerity.
- Terzo: nel terremoto economico prodotto dalla bancarotta della Lehman Brothers si rilancia prepotentemente il complesso militare-industriale nordamericano che, confermando la denuncia che Eisenhower lancia nel 1961 relativamente alla sua intrinseca e nefasta pericolosità, si pone come “nuovo motore” della ripresa dell’economia USA e, dialetticamente, quale nuovo e ulteriore motore della spinta generale, sul piano internazionale, alla guerra.
Dal 1991 si presentano dunque, sul piano internazionale, tre fasi generali:
la prima, quella successiva al crollo dell’URSS, definibile come “la fase dell’euforia imperialista”, la fase che il capitalismo percepisce come “nuova frontiera mercantile mondiale”;
la seconda, quella dell’improvvisa e potente ripresa – attorno al cardine dello sviluppo cinese, alla tenuta della Russia quale Paese non trasformabile in un nuovo suddito occidentale, alla spinta liberatrice latinoamericana e a vaste aeree, nemiche dell’imperialismo, asiatiche e africane – di un’azione plurale che punta a cambiare i rapporti di forza mondiali;
la terza, quella che ora viviamo, la fase della caduta delle illusioni imperialiste relative alla “fine della storia” e al nuovo scatenamento sia degli “spiriti animali” capitalistici che delle pulsioni belliche imperialiste per l’accensione di vaste guerre “regionali” anticipatrici di una contemplata guerra mondiale.
Segni potenti di questa “terza fase”, segnata dalla rabbiosa reazione imperialista alla crescita e al rafforzamento dell’alternativa multilaterale, a grave danno del vecchio mondo unipolare filo americano, sono le politiche di Biden, imperniate su di una ferrea volontà di rilanciare una nuova Guerra Fredda trasformabile in guerra vera, “calda” e mondiale.
All’interno di una linea generale di nuova aggressività militare USA, che Biden rilancia già dalla propria campagna elettorale contro le politiche “neo isolazioniste” di Trump, sono almeno due, tra gli altri, i fatti che assurgono a paradigmi della nuova linea della Presidenza:
- il Convegno del G7 in Cornovaglia del giugno 2021, sfociato in un terrificante “Documento di Carbis Bay” che Biden impone anche a tutta l’UE e che delinea minuziosamente il progetto di costruzione di un vastissimo fronte militare internazionale contro la Russia e la Cina;
- il pieno rilancio, rafforzamento ed estensione della NATO, dopo le “incertezze” di Trump, quale inequivocabile braccio armato del fronte imperialista mondiale e il conseguente progetto di accerchiamento NATO – dal Polo artico sino alla Georgia, con potenti retrovie militari collocate sull’intera Europa Centrale e dell’Est – attorno a tutti i confini della Russia, cui fa da pendant la consegna all’Australia di sottomarini nucleari operanti nel Mar della Cina.
L’attuale crisi ucraina trova le proprie basi materiali nell’imponente progetto USA-UE-NATO volto, già dal 1991, a mettere in campo in Ucraina un movimento “arancione” di massa capace di spostare Kiev verso Washington e Bruxelles; nel “golpe” di Euromaidan del 2013-2014, poggiato sulle spalle delle organizzazioni nazifasciste messe in campo dagli USA, dall’UE e dalla NATO e diretto sia a far cadere la legittima presidenza filo russa di Yanukovich che, di nuovo, dopo le politiche non asservite all’Occidente di Yanukovich, a ricollocare l’Ucraina nel campo politico e militare USA-UE-NATO; negli orrori perpetrati per lunghi otto anni dal Battaglione Azov, dal battaglione Aidar e dalle altre formazioni che si richiamano al collaborazionista Stepan Bandera, oltre che dall’esercito ucraino a guida NATO, nel Donbass contro le popolazioni di Donetsk e Lugansk e, appunto, in quel vastissimo e nefasto accerchiamento militare della Russia progettato e messo in campo molto tempo prima dell’intervento russo in Ucraina.
Un accerchiamento strategico, diretto contro l’intero asse russo-cinese, che in quanto tale “non può” prendere in considerazione la proposta di pace che Mosca invia, nel dicembre del 2021, agli USA, alla NATO e all’UE e nella quale è delineato il progetto di un’Ucraina indipendente e neutrale e disposta a non subire il diktat USA-NATO volto a trasformare il territorio ucraino in un’immensa base militare NATO ai confini russi, dotata di missili nucleari in grado di colpire Mosca in 4 minuti e minacciare la Cina.
