Sul presente sito molto è stata trascurata la storia e le notizie sulla geografia e società di Calcata. Volutamente ho tralasciato questi argomenti perché non era mia intenzione fare un sito su Calcata, ce n’é già più d’uno… Anche se -debbo dire- il primo sito su Calcata venne messo in rete proprio da noi del Circolo VV.TT. e si chiamava http://www.calcata.net/. Questo avveniva nei primi anni ‘90 del secolo scorso, quando internet era ancora un esperimento. Poi il dominio fu da noi abbandonato, ripreso da qualcun altro e poi ancora abbandonato… insomma debbo dire che della presenza su internet ho iniziato ad interessarmi solo nel 2007. Ovviamente molto prima di quella data avevo scritto e raccolto testi storici su Calcata, siccome ho avuto la fortuna di ricevere informazioni di prima mano da varie fonti mi sembra utile e necessario che almeno una parte di quel materiale venga qui presentato.
Questi testi che seguono (assieme ad altri che conservo nel cassetto) sono stati da me raccolti per un libro che doveva essere edito dal Circolo Vegetariano VV.TT. e chiamarsi “I racconti della città invisibile” (speravo di pubblicarlo con l’ausilio del Comune di Calcata e del Parco Valle del Treja alla fine degli anni ‘90 del secolo scorso). Purtroppo quel libro non solo non venne pubblicato ma tanti articoli vennero persino copiati e riutilizzati per pubblicazioni tardive di altri autori…. Pazienza… comunque non è mai troppo tardi e vi sottopongo perciò questi due saggi che almeno potranno far luce su alcuni aspetti interessanti della storia calcatese (e perché no… anche del Circolo).
La storia di Calcata secondo le scritture…..
Calcata è un piccolo paese posto ai confini meridionali della provincia di Viterbo, e dista dal capoluogo circa sessanta chilometri. Sembra uno dei tanti castelli da presepio con le caselle antiche le une addossate alle altre, e sorge su un poggio (172 mt. s.l.m.) tagliato da profondi burroni: tutt’intorno è il verde delle acacie e dei castagni. La popolazione (626 ab. nel dicembre 1966) è dedita all’agricoltura e soprattutto alla pastorizia: infatti si scorgono frequentemente scavi nel tufo a forma di caverne per il ricovero degli animali. A Nord-Ovest scorre un piccolo fiume, ramificazione del Tevere, il Treja, importante per l’irrigazione dei campi (da notare che sotto Calcata confluisce nel Treja anche il Fosso della Mola n.d.r.). Il territorio, di 767 ha, (il più piccolo territorio della provincia dopo quello di S. Giovanni in Tuscia) confina con Nepi, Castel S. Elia, Faleria, con Mazzano Romano (a pochi chilometri più a Sud, vicino alla via Cassia vi è il rumoroso autodromo di Vallelunga n.d.r.).
La chiesa parrocchiale è intitolata ai SS. Cornelio e Cipriano (in verità al Santissimo Nome di Gesù n.d.r.). A Nord di Calcata, passato il Treja, su una piattaforma di tufo circondata da precipizi vi e una caratteristica chiesetta, ora abbandonata (un tempo dedicata alla Madonna, si tratta di Santa Maria n.d.r.) risalente al secolo XIV. Nel territorio si trova un’interessantissima necropoli etrusca (in verità è una necropoli falisca n.d.r.) dalla quale provengono numerosi reperti conservati nel museo di Villa Giulia in Roma. Probabilmente Calcata sorse in tempi antichissimi e non è errato pensare addirittura a una sua origine etrusca (aridaje…. si tratta di Fescennium la mitica città falisca n.d.r.). Ma abbiamo notizie certe del castello solo dal 974, come uno dei tanti territori destinati ad essere sfruttati, dati in pegno, tolti o venduti dai Signori del tempo. Proprio in quell’anno il papa Gregorio, in una cessione di beni di Ruciliano, offre Calcata all’abate S. Gregorio di Roma. Per un certo periodo si chiamò «Castrum Sinibaldorum », castello dei Sinibaldi, in quanto Pietro e Ottone, appartenenti a questa antica famiglia, furono affittuari delle terre vicine di S. Biagio a Nepi. Il Castello è ricordato più tardi come tributario della Chiesa nel «liber censum» del 1192; poi i documenti ci riportano al 1291 quando Lanfranco di Scano, collettore dei censi della Chiesa, descrive sul registro il castello caduto in rovina come appartenente al conte Anguillara: quando vi fu il passaggio dalla famiglia dei Sinibaldi a quella degli Anguillara? E perché il castello venne distrutto?
