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Contro i pericoli di liberalizzazione dell’esercizio venatorio vagante o “caccia di rapina”

Rilancio questo scritto contro la liberalizzazione della caccia, della Feder. Pro Natura che ho trovato molto interessante e giusto, soprattutto per quanto riguarda l’esercizio venatorio vagante o  “caccia di rapina”.

Paolo D’Arpini

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La Federazione Pro Natura esrime preoccupazione per alcune proposte di legge nazionali attualmente in discussione che ampliano il numero di specie cacciabili e il periodo di caccia.

Sono in discussione presso il Senato alcune proposte di legge, il cui obiettivo è quello di modificare l’attuale normativa sulla caccia. Nonostante la consistente riduzione nel numero dei cacciatori (che si sono dimezzati in poco più di un decennio) e l’ostilità sempre maggiore da parte dell’opinione pubblica verso un’attività anacronistica e violenta, le proposte attualmente in discussione prevedono, di fatto, una liberalizzazione della pratica venatoria.
Infatti, invece di prevedere la caccia soltanto alle specie che si moltiplicano in misura eccessiva e possono quindi creare problemi alle attività agricole e agli stessi ecosistemi di cui fanno parte, si antepongono ancora una volta le esigenze delle Associazioni venatorie a quelle più generali della salvaguardia dell’ambiente naturale.

La proposta di legge che è stata scelta come riferimento (presentata dai senatori Carrara, Bianconi e Asciutti) prevede infatti consistenti ampliamenti rispetto alla situazione attuale. In caso di approvazione, infatti, si potrebbero cacciare ben 57 specie ed il periodo di prelievo verrebbe dilatato dalla fine di agosto a quella di febbraio, in una stagione cioè in cui la fauna selvatica è particolarmente sensibile. Tra le specie di cui si propone l’apertura della caccia vi sono piccoli uccelli (quali allodola, peppola, fringuello) e specie protette a livello comunitario (cormorano). La proposta di legge, infatti, consente ripetute ed immotivate deroghe rispetto alle norme di tutela della fauna selvatica stabilite dalla Comunità Europea.

La proposta favorisce inoltre il “nomadismo venatorio”, e cioè la possibilità per il cacciatore di vagare sul territorio, senza essere vincolato ad una zona ben precisa. In questo caso, quindi, viene favorita la cosiddetta “caccia di rapina”, che è quella praticata da chi non ha alcun interesse a che il territorio rimanga ricco di fauna selvatica, dal momento che le successive uscite di caccia verranno svolte altrove. Ingiustificate inoltre le massicce depenalizzazioni per reati riguardanti la caccia, anche se il tentativo di alleggerire il lavoro dei Tribunali potrebbe essere condiviso. Tuttavia, ci pare che una semplice sanzione amministrativa per chi abbatte fauna particolarmente protetta, o caccia in luoghi ove si determinano situazioni di pericolo per le persone, non abbiano un sufficiente potere deterrente.

La Federazione Nazionale Pro Natura auspica che il Parlamento italiano si attivi affinché non vengano approvate modifiche all’attuale legislazione sulla caccia se non in senso restrittivo. L’obiettivo primario deve essere la tutela della fauna selvatica e i prelievi venatori devono essere fortemente ridimensionati.

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“Il volo del topo sulle ali del drago” – Riflessione sul ritorno a casa di Christa Efkemann

‘Torniamo a casa’ è una frase talmente comune che a qualcuno viene a dire “…va bene – è con questo?” o magari un commento sarcastico, tipo “… felice chi ce l’ha.” – Tanto vero!Entrando però più profondamente nel pensiero, subito ci si scopre non solo il conflitto drammatico di quelli che vorrebbero tornare a casa, ma non possono, o quelli che non sono mai i benvenuti e sempre stranieri in un altro paese – l’aspetto più triste del tema – si scopre in oltre un’ampia varietà, del tutto soggettiva, al riguardo della domanda „cosa significa per te tornare a casa?”

Così è successo a me – e vorrei parlare delle mie esperienze – sicuramente meno drammatiche e meno dolorose – con il tentativo di avvicinarmi ad un tema che più che si pensa, va a toccare il fondo della nostra esistenza.

Ammetto che all’inizio delle mie indagini mi sono limitata a definire meglio cosa significa per me letteralmente la parola CASA insieme al suo senso figurato.