La guerra imperialista appare essere solo agli esordi, la minaccia di trasformarsi in un conflitto mondiale è intrinseca alla linea Biden ed è facilmente percepibile anche solo ponendo attenzione al lavoro intenso e povero di contraddittorio dei grandi media che mirano a preparare le coscienze a questa terribile prospettiva. Tutto ciò mentre il movimento per la pace e contro la guerra, nell’intero Occidente, appare in grave difficoltà.
La guerra viene combattuta anche sul fronte economico, caratterizzato principalmente dalle sanzioni statunitensi ed europee alla Russia. L’Europa ne sarà colpita molto di più degli USA e della stessa Russia in quanto dipende largamente dalle importazioni di prodotti energetici, materie prime, fertilizzanti e prodotti agricoli dal Paese sanzionato. Il 27% del petrolio, il 46% del carbone e il 40% del gas in Europa provengono da Mosca, mentre gli USA importano solo l’8% del petrolio, il 5% del carbone e lo 0,5% del gas e potranno più che compensare i contraccolpi negativi con la crescita delle loro esportazioni verso l’Europa.
Comprare questi prodotti dagli Stati Uniti comporterà, oltre ad un aggravamento della delicatissima situazione ambientale, un aumento dei costi che, per l’Italia, Confindustria già quantifica in 68 miliardi l’anno, l’equivalente di oltre il 5% del Pil.
Queste difficoltà dal lato dell’offerta si stanno presentando dopo una fase di intensa espansione monetaria che apre esorbitanti varchi all’inflazione già stimata al 6% (per i prodotti energetici si parla di un più 200% a fine anno).
L’inflazione sta raggiungendo il suo massimo degli ultimi 40 anni, dovuto sia al caos provocato in alcune filiere produttive dalla pandemia sia a movimenti speculativi, in particolare sui futures dei prodotti energetici, né sembra possibile, nella presente complessa situazione, combatterla con le consuete ricette neoliberiste che farebbero precipitare ancora di più la malconcia economia.
A questi danni va aggiunto l’incremento delle spese militari che anche il nostro governo ha deciso, distogliendo ingenti risorse finanziarie pubbliche dalla sanità, alla scuola e al welfare.
In Europa – e particolarmente in Italia – c’è da attendersi, quindi, oltre all’erosione del potere d’acquisto di pensioni e salari, ormai privi di una valida indicizzazione, la diminuzione dell’occupazione, che indebolirà il mondo del lavoro se non verranno messe in campo imponenti lotte.
Il previsto, serio approfondimento della recessione potrebbe comportare la chiusura di aziende, licenziamenti e distruzione di capitali, condizione necessaria quest’ultima per una ripresa dell’accumulazione globale.
Molto meglio va agli Stati Uniti che, come abbiamo visto, possono scaricare i costi di questa crisi sugli altri.
Questo spiega il loro atteggiamento volto a proseguire la guerra, “fino alla vittoria dell’Ucraina”, dicono. In realtà fino alla sua massima distruzione in una guerra per interposta persona.
L’obiettivo strategico statunitense è quello di impedire l’instaurazione di rapporti amichevoli nell’ambito del continente eurasiatico, staccare la Russia da quasi tutti gli altri partner europei, indebolirla o addirittura renderla “amica”, per poter meglio aggredire in un secondo momento la Cina, il vero nemico strategico. La Via della seta, una cui importante ramificazione doveva passare per l’Eurasia, e che avrebbe portato un indiscusso vantaggio all’Europa, va incontro a un arresto e anche questo avvantaggia gli Stati Uniti d’America, spuntando un’altra minaccia alla loro supremazia economica. Ma sussiste un interesse dell’Europa a prestarsi a questo cinico gioco?
Gli USA non risentono del conflitto, non impiegano propri uomini in prima linea, non ospiteranno una quota significativa di profughi e hanno interesse all’escalation militare ed economica per controllare le fonti energetiche e vendere armi.
Le sanzioni economiche si tradurranno, quindi, in un boomerang per i paesi europei.
