Dialogo a distanza fra Etain Addey e Paolo D’Arpini
“Orfani della foresta…”
Paolo D’Arpini ha vissuto per molti anni nelle grotte di tufo della Tuscia è stato quindi forse la persona giusta per farci camminare nella Macchia Grande di Manziana come meditazione preparatoria al forum sull’ecologia profonda e spiritualità laica da lui organizzato recentemente (18 e 19 aprile 2008) fra Calcata e Manziana.
Mantus era il dio del Mondo Sotterraneo degli etruschi e pare che il toponimo di Manziana, paese a nord di Roma, derivi dal suo nome, anche perché è in quella foresta che si trova la caldara fumante che è l’entrata nel Mondo di Sotto. La Macchia Grande è unica in Europa, da secoli miracolosamente risparmiata dal taglio lasciando così intatta una parte della foresta d’alto fusto che, agli albori del neolitico, copriva l’intera penisola italica. E quando mai può succedere di poter camminare in pianura dentro un bosco europeo, con alberi decidui alti centinaia di metri, con tronchi impossibili da misurare con le braccia? Si entra nel bosco ed improvvisamente si perdono tutti gli strati superficiali della propria personalità, ogni velo dietro al quale noi moderni ci nascondiamo. La sensazione fortissima è quella di trovarsi a casa, nell’habitat originario, nell’ambiente che appare solo nei nostri sogni…
L’uomo di medicina Rom, Patrick Jasper Lee, afferma che l’inconscio degli europei è impregnato di questo ambiente boschivo, che è lo stesso delle nostre favole, dove fra le querce ed i frassini, i carpini ed i lecci, appaiono il lupo e l’orso, il cervo e la lepre, il cinghiale, la volpe ed anche l’orco, la strega, le fate, la capanna solitaria, il castello incantato… Questo scenario interiore rispecchia un nostro mondo esteriore, così come fu vissuto dopo l’arrivo dall’Africa per millenni dai primi gruppi umani che popolarono l’Europa cinquantamila e forse più anni fa. Quello fu il nostro mondo selvatico che ci nutrì, ci riparò e ci insegnò come vivere.
Mi ha sconvolto vagare sotto quella volta verde altissima, affondando i piedi nel tappeto fitto di ciclamini in fiore. Sarebbe stato facile perdersi se non vi fosse stato con noi chi conosce bene quel bosco, ma la tentazione di lasciarsi andare alla propria solitaria via è stata forte… Non avrei mai immaginato che un bosco potesse commuovermi come è successo in quello di Manziana, era come se l’inconscio riconoscesse immediatamente la sua matrice, la sua origine, e per la prima volta ho sentito come noi tutti siamo “orfani” di questo specifico habitat, come dolorosamente esso ci manchi nella vita quotidiana e come ci sentiamo subito riaccolti il momento in cui lo ritroviamo. Ho dimenticato il numero di ettari ricoperti dalla foresta di Manziana, forse l’ho dimenticato apposta poiché mi fa male sapere i suoi reali limiti, nella mia mente essa è senza dimensione.. Ecco dove sono le nostre radici spirituali.
Che si usi la definizione di cattedrale riferita ad un bosco è una metafora tristemente impropria, casomai è vero il contrario! Questa considerazione inoltre ci suggerisce qualcosa circa il significato di “spiritualità”, ossia quella “dimensione” che ci fa vivere fisicamente il mondo selvatico.. rinverdendo così la nostra interiorità. Forse è ignorando questo, che quando gli inglesi giunsero in Australia non capirono la spiritualità degli aborigeni. Scrisse il capitano Hunter nel gennaio del 1788: “Non siamo riusciti a scoprire quale potesse essere l’oggetto della loro adorazione, né il sole, la luna o le stelle sembrano interessarli più degli altri (!) animali che abitano questo vasto paese”. Certo fu impossibile per un europeo cristiano dell’ottocento penetrare e comprendere lo sguardo di chi vedeva il sacro in ogni essere ed in ogni paesaggio.