Ne so qualcosa, perché in vita mia ho cambiato tante volte casa – sebbene ho trascorso tutta la mia infanzia e fino a quasi venti anni in un piccolo paese, nel verde, ben protetta dai miei genitori.

Ma dopo mi piaceva questa vita un po’ da nomade – la diversità di case e luoghi mettevano le ali alla mia fantasia – la necessità di affrontarmi e integrarmi sempre di nuovo veniva incontro alla mia curiosità.

In questo senso ho vissuto questi anni come una esperienza positiva e senza grandi conflitti – se non siano quelli personali – ma non tutti questi posti mi sono rimasti nella mente e nel cuore come CASA – e in alcuni non ci vorrei più tornare proprio. Visto da ora li potrei definire passaggi – senza alcun rimpianto.

Solo due di questi posti nel mio passato (ed erano due città, non campagna) hanno creato dentro di me questa sensazione difficile da descrivere – un sentirsi bene, appagati e in un certo senso anche sereno e protetto – un’armonia fra le proprie ‘quattro mura’, l’ambiente, i contatti sociali ecc. nonostante le cose difficili di un quotidiano. In questi posto c’è stato qualcosa in più che mi attirava – un qualcosa come l’atmosfera o meglio l’Anima del luogo – la quale si percepisce spesso prima del rendersene conto. – Solo per questi posti sento ancora la nostalgia e delle volte la voglia di tornarci. E certamente per la casa della mia infanzia della quale sento ancora l’ intensità di profumi e calore, l’incanto dei posti segreti della bambina e tanto amore – emozioni che risvegliano ancora in me la parola Casa in tutta la sua dolcezza.

Sono convinta che è stato questo ricordo insieme all’ Anima del luogo che ad un punto della mia vita mi hanno chiamato e condotto qua – dove sette anni fa pensavo di aver trovato “L’isola che non c’è”. Un pezzo di terra quasi abbandonata in piena campagna nel verde della antica terra degli Etruschi. Una natura intatta, selvatica, con frutta di ogni tipo, florida e solare, e le notti di un silenzio profondo con un cielo avvolto sopra di me con un mare di stelle. Non conoscevo ancora nessuno, stavo solo con il mio cane e tre gatti, una immensità di lavoro, l’inverno freddo con un solo camino a legna, una vita abbastanza dura, ma io contenta e felice lo stesso, convinta di essere ritornata a casa.

(Oggi è cambiato – sono circondata da vicini che non hanno lo stesso rispetto e amore per la natura – l’incanto dell’isola di una volta non c’è più e con questo si è spaventata anche L’Anima del luogo)

Arrivata con le mie riflessioni a questo punto, l’eco di un diluvio di pensieri e emozioni sfiorò la mia mente.

Non avevo sentito un riverbero di questa sensazione, di questo ’sentirmi a casa’, anche in posti dove non ho mai vissuto? Posti conosciuti in un viaggio, certi posti o città dove sapevo con imperturbabile sicurezza le vie – o un dejà vu talmente forte da togliermi il fiato – lo spontaneo incontro con persone che mi sembravano subito famigliari – un effimero intrecciato che evocava in me gioia di vivere e energia -

O il grande deserto, il Sahara, con il suo maestoso silenzio che mi ha svegliato una mia identità fino ai più profondi sogni – un immensità trasformata in me come un riverbero di Antica memoria – un sorriso, un tocco leggero, il vento portatore di voci, di gioia e dolore – il tronco di un albero immenso nel suo splendore, un riflesso sull’ acqua – il ritorno all’origine …

Il tocco dell’Antica memoria, conservatrice della storia della nostra terra e il suo posto nell’universo, che ci fa rammentare molto di più di quello che ci sembra così tanto apparente. Certo che Lei vive anche in noi come in ogni particella dell’esistenza.

Ed e Lei che ci fa percepire l’Anima del luogo (e anche l’Anima del prossimo) – e chi non crede in una rinascita potrebbe anche definirla come una memoria universale dove ogni particella, e certo anche quelle spirituali, riconoscono la loro origine e la loro ’stirpe’.

Il ritorno a casa come un percorso e una nostalgia che portiamo dentro di noi finché non abbiamo trovato gli ‘elementi’ che ci danno il segnale: Sei arrivato! Anche nel senso metaforico.