L’Italia, in particolare, pagherà un prezzo salato. Oltre ai maggiori costi dovrà affrontare la carenza dei prodotti energetici, almeno per il tempo necessario ad attivare i canali alternativi di approvvigionamento. Il Ministro Cingolani ha ammesso che ci vorranno almeno tre anni per potere sostituire le importazioni dalla Russia e nel frattempo ha annunciato il contingentamento dei consumi. Sorgeranno così grossi problemi alle attività produttive, oltre che alle famiglie e ai servizi pubblici, come gli ospedali, le scuole e i trasporti pubblici. Insieme all’accresciuto fabbisogno di ammortizzatori sociali, avremo un nuovo fattore di indebitamento pubblico, dopo quello promosso da Draghi o dovuto al Recovery Fund che – non ce l’hanno detto – per la sua quasi totalità dovremo restituire direttamente o indirettamente.
Si andrà quindi verso una crisi che potrebbe far rimpiangere le precedenti.
Le politiche del governo Draghi sono caratterizzate da un attacco alla classe lavoratrice. Dallo sblocco dei licenziamenti alla promozione di rapporti di lavoro privi di tutele, dal mancato contrasto degli infortuni sul lavoro alla previsione nel PNRR di nuove forme di privatizzazione della sanità, dal fisco che accentua la sua iniquità al venir meno di importanti tutele ambientali e sociali sull’altare delle esigenze del capitale, il governo aveva già sufficientemente mostrato il suo spietato segno classista. Oggi intende far pagare al popolo italiano i costi della partecipazione al conflitto e del riarmo preteso dalla NATO.
Va denunciata, inoltre, la posizione imperialista dell’Italia e dell’UE le quali, in questa fase, tengono sotto traccia la divergenza di interessi, pur esistenti, con l’imperialismo americano per portare a compimento l’opera di contrasto dei paesi che rifiutano la loro sudditanza alle regole della globalizzazione liberista.
Le sanzioni economiche non riguardano solo le merci ma anche la finanza. Anch’esse potranno ritorcersi contro chi le attua. Infatti, non si campa di sola finanza e, come ha dichiarato la Credit Suisse, si può stampare denaro ma non alimenti. La guerra economica sfida indirettamente un complesso di paesi che nel loro insieme producono la quota maggioritaria di prodotti industriali, sia tradizionali che tecnologicamente evoluti, e di materie prime.
Il blocco di circa due terzi delle riserve russe all’estero, prevalentemente in dollari, ha determinato un’ovvia reazione: le materie energetiche russe dovranno essere pagate dai paesi “ostili” in rubli. Sia questa conseguenza che la perdita di fiducia che inevitabilmente subirà un paese che mostra i muscoli mentre si rifiuta di onorare i propri obblighi, determinerà un’accelerazione del processo di perdita di centralità del dollaro come mezzo di pagamento internazionale e come riserva di valore. Tanto più che dietro a questa moneta non ci sta ormai nessun fondamentale. Fin qui gli USA hanno tirato avanti con le emissioni di carta, cosa che non costa loro nulla, e che veniva accettata solo in ragione della loro potenza militare, impiegata in tutte le occasioni in cui un paese si è rifiutato di sottostare a questo arbitrio. Questo ha permesso loro di consumare al di sopra delle possibilità e armarsi fino ai denti. Ma la cosa cambia quando a ribellarsi è mezzo mondo, quando anche la Cina, l’India, il Vietnam, l’Iran, il Pakistan, il Sudafrica, il Brasile, il Messico, la Nigeria, la Turchia, il Venezuela e altri Paesi asiatici, africani e dell’America Latina si accingono a misurarsi con il superamento della supremazia del dollaro. Perfino l’Arabia Saudita, storico fido alleato degli USA, sta contrattando con la Cina vendite di petrolio in yuan e oltre 140 Paesi non hanno partecipato alle sanzioni contro la Russia.
Anche l’esclusione di alcune importanti banche russe dalla principale rete di pagamenti internazionali, il sistema SWIFT, che avrebbe lo scopo di rendere loro quasi impossibile effettuare transazioni internazionali, potrebbe provocare l’accelerazione del ricorso a un sistema alternativo, il CIPS, sviluppato dalla Cina. Un altro monopolio delle potenze occidentali potrebbe essere così costretto a misurarsi con il concorrente asiatico.