Tornando al convegno in programma, quando nel pomeriggio giunse l’ora dell’incontro, tenutosi poi nella sede dell’Università Agraria di Manziana, il gruppo dei viandanti fu lacerato dalla necessità di uscire dal bosco, difatti alcuni partecipanti rinunciarono all’appuntamento e continuarono a disperdersi nella foresta, specialmente chi aveva con sé dei bambini, giustamente essi sentivano che era meglio vivere la vita che parlarne!
Infine, con l’incertezza di lasciare il vero per il finto, un nutrito gruppo di persone, fra cui io stessa, Maria Castronovo, Luisa Moglia, Peter Boom ed altri abitanti della Tuscia ci siam ritrovati a dialogare sulle nostre origini, da dove veniamo e cosa facciamo per sentirci “a casa”. E cosa vuol dire “essere del posto”? Significa solo esserci nati? Peter aveva iniziato a parlare di pan-sessualità ma non siamo riusciti a tornare sull’interessante argomento giacché pian piano è venuto fuori che ognuno dei presenti era un “forestiero” ovvero non nato nel posto, tutti condividevano l‘esperienza di essere immigrati dal mondo urbano, ri-abitando cittadine e paesi e campagne della Tuscia, spesso non sentendosi accolti o capiti dagli abitanti originari. Questo tentativo di ritrovare una patria nei luoghi scelti per vivere era il sentimento comune dei partecipanti. Si percepiva dolore nei racconti di chi desiderava abbracciare e farsi abbracciare da chi lì viveva, sentendosi però frustrato in questo, trovandosi di fronte ad un lunghissimo “esame” o apprendistato per riuscire a diventare “nativo” ed accettato dagli altri.
Marco, che abita da anni a Blera, ha suggerito una soluzione raccontando la sua esperienza di lunga vita in campagna, facendosi accettare dal luogo stesso, ma forse questo gli è stato possibile perché il suo lavoro è rivolto alla terra… Il fatto è che non è più nostra consuetudine cercare l’accordo con il luogo, considerandolo primario alla vita, solitamente riteniamo che sia la comunità a doverci accettare. Ma in verità il contenitore vero della nostra vita fisica e psichica è proprio il luogo, l’ambiente naturale, che ci ripara e nutre ed istruisce, se siamo pazienti e capaci di ascolto. Questa percezione alla quale siamo giunti forse era stata resa possibile proprio da quella camminata nel bosco, forse lì ci era stato trasmesso che esiste uno “spirito” presente nel luogo al quale rivolgerci per compagnia, cibo, insegnamento. Personalmente non amo la parola spiritualità né il termine laico, ritengo infatti che certe sensazioni vadano vissute e non spiegate, ma se esiste una “spiritualità laica” per riconoscerla basta guardarsi attorno e ricordarsi di far parte di una rete di relazioni, di umani e non umani, che comprende sempre il luogo in cui si manifesta.
Etain Addey
“Eccoci qui ed ora….”
Etain Addey, che abita in un vallone solitario dell’Umbria, possiede il raro dono di saper trasmettere le immagini. Questa è una funzione sciamanica, la capacità di emettere forme pensiero rendendole visibili nella mente altrui. Questa è anche la capacità del poeta, dell’artista o di chiunque “rinunci” alla descrizione logico analitica attingendo direttamente all’inconscio. Ed è perfettamente vero che lo Spirito non può essere descritto ma solo sperimentato e qui mi fermo alle sue ultime evocazioni, da cui “appare” che il luogo non è diverso dal sé attraverso il quale viene sperimentato, od almeno così mi sembra. Permanendo in quello stato “naturale” in cui ogni differenza fra veggente e visto scompare. Ed a questo punto che senso ha continuare a tentare di descrivere l’indefinibile (a causa della limitazione della mente)? Quel che “è” è pura e semplice coscienza, né persona né luogo, né uno né due … e nemmeno zero!