Pensare che L’Antica memoria si è nutrito da sempre di un oggi per un lontano futuro ci dovrebbe aprire la mente per la nostra esistenza. La parola “quello che hai fatto per il tuo prossimo hai fatto anche per te” non è un altruismo, anzi. Ci ricorda ai frutti del nostro fare nel bene e nel male – le tracce che lasciamo – ci ricorda la responsabilità dell’individuo verso la vita e quella Casa in comune che ci offre la nostra terra. La paura di perderla dovrebbe risvegliare l’amore per questa Madre Terra – maltrattata e sofferente.

Ma i suoi figli la sfruttano con arroganza e dispetto, calpestano e avvelenano i suoi frutti, odiano dove dovrebbero amare senza ricordarsi da dove vengono e dove vanno – ma La Madre ci offre ancora il suo abbraccio.

Ritorniamo allora a casa prima che si è fatto buio come ci dicevano le nostre madri quando siamo stati bambini – e lasciamo che la brutta parola “… vattene a casa tua!” ,tirata con odio come un sasso in testa, si trasformi in un senso positivo. Torniamo tutti quanti insieme, a piccoli passi, prendendoci per mano. Passi come quello di oggi dove L’anima del luogo ci sorride e ognuno di noi porta il suo dono: sia dolore, amore, affetto, speranza.

Grazie a Doriana – la dea ex macchina di questo incontro – che con il grano del suo pensiero ci ha fatto vedere i campi per seminare. Andiamo a lavorarci per essere meno tristi, meno soli, meno disperati.

Il topo – simbolo del sempre trafficato Terrestre – vola sulle ali del drago – simbolo dell’ Antica memoria. Due simboli spesso mal capiti nella nostra cultura – cerchiamo di amarli di più e vediamo dove ci porterà il loro viaggio … E ricordiamoci: “Nell’ universo la fine è sempre ugualmente lontana o vicina dal principio”.

Christa Efkemann

:Petition “Food Vs Feed” / “Nourrir la population Vs nourrir les animaux” / “Cibo contro alimentazione animale”

Petition ‘FOOD vs FEED’ to the UN

An appeal to the United Nations <http://www.un.org/>  and its agencies to channel available food resources to needy people and not to farm animals.

This petition will close on 20 April 2009 and be delivered on Earth Day 2009 (22 April) in New York, Rome and Geneva.

Please sign here:
http://un.evana.org/index.php?lang=en

‘FOOD VS FEED’

Dear Mr. Secretary-General,

In 1996, the “Rome Declaration of World Food Security” reaffirmed “the right of everyone to have access to safe and nutritious food”. The signatories also pledged their political will “to eradicate hunger in all countries.”

In 2008, malnutrition and starvation in many parts of the world are not only increasing but are set to reach new peaks of suffering. Dwindling and wasted crops, soaring prices, unsustainable farming practices are just some of the factors which combine to put vulnerable people at life-threatening risks.

It is not acceptable that even in a grim situation with hunger and malnutrition killing nearly six million children each year, huge percentages of available crops are still being fed to farm animals.

In the name of humanity, a responsible global community can no longer afford to invest 7-16 kg of grain or soya beans, up to 15,500 liters of water, and 323 m2 of grazing land in the production of just one kilo of beef for those with the means to pay for it. More accessible and sustainable avenues to secure food for all are desperately needed.

Unfortunately, even though the experts of the FAO consider ‘Livestock a major threat to environment’, they merely recommend different farming techniques, some of which entail the risk of damaging an already vulnerable environment even more, perhaps beyond repair.

All hungry people, many million of vegetarians and those looking for wholesome alternatives to destructive traditions have the right to expect from decision makers, governments and international bodies a scientific investigation of all available options, including vegetarianism. This resource- and life-saving lifestyle is worthy of unbiased research and promotional effort, not last because of its potential to decide the raging battle of ‘food vs feed’ in favour of humanity.

For this reason, we appeal to the United Nations and its agencies to stop ignoring vegetarianism and instead study its multi-faceted benefits, with the aim of incorporating them into future strategies for a world without hunger.

