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Ti vedo….Lettera sulla Georgia

Caro Paolo, purtroppo non sono riuscita a “pescare”, sul tuo bellissimo sito, la lettera sulla “casa” e quindi,non ho eseguito il famoso login con il conseguente mio commento…sorry! E’ da stamane, invece, che cerco notizie sul Caucaso ed in particolare sulla Georgia…così, mi sono ricordata di un “contatto” via mail: un ragazzo di Firenze (Francesco) che ha svolto una buona tesi sulla Georgia, nonchè un articolo su un suo, appunto viaggio, in questo luogo. La mia ricerca nasce dopo la lettura del tuo articolo: operando un rapido sondaggio tra le pareti domestiche, mi sono resa conto che, principale movente che allontana tutti noi da tanti argomenti, è la non conoscenza, “l’ignoranza”……mi possono dire quello che vogliono sul Caucaso, sulla Georgia, su Putin..ma di che si parla?? Dove si trova la Georgia?? E tanto altro..quindi ho cercato qualcosa di interessante in rete..ma la “ricerca” continua…da qualche parte, credo di aver conservato delle riviste di “vita scolastica” con fiabe del CAUCASO….intanto ti invio l’articolo di Francesco….che ne pensi?? Un caro abbraccio…spero di “non lasciar cadere invano” il tuo desiderio di far conoscere la storia e l’evoluzione di questi luoghi! A presto, Francesca  Impressioni di viaggio: la GEORGIA                 

Arriviamo a Tbilisi a notte fonda. Ad attenderci, all’aeroporto, troviamo l’amico Zurab Zurashvili, una giovane promessa della società georgiana. Ci porta all’albergo e ci diamo appuntamento per l’indomani alle cinque del pomeriggio. La mattina appena alzati non stiamo nella pelle per la curiosità di vedere la città, in quattro e quattr’otto montiamo su un taxi scalcinato e ci immergiamo nel bailamme. Tbilisi, la più orientale delle capitali cristiane e la più bella città del Caucaso, prende il suo nome dall’acqua (in georgiano tbilisi significa letteralmente “sorgente termale”). La sua posizione è ottimale: si schiude lentamente, srotolandosi a forma di esse lungo il fiume Mtkvari, accucciata tra la catena montuosa del Sololaki a sud, il monte Makhata a est e le spoglie colline di Trialeti a ovest.

Sono le due del pomeriggio quando attraversiamo la direttrice principale. Ai lati delle strade è tutto un mercato. Dai gelati alle focacce calde, dai semini ai cocomeri, tutti vendono tutto: sembra un grande bazar a cielo aperto. I tiblisedi hanno fatto del commercio l’anima della città. La gente guida da pazzi: superarsi e bucare i semafori è la norma. Le vie più grandi pullulano di gente ben vestita