Lasciamo quindi da parte la metafisica onirica e parliamo veramente del “luogo” -della bioregione Tuscia in cui ci troviamo. La “nostra” terra viene oggi inquinata e svilita in vari modi, con le onde elettromagnetiche della condotta di Radio Vaticana, con le discariche avvelenate nelle cave dell’Agro Falisco, con le ciminiere puzzolenti di Montalto di Castro e Civitavecchia, con i pesticidi usati nelle monoculture, con la mega antenna che Raiway vuole istallare a Blera, con gli espropri di orti biologici per costruire inutili capannoni espositivi. A ciò si aggiunge l’incipiente rischio di aeroporto per voli low cost a Viterbo città e la edificazione di inceneritori per rifiuti. Poi ci sono i vari scarichi fognari non o mal depurati di parecchi comuni, pozzi artesiani non controllati e soprattutto il continuo pompaggio di acque profonde operato da vari enti e dalle industrie di acque minerali, che contribuiscono ad impoverire le falde sotterranee e consentono all’inquinamento di scendere sempre più…. giù, sempre più giù!
Se vogliamo che il fascino della vita in questa terra di Tuscia abbia un senso e sia possibile anche per le generazioni future è giunto ora il tempo di scelte improcrastinabili, legate alla nostra alimentazione ed abitudini, al tipo di beni di consumo utilizzati, al nostro approccio generale nei confronti della vita. Il riconoscimento del valore del nostro habitat, in quanto fonte di vita, è semplicemente necessario poiché noi non siamo separati da esso, non siamo alieni su questa terra che cos’ brutalmente e stupidamente distruggiamo, tutto ciò che vien fatto di male ad essa lo facciamo a noi stessi. E non basta dirlo che “dobbiamo diminuire il consumo e limitare la sudditanza energetica”. Economia non sono chiacchiere o speculazioni, economia significa “dare un nome all’ambiente” e ciò che ha un nome ha pure una funzione ed è vivo, anzi è l’unica risorsa vitale.
E qui debbo per forza inserire un’altra -per me- importante considerazione sul rapporto ecologico con l’habitat ed i suoi abitanti tutti.
Comincerò dagli “animali da compagnia”. Occorrono 750 scatolette di cibo per cani o gatti per avere l’equivalente in peso di una persona di media taglia (ossa escluse). Quindi dopo aver dato 750 scatolette ai nostri “pets” è come se avessimo ucciso una persona dandola loro in pasto. Sembra crudele ed esagerata una simile comparazione, il fatto è che dal punto di vista della vita non fa differenza fra un vitello od un uomo. In verità i cani ed i gatti nella nostra società non sono più “animali” sono semplici appendici dell’umano. Sono il nostro tentativo maldestro di giustificarci con noi stessi e con la natura. Quanti cani e gatti potrebbero sopravvivere naturalmente se non fossero da noi nutriti a scatolette? E perché li nutriamo? Per quest’ultima domanda la risposta è semplice: abbiamo bisogno della loro complicità per sentirci “normali” (a posto con il conto) ed amici della vita. Tramite essi (i cani ed i gatti e gli altri pets) tentiamo di lenire il nostro malessere e la nostra alienazione. Ma torniamo alla domanda che non ha avuto ancora risposta….. i gatti in grado di sopravvivere sarebbero tanti quanti i gatti selvatici ed i cani sarebbero tanti quanti i lupi…. In Italia son ben pochi, forse qualche centinaio e non di più. Al contrario i cani ed i gatti domestici sono svariati milioni, molti milioni di esemplari che confermano il nostro malsano “vizio”.
Noi abbiamo il “vizio” del dominio sulla natura, un dominio che soprattutto si manifesta con l’agricoltura industriale in ragione di soddisfare le esigenze dell’allevamento industriale. Divoriamo e distruggiamo la terra con l’allevamento e l’industria agricola. Gran parte dei quali frutti finisce nei cassonetti e nei mangimi per erbivori, un’altra va ai nostri “amici da compagnia” ed il restante serve a gonfiare l’uomo all’inverosimile, ammalandolo e rendendolo simile agli orchi delle favole….
Nessuna meraviglia che fra di noi stia scomparendo il senso dell’appartenenza comune alla vita, l’egoismo e la stupidità imperano sovrani, vanno di pari passo con l’aumento dei consumi della carne e delle sofisticherie. In inglese le chiamano “delicatessen” ma è solo un eufemismo per non dire “cimitero” alimentare, magari ben organizzato tanto quanto uno “splendido” campo di sterminio nazista. Ma la differenza fra carnefici e vittime e sempre più labile, è sempre più confusa….
Naturalezza, magia, etica? Chiamiamo le cose con il loro nome……
Paolo D’Arpini