Sincerely,

signature

Please sign here:
http://un.evana.org/index.php?lang=en

“Il Ciclo della Vita” al Palazzo Baronale di Calcata: 31 ottobre – 9 novembre 2008 – Testo di Simone Sutra sul significato di questi giorni nella tradizione esoterica

Comunicati Stampa ilaria 29 ottobre 2008

“Shamain” era la festa celtica che oggi chiamiamo Halloween, e che in un certo senso stiamo celebrando qui a Calcata, in questi giorni. Per i Celti la fine di Ottobre era l’inizio dell’anno nuovo, ed era il momento in cui, per qualche motivo, il confine fra mondo visibile e al di là si faceva labile, tanto che i due si interpenetravano, e creature dell’uno o dell’altro mondo potevano sconfinare…. Da qui l’usanza, poi degenerata in superstizione, di offrire dolci agli spiriti disincarnati, che venivano sulla terra, per tenerli buoni.Che dire di questa visione del mondo? Era forse simbolica della fragile barriera che vi è fra la vita e la morte o vi era qualcosa di più?

A me sembra che essa, oltre i suoi significati puramente simbolici, ci  parli di un  tempo in cui la percezione umana  rispondeva a parametri ben diversi da quelli che raggiunge oggi; un tempo in cui la dimensione della coscienza era talmente ampia da  poter dialogare a tu per tu con un mondo parallelo. E se molti atti, molte festività, finirono per ripetersi solo per tradizione, era pur vero che esse forzatamente scaturivano da esperienze vissute, altrimenti non  ci sarebbe stato senso a perpetuarle: insomma, qualcuno, in tempi così lontani da non poter forse essere nemmeno ricordati, aveva toccato il limite tra un mondo e l’altro, e aveva compreso che , nel ripetersi ciclico di tutte le cose, vi è – o vi era – anche un tempo specifico per l’avvicinarsi e l’incontrarsi di mondi  che sono situati  su di una frequenza vibratoria così diversa, così lontana. Ma, per qualche motivo – ovviamente a noi ignoto – si producevano (o si producono) in certi periodi particolari (o forse mediante modalità particolari) aperture dimensionali fra mondo spirituale e mondo materiale. E, come nel ciclo naturale la morte e la vita si avvicendano al punto di formare un cerchio completo ( e quindi si può dire in un certo senso che si tratta della stessa cosa, perché il tempo è una realtà illusoria e quindi l’esistenza compresa fra i suoi due estremi è un continuum che ha all’interno della sua parabola un presunto inizio e una presunta fine, ma non si tratta in realtà né dell’una né dell’altra cosa, visto che un cerchio non ha inizio e non ha fine) così nello Shamain la fine dell’anno celtico veniva a coincidere- ovviamente- anche con l’inizio dell’anno nuovo, e la vita e la morte – e le creature dei loro rispettivi mondi- venivano a incontrarsi nello stesso punto. Per estensione quindi potremmo concludere che la celebrazione che avveniva in quel momento particolare dell’anno simboleggiava l’esistenza del punto d’incontro fra due realtà, che di per sé nulla ha a che vedere con il tempo e lo spazio; ma visto che la dimensione spazio-temporale domina i parametri percettivi umani, è necessariamente così che può essere filtrata dall’attrezzatura psico-fisica di cui l’uomo è dotato. D’altronde i simboli e i riti configurano il ricalcarsi di realtà pertinenti al mondo delle idee, in modalità che permettono la recezione diretta e immediata di un concetto a livello terreno. Questi “ponti” concettuali nel corso del tempo hanno persino preso aspetti monumentali quali le piramidi egizie o precolombiane, o le cattedrali gotiche volute dai Templari, in cui idealmente si uniscono il cielo e la terra.  

Col tempo la memoria di queste esperienze si attenuò: ma nella tradizione iniziatica venne perpetuata la coscienza di questa realtà presente e possibile, tramite i rituali misterici. Essi cercavano di recuperare pienamente quella sacralità profonda di cui già nell’epoca classica si stavano perdendo le tracce, sostituita da una pseudo spiritualità che tendenzialmente creava una frattura sempre più profonda fra il mondo degli dei e quello dell’uomo.