Ci è noto che il castello si chiamava di già Calcata (i) quando passò agli Anguillara; perché quindi tralasciò il nome di «Castrum Sinibaldorum» allora, sotto gli antichi padroni, e non dopo come sarebbe più logico? I documenti tacciono ancora per molto tempo finché nel 1432 troviamo il paese riedificato e ancora appartenente a quei signori; proprio quell’anno gli Anguillara lo diedero in permuta Pensoso, “ricevendone in cambio un terzo del Castello di Monteranno”, inspiegabilmente il Castello non fu consegnato e restò ancora in possesso dei baroni. Sfuggì poi alla confisca del Papa Paolo II proprio perché appartenente, agli Anguillara di Stabia, ultimo ramo della famiglia. Carlo, figlio di Lorenzo Anguillara e Arfisia Sinibaldi, non avendo eredi ed essendo egli stesso l’ultimo discendente, vendette Calcata ai parenti della madre nel 1734. È da notare che la vendita era stata autorizzata dal papa Alessandro VII già dal 1659; ma allora non si fece. Così il Castello dopo molti secoli tornò ad essere il «Castrum Sinibaldorum». Passò poi in eredità ai Massimo e infine, nel 1828, ai Massimo Colonna, ultimi signori del luogo (fatto curioso del destino volle che un ultimo rampollo di questa famiglia, Stefano Massimo, sia ora ritornato a Calcata dove risiede per 6 mesi all’anno n.d.r.).
La Reliquia di Gesù: il Prepuzio…. (e che prepuzio…)
A Calcata, che come abbiamo visto è uno dei più piccoli e modesti paesi del Viterbese, si conserva (si conservava poiché la reliquia è “scomparsa” a metà degli anni ‘80, ma di questo parleremo in una altra sessione successiva n.d.r.) la più importante reliquia corporea di Gesù: una particella minuscola di carne che venne recisa al Bambinello durante la circoncisione e misteriosamente conservata per circa duemila anni. Com’è noto, presso gli Ebrei la circoncisione era una pratica soprattutto religiosa e spesso le famiglie usavano custodire il piccolissimo frammento, un po’ come in certi luoghi si usa oggi conservare per qualche tempo il primo dentino caduto al fanciullo. Così, anche la Madre del Redentore tenne presso di sé la Reliquia, alla quale aggiunse, poi, alcune gocce del sangue divino raccolte sotto la Croce. Sull’esistenza, sulla storicità, sulle conseguenze di ordine teologico connesse con tale frammento dell’umanità di Cristo, è stato a lungo discusso: S. Tommaso e S. Bonaventura affermano che Gesù «onni integritati resurrexit», ma che l’esistenza di questa Reliquia in terra non contrasta con l’integrità della Resurrezione, in quanto il Redentore « risorse quale visse ». Quali prove.possiamo avere sull’autenticità della Reliquia stessa, come possiamo veramente, davanti al prezioso scrigno che la contiene (anche il prezioso scrigno è scomparso e ben prima della reliquia n.d.r.), mormorare commossi «qui dentro si conservano una particella del corpo di Gesù e alcune gocce del suo sangue divino? Non è possibile, ovviamente, basarsi su una rigorosa documentazione storica: c’è però una tradizione di secoli che parla in favore della Reliquia, e soprattutto ci sono i prodigi, – i misteriosi segni del soprannaturale – che sono fioriti intorno ad essa; anche qui, insomma, è questione di fede: «beati quelli che credono…».Ma a questo punto il lettore vorrà certamente conoscere come la preziosa Reliquia sia potuta giungere fino a Calcata. Dopo la morte di Maria, le gocce del sangue di Gesù e il frammento della sua carne vennero custodite da S. Giovamni. l’apostolo prediletto, e