Questa fase economica e geopolitica è caratterizzata dallo scontro internazionale tra capitali che accompagna il processo della loro centralizzazione in ristrette mani e in cui gli Stai Uniti stanno perdendo terreno giorno per giorno ma pretendono di perpetuare il loro unipolarismo. Sul terreno della competizione economica gli USA hanno pochissime chance. Proprio per questo la situazione è pericolosissima perché gli States possono vincere solo sul terreno militare ed è possibile che vogliano giocarvi non solo fino all’ultimo ucraino, ma fino a un’immensa catastrofe umana.
Non sappiamo chi vincerà la guerra ma sappiamo chi con certezza l’ha già persa: la classe operaia, lavoratrice italiana, i lavoratori e i popoli europei, oltre ai popoli del terzo mondo che saranno colpiti da carestie, con conseguenti morti e migrazioni.
Ma questo non interessa ai signori del capitale che vedono nella guerra e nella distruzione l’espediente per superare la sovrapproduzione.
Se ne può uscire o con la riaffermazione del dominio a stelle e strisce, a costo di lutti e sofferenze incalcolabili, o con un nuovo mondo multipolare e in cui non predomini più il modello liberista.
Se prevarrà l’una o l’altra cosa dipende anche dal movimento che sapremo mettere in piedi e dalla necessaria costruzione di un ampio e coeso fronte che combatta l’imperialismo mondiale.
Tuttavia, sia rispetto al grave pericolo di espansione della guerra e di un pieno coinvolgimento del nostro Paese nel conflitto ucraino e in una guerra di più vaste proporzioni che rappresenta un vero e proprio tradimento della Costituzione Italiana, sia rispetto al duro attacco sociale insito nelle scelte di guerra del governo Draghi, ciò che colpisce è la drammatica assenza di un movimento di massa contro la guerra e l’assenza di una lotta di massa e di classe contro le politiche governative asservite alla NATO, all’UE e al grande capitale italiano.
La frammentazione, la polverizzazione del movimento comunista, contro l’imperialismo, si presenta tra le questioni determinanti per la mancanza, in Italia, di un movimento contro la guerra, contro le politiche imperialiste di guerra e per l’uscita dell’Italia dalla NATO e dall’Unione europea.
In questo quadro politico e sociale italiano così tanto segnato dalla spinta bellica e dalla subordinazione alla NATO e dall’attacco al movimento operaio complessivo, incomprensibile e insostenibile, agli occhi dei lavoratori e delle masse, appare il distanziamento politico, e nella prassi, tra i partiti comunisti e all’interno del movimento contro l’imperialismo e la guerra, che così non esprime le sue potenzialità.
Le forze politiche, le riviste, i movimenti che sottoscrivono quest’Appello chiedono con forza ai partiti comunisti italiani e alle forze e ai movimenti per la pace e contro le politiche imperialiste di guerra di invertire immediatamente la rotta e di avviare una politica di forte unità.
Per difendere la Costituzione Italiana che al suo art. 11 stabilisce che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, contro l’entrata in guerra dell’Italia, contro l’invio delle armi e delle risorse economiche all’Ucraina, per l’uscita dell’Italia dalla NATO, contro l’attacco sociale che il governo Draghi porta alle condizioni di vita delle masse e a ciò che rimane dello stato sociale, perché l’Italia svolga un ruolo di mediatore di pace, chiediamo che tra i partiti comunisti italiani e le altre forze che lottano contro l’imperialismo si apra subito un tavolo volto all’unità d’azione e alla costruzione di un più ampio movimento contro la guerra e contro l’attacco di classe del governo Draghi.
Noi, sottoscrittori di questo documento/appello, ci saremo! E per tutte queste ragioni, come primo segno dell’unità che richiediamo, ci costituiamo nel Coordinamento Nazionale Comunista contro la guerra e contro l’imperialismo.
“La Città Futura”, rivista comunista;
Associazione Nazionale e rivista comunista “Cumpanis”;
Carlo Formenti, “Il Socialismo del XXI Secolo”;
Comunisti di Arezzo;
Comunisti per la Costituente;
Convergenza Socialista;
Federico Giusti, Movimento No Nato, No Base militare
“Camp Darby” Pisa;
“Gramsci Oggi”, rivista comunista;
Movimento per la Rinascita del P.C.I. e per l’Unità dei
Comunisti;
Progetto Comunista, Sardegna;
Per eventuali adesioni/Informazioni: coord.comunista@gmail.com