L’argomento di cui si parlerà il 9 novembre, sono gli stati alterati di coscienza, e questa è una realtà che accompagnava forzatamente i culti misterici che si riconducono, in origine, alla ricerca di un contatto con la Grande Madre, il misterioso spirito d’amore che pervade la creazione e dà un senso a tutto, che scandisce i ritmi vitali della natura   ed  è messaggero delle energie celesti; che traspone in forme e in realtà visibili le sostanze cosmiche, e che quindi , nel suo linguaggio mediato dalle forze di natura, porta a livello della nostra limitata comprensione umana le incommensurabili e smisurate verità che reggono l’universo, e che si esprimono a livelli energetici  talmente lontani dai nostri da non poter minimamente essere espresse in termini razionali. La mamma è sempre la mamma!

Possiamo ipotizzare che nell’era del Toro, dal 4000 al 2000 A.C., prima dell’avvento dei culti patriarcali di orgine indoeuropea, gli uomini avessero una percezione più viva delle realtà celesti di cui la natura si faceva interprete e che identificava nella donna generatrice di vita, come nella terra stessa, la depositaria del mistero più grande. I culti erano rivolti alla Dea, e le società stesse venivano rette da governi di tipo matriarcale. Nell’area mediterranea in particolare questo aveva portato pace e benessere (visto che le madri sono più interessate a generare la vita piuttosto che dare la morte), come attestato dai ritrovamenti archeologici relativi alla cultura minoica e alla zona  dell’Egeo e dell’Anatolia. Poi gli invasori sostituirono con i loro dei maschili, aggressivi e guerrafondai la Grande Madre, il cui culto gradualmente scemò e fu in gran parte relegato alle confraternite iniziatiche, quelle che oggi potremmo definire società segrete. Da questo punto il sacro – inteso come atteggiamento che vede in ogni cosa il riflesso del “divino”, o meglio del supersensibile, cioè di quei mondi superiori di cui il nostro mondo è una sorta di riproduzione in scala a livello energetico e che influisce direttamente sulla vita dell’uomo come parte del tutto – iniziò la sua parabola discendente, in cui fu rimpiazzato gradualmente dal profano, quell’atteggiamento in cui più nulla è “sacro”, più nulla viene identificato cioè come l’eco terreno di  più vaste realtà cosmiche, e la visione antropocentrica sostituì quella che concepisce l’essere umano come inserito nei ritmi della vita senza necessariamente essere il centro dell’universo. L’antropocentrismo si è originato con il monoteismo, che via via ha sostituito i culti pagani, assai più vicini alla vera natura delle cose e agli archetipi che configurano i vari aspetti dell’esistenza.        

Il primo culto misterico di cui ci parla la storia è quello eleusino, che si rifà al viaggio di Demetra (la dea greca della fertilità- un’immagine della Grande Madre, Cerere per i Romani) in cerca di sua figlia Persefone (Proserpina per i Romani), scomparsa nel mondo sotterraneo perché rapita da Ade, il dio degli Inferi. I “misteri” conducono l’adepto nel mondo delle tenebre, delle sue tenebre personali, affinchè possa – se non comprenderle – accettarle e integrarle nel sé come strumento di trasformazione, proprio come noi accettiamo il fatto che per sei mesi l’anno (Autunno-Inverno) Demetra, ossia la natura, piange la figlia che deve rimanere sottoterra, e le messi non crescono; mentre quando Persefone, per sei mesi all’anno (Primavera-Estate), si ricongiunge con la madre sulla superficie della terra, ecco che Demetra fa festa e ritorna la vita alla natura. Il mistero del ciclo di vita e morte non è comprensibile razionalmente, ma se ne può penetrare l’essenza, riconducendola nell’ambito della sfera personale, entrando in sintonia con una percezione più profonda. Demetra- Persefone, spesso considerata una dea duale (e quindi avrebbe in un certo senso la stessa valenza) rappresenta sia la vita , nella sua veste di Demetra, che la morte, quando si cala nei panni di Persefone: perciò essa apre e chiude un ciclo. La vita, paradossalmente, origina la morte, come Persefone è figlia di Demetra, e anzi il suo alter ego. E’ quindi un tutt’uno.