da questi dovettero poi passare in altre mani devote; così amorosamente conservate di generazione in generazione, pervennero a Carlo Magno che le recò dapprima nella chiesa di S. Maria in Aquisgrana, poi in una chiesa da lui fatta edificare appositamente nella diocesi di Poitiers. In occasione della sua incoronazione l’Imperatore le donò a Leone III che le collocò nella cappella di S. Lorenzo detta «Sancta Sanctorum ». E qui rimasero alla venerazione dei fedeli per oltre sette secoli. Nel 1527 durante il famoso «sacco di Roma» le soldatesche fuggirono con parecchi reperti e ricchezze (omissis). In particolare un lanzicheneccho rubò un cofanetto ripromettendosi d’aprirlo con comodo per venderne poi il contenuto. Giunto nei pressi di Calcata venne però arrestato da alcuni contadini armati e rinchiuso in una grotta. Timoroso delle conseguenze che avrebbero potuto nascere se gli avessero trovato indosso la refurtiva, nascose allora la cassettina nella grotta, e quando venne liberato preferì lasciarvela, forse pensando di recuperarla poi, in tempi migliori. Tornato a Roma il soldato cadde invece gravemente ammalato, e in punto di morte confessò a un sacerdote il furto commesso; ma non seppe indicare la località dove aveva nascosto il cofanetto, se non che questa doveva trovarsi nei pressi di un Castello appartenente ai signori Anguillara. Del fatto venne subito informato Clemente VII il quale diede ordine a Giovan Battista Anguillara che nei suoi feudi di Stabbia, di Mazzano e di Calcata, si facessero diligenti ricerche, ma queste, per lunghissimi anni non dettero alcun risultato.
Finalmente, nell’ottobre del 1557, fu proprio il parroco di Calcata che rinvenne nella grotta il cofanetto prezioso. Il Moroni così racconta l’avvenimento: (i) «il sacerdote portò il piccolo scrigno lungo mezzo palmo e alto 4 dita, a Maddalena Strozzi moglie di Flaminio Anguillara allora dimorante a Stabbia. L’aprì la dama alla sua presenza, di Clarice sua figlia di circa otto anni e di Lucrezia Orsini, vedova del sunnominato Giovar Battista, e vi trovò degli involtini di tela ciascuno con cartine co’ propri nomi difficili a leggersi come logori dal tempo…
Un fagottino bianco avea scritto il venerabile nome di Gesù, ma inutilmente la dama tentò di scioglierlo, per due volte irrigidendosi le mani. Sorpresa dell’avvenimento, pregò Dio a sua gloria di farglielo sciogliere, ma le dita nuovamente divennero immobili. Rimasti tutti i presenti stupefatti, disse Lucrezia forse contenere la reliquia di Cristo, la cui ricerca avea Clemente VII commessa al suo defunto marito. Appena ciò detto, uscì dall’involto una soave fragranza e così acuta che tosto sì diffuse per tutto il palazzo. Tutti smarriti pel nuovo prodigio, consigliò il sacerdote di farne tentare l’apertura alla verginella Clarice, la quale felicemente sciolse il gruppo,
ed apparsa la reliquia la depose in un bacile d’argento, … e l’olezzo che, tramandò di grato odore, durò due giorni nelle mani di Clarice e di sua madre. Da questa si collocarono poi le SS. Reliquie in nuove borsette di seta, e ripostele nello scrigno le restituì al parroco onde le riportasse a Calcata, e ponesse alla venerazione de’ fedeli nella chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano, ove presto Dio operò strepitosi miracoli. I due principali prodigi sono: Quando la contessa Maddalena Strozzi recatasi a Roma per ragguagliarne Paolo IV, questi inviò subito a Calcata per riconoscerne l’identità.