Il culto eleusino prevedeva, come apertura dei riti, una sorta di pellegrinaggio simbolico da Eleusi ad Atene, un percorso di una ventina di chilometri, per ripercorrere le orme di Demetra che fece lo stesso percorso alla ricerca della figlia scomparsa, e fu antesignano, si può dire, degli assai più corposi pellegrinaggi che videro il loro sviluppo in epoca medioevale sotto l’egida del cristianesimo. Si trattava, anche in questo caso, di un viaggio rituale, epressione del desiderio di un cambiamento interiore, un bisogno di esperienze nuove; il pellegrinaggio è la metafora della vita umana alla ricerca del senso del proprio procedere. Nel viaggio ogni segno diventa la manifestazione di un ordine invisibile che offre risposta a un interrogativo interiore, come se, per qualche istante, il mistero possa rivelarsi e dare responsi.

Ed ecco che gli aspiranti all’iniziazione erano sottoposti a varie prove, compresa una morte simbolica, ed ecco che veniva loro data da bere una mistura di erbe psicotrope, perché la loro coscienza, nello stato alterato, si allineasse con quelle verità che un tempo lontano l’uomo poteva percepire nel suo stato “normale”.

Nel tempio di Delfi, in cui si ricevevano gli oracoli di Apollo, la Pizia (la sacerdotessa incaricata di fare da ricettacolo per i messaggi del dio- ancora una volta una donna: evidentemente si riconosceva all’elemento femminile una maggiore assonanza con la dimensione “altra” ) prima di ogni sessione profetica digiunava per tre giorni, dopodichè assumeva una mistura di erbe che, unitamente ai vapori inebrianti che uscivano da una fenditura nel pavimento dell’”adyton”, il luogo in cui si svolgeva il rito, le provocavano una vera e propria “trance” che serviva evidentemente a travalicare i limiti della coscienza ordinaria per addentrarsi nel terreno soprannaturale in cui si percepivano bagliori di rivelazione e si esperivano realtà precluse al quotidiano.   

Poi vennero i culti dionisiaci, in cui l’ebbrezza del vino provocava alterazioni molto  più radicali e meno composte: si potrebbe anche pensare che i culti dionisiaci siano una degenerazione dell’uso dell’alterazione della coscienza, ma in realtà servivano ad esplorare i limiti che dividono anima e corpo, sanità e follia, come momenti di crisi ma anche di opportunità e crescita. Forse il precipitarsi da un estremo all’altro, caratteristico dei culti dionisiaci, che vedevano momenti di euforia seguiti a momenti di depressione, di estrema agitazione e poi di calma innaturale, serviva proprio a far capire quanto fosse labile il confine fra una vita e l’altra, o meglio fra la vita e la morte. Il segreto è riuscire a camminare sulla linea di confine. In ogni caso anche i misteri dionisiaci, come quelli eleusini, rievocavano momenti di sprofondamento nella morte per poi celebrare il ritorno alla vita.

Che dire, poi, degli sciamani del nuovo mondo, tutti iniziati, da secoli, all’uso rituale del peyote (in Messico) o dell’Ahiauasca (in Brasile?). Non c’è cultura “primitiva” (leggi: legata alle radici dell’uomo) che non usufruisca di questi elementi presenti in natura per catapultarsi verso realtà precluse alla normale percezione dell’uomo.

E lo sanno molto bene quanti hanno fatto parte della cultura hippy degli anni sessanta-settanta (come per esempio il sottoscritto) che tentavano di esplorare realtà alternative alla piattezza di un sistema materialistico organizzato come una prigione per l’anima, mediante l’uso delle cosiddette “droghe” psichedeliche. In realtà il drogarsi, e cioè l’essere schiavi di una sostanza, è tutt’altra cosa, poiché i “figli dei fiori” non ricercavano l’ebbrezza di per sé, ma utilizzavano l’alterazione della coscienza come mezzo per espandere la consapevolezza del sè ed entrare in quegli stati percettivi che sentivano li avrebbero messi in contatto con le realtà superiori di cui, forse, sentivano un’ancestrale nostalgia.  Questo perlomeno era l’intento di Timothy Leary, colui che produsse per primo l’LSD, e di tutti coloro che lo utilizzavano come porta d’accesso a un sacro viaggio dentro di sé. 

Ogni cosa ha il suo tempo, e come l’iniziazione misterica mediante piante psicotrope, anche quella psichedelica è diventata un vestito dismesso: ma la coscienza rimane, ed ha bisogno, in qualche modo, di espandersi .