Pipinello e Attilio della famiglia Cenci canonici della basilica Lateranense. Giunti a Calcata ed eseguito con atto pubblico il riconoscimento, Pipinello Cenci provò a spremere la Reliquia per osservare se fosse arrendevole, ma avendola troppo compressa si divise in due parti, rimasta l’una grossa quanto un piccolo cece l’altra come un granellino di seme di canapa (la canapa era coltivata estensivamente a Calcata sino al 1946 anno in cui fu proibita e le sementi consegnate alle truppe alleate per la distruzione. n.d.r.)”.
A quel fatto sembrò sdegnarsi il Cielo (e benché fosse uno de’ giorni più sereni di primavera) oscurandosi all’improvviso, accrescendo lo spavento di tutti con tuoni e folgori. Cessato il sagro terrore la SS. Reliquia fin riposta a suo luogo. Il secondo
prodigio avvenne nel 1559 allorché il primo gennaio alcune donne della compagnia di S. Orsola di Mazzano, un miglio distante da Calcata, si portarono processionalmente a venerarla, con molti uomini e fanciulli, portando torce e candele accese. Ottennero di vedere la Reliquia, ma posta sull’altare dall’arciprete, sorse istantaneamente una nuvola che la ricoprì in un attimo ed il sacerdote uscito di sensi, e si dilatò per tutto il tempio con tanta densità che ninno vide il vicino, durante quattro ore. Nel qual tempo qua e là scorsero stelle e lampi di fuoco. Abbagliati e tra gemiti, si suonarono le campane per invitare i paesi circostanti a vedere il portento, e non bastando agli accorrenti la Chiesa, scoprirono il tetto per ammirare l’avvenuto miracoloso…».
Naturalmente i Canonici Lateranensi vollero in seguito recuperare la Reliquia per riporla di nuovo nella loro basilica, ed invitarono, con il permesso del Papa, alcuni messi a Calcata; gli abitanti però vi si opposero fermamente e Clemente VIII ritenne
opportuno accogliere la loro richiesta e lasciare che l’insigne Reliquia rimanesse per sempre là, nel paesino dove era stata ritrovata (i).
1 ) Forse il Castello prese il nome di Calcata per la località depressa in cui è collocato.
2) Moroni, Dizionario storico-ecclesiastico.
3) Speciali indulgenze vennero concesse da Sisto V, da Urbano VIII, da Innocenzo X, da Alessandro VII: Benedetto XIII nel 1724 estese l’indulgenza in perpetuo, come si legge da una lapide posta nella chiesa dei SS. Cornelio e Cipriano, per la venerazione della Reliquia che «dentro una custodia conservasi amovibile, ricoperta sempre di ricco velo, sostenuta da due Angeli in piedi dell’altezza di mezzo palmo su base alta due dita e piana di massiccio argento dorato con merletto d’oro, a figura di vaso ovale con piede proporzionato che si apre a guisa di scatoletta, servendogli di coperchio imperiale corona arricchita di gemme preziose. Nella concavità interna dell’urna, foderata di taffetano bianco, sur un pulito cristallo si scorge a meraviglia la Reliquia aspersa di sanguine stille e rosseggiante».
(Moroni, op.cit.)
Ecco, questa è una bella testimonianza storico religiosa e vi invito a conservarla gelosamente nei vostri scrigni telematici (e non solo).
Ciao a tutti ed alla prossima…..
Paolo D’Arpini