Io credo che la spiegazione sia questa: in conformità con la legge di attrazione, secondo la quale noi attiriamo nella nostra sfera personale le esperienze e le conoscenze di cui più abbiamo bisogno (non necessariamente quelle che ci piacciono di più) le piante psicotrope furono scoperte dall’uomo (oppure gli furono “date”?) nel momento in cui egli si accorse che nella sua struttura interiore era venuto a mancare quel qualcosa che gli permetteva di percepire in maniera molto chiara le realtà “celesti”, le voci e le presenze di mondi superiori e lontani quanto a valenza energetica, ma non per questo irraggiungibili, perché è anzi proprio il contatto con questi mondi che ci può trasformare  e proiettare verso ciò che siamo destinati a diventare.

Possiamo dunque dire che è (o meglio era) insita nell’uomo la capacità di relazionarsi direttamente a forme superiori di conoscenza e di energia-spirito in quanto parte stessa del suo bagaglio interiore, animico: ma un’obnubilamento della coscienza lo impedisce da tempo immemorabile, e la nostra sfida, ancor oggi, è recuperare quella parte di noi. Molti miti parlano, in forme diverse, di una “caduta” come quella edenica, che innalzò una cortina fra la percezione diretta del divino e l’uomo. Tutti i miti mascherano qualche primigenia verità, anche se chiaramente alcuni di essi sono stati volutamente manipolati o hanno subito alterazioni nel corso del tempo. Certo è che la scissione fra una percezione superiore e quella ordinaria deve aver avuto luogo in qualche momento dell’esperienza dell’uomo, poiché egli, in ogni civiltà e in ogni tempo, ha sempre ricercato questa relazione con il soprannaturale, come a chi viene amputato un arto inizialmente si comporta d’istinto come se ci fosse ancora. E’ la parte “con accesso negato” dell’uomo.

Oggigiorno in particolare, come contraltare al trionfo del materialismo, si moltiplica il numero di chi cerca quelle risposte che può solo trovare dentro sé, ma il cammino non è più quello degli “aiuti” esteriori. Si tratta invece di un lavoro molto più faticoso, un itinerario tutto interiore alla ricerca di se stessi che comporta dedizione pressocchè totale e scelte ponderate che possono reintrodurre  nella coscienza quegli stati che oggi chiamiamo “alterati” e che si possono presentare come esperienze “picco” in occasioni particolari, ma di cui ci potremmo reimpossessare, mediante il paziente lavoro su noi stessi, come realtà ordinaria dell’anima. La conoscenza di sé porta necessariamente alla trasformazione. Questo è  il prossimo passo dell’evoluzione umana? 

Nota:

Simone Sutra, l’autore di questo testo sarà presente il 9 novembre 2008 al Palazzo Baronale di Calcata,  dove alle h. 15.30 si terrà una tavola rotonda sugli stati di coscienza “altri” (pre-morte,  meditazione, allucinazione, samadhi, visione, divinazione, etc.), partecipano: Athon Veggi, Elke Colangelo, Ilaria Gaddini, Laura Lucibello.   Al termine dell’incontro ed in chiusura della manifestazione “il Ciclo della Vita” e della mostra “Morte e Rinascita”  si terrà un piccolo rinfresco vegetariano con le leccornie che ognuno vorrà portare.   Si ringrazia il Parco Valle del Treja per l’ospitalità, le associazioni Apai e Amart per la colaborazione artistica, gli artisti ed i relatori ai vari incontri, le  Istituzioni che hanno patrocinato moralmente,  i Media che hanno aiutato a promuovere questa edizione de “Il Ciclo della Vita”.  

Au Revoir a la prochaine!

Paolo D’Arpini

Gianni Donaudi, il santo che stava su internet…

Poems and Reflections ilaria 28 ottobre 2008

Storia di Donaudi Gianni,  il volontario torinese dell’informazione telematica socialmente utile.

Vi ho già parlato di una raccolta che sto scrivendo dei miei incontri con i santi, uomini e donne, animali e cose, incontrate durante la mia vita e che mi hanno insegnato qualcosa. Solitamente si crede che un santo debba per forza essere qualcuno che con amore e dedizione si occupa delle faccende divine e  spirituali… ma  come queste cose vengano inserite nella categoria del “divino e spirituale” è un’assunzione mondana del nostro concetto su quel che appartiene alle dette categorie. 

La spiritualità non ha confini precisi, si manifesta in ogni atto che riflette l’abnegazione di sé, come individuo privo di interesse egoico,  e che manifesta l’amore sottile per
gli altri e  ciò che ci circonda. Ho dovuto fare questa premessa per spiegare il motivo per il quale inserisco fra le mie memorie spirituali l’incontro -fisicamente mai avvenuto-  con Gianni Donaudi, un volontario della comunicazione telematica.

Gianni Donaudi vive a Torino, è una persona schiva nel parlare di sé, io l’ho incontrato  su internet, mi sono accorto della sua esistenza  quando ho notato che mi arrivavano delle mail  da lui spedite, in cui si rilanciavano
vari discorsi sull’ecologia, umanità, spiritualità, etc. Insomma lui non fa altro che riprendere notizie utili nelle quali si è imbattuto o che qualcuno gli ha inviato e le rilancia ad una rosa di indirizzi da lui pazientemente
raccolta.

Una volta, dopo aver notato la sua dedizione alla causa, gli chiesi di scrivermi qualcosa di se stesso in modo da ricavarne un articolo sulla sua esperienza, lui mi rispose schernendosi dicendo che non aveva tempo di scrivere cose sue  “giacché era troppo impegnato a rilanciare i messaggi degli altri”.

Scoprii in seguito che Gianni Donaudi è un operaio in pensione ultrasessantenne, non ha il computer e per svolgere il suo lavoro di “volontario” deve andare agli internet points. Non ha specifiche idee da divulgare, cioè non è
partigiano né politico, qualsiasi cosa attragga la sua attenzione e sia nel “campo dello stato sociale” -com’egli afferma-  viene da lui inoltrato, facendo spesso una cernita nel suo indirizzario, cioè mandando le notizie in sintonia con gli interessi di ogni persona. Questo lavoro certosino dedicato alla causa dell’informazione, gli porta via tempo e denaro, è il suo modo di manifestare un impegno umano, ora che ha già  compiuto quello sociale verso il lavoro e la famiglia. Non è facile raccontare una storia di una persona
come Gianni che narra se stesso a monosillabi…

Me lo immagino talvolta che  gira per Torino in cerca di un internet caffè, sotto il braccio la sua lista di indirizzi, segnati a penna, l’aria svagata di chi non ha scopi, eppure attento e cortese nell’individuare ed aiutare gli scopi altrui….

Ho abitato anch’io, nel 1965 o ‘66 (in una soffitta di
Via Gioberti)  nella città della Mole Antonelliana ed ho in mente una certa toponomastica: le piazze larghe, le vie trionfali, il fiume, il Valentino, la stazione…  Ecco immagino talvolta di aver conosciuto nel mio girovagare
di quegli anni un operaio mio coetaneo, un tal Gianni Donaudi, incontrato in Via dell’Arsenale,  abbiamo scambiato forse qualche parla sul tram, forse ci siamo incrociati nel parco, chissà… Oggi me lo figuro nella mente mentre
vaga nelle strade dei miei ricordi, intento a compiere il suo dovere altruistico. Informando la gente su internet di questo o quel problema, di questo  o quel programma sociale, di questa o quella proposta per migliorare la qualità della vita.  Nel corso di quest’ultimo anno in cui ho appreso ad
apprezzare la sua opera divulgatoria, mi sono accorto che alcuni degli indirizzi ai quali lui,  sempre in destinatario A,  dirama i messaggi (che anch’io talvolta gli mando)  sono già a me conosciuti, magari sono amici che non sento da tempo, ad i quali non scrivo nemmeno più giacché non ricevo mai da loro una risposta.  Per  Gianni Donaudi, la risposta non è importante, l’importante è che il messaggio venga ritrasmesso, e mi pare che nessuno mai si sia lamentato di questo suo lavoro. L’abnegazione viene inconsciamente
riconosciuta da tutti. Insomma, lui è un venerabile dell’informazione utile e lo inserisco volentieri fra i santi da me conosciuti.

Spero che un giorno io possa incontrarlo per davvero e non solo nei miei sogni ad occhi aperti, magari in una rimpatriata di amici torinesi… Claudio e Daniela Viano, Luisa Moglia, Uomini in Cammino, e…. lui… Gianni Donaudi,  per l’appunto.

Paolo D’Arpini
circolo.vegetariano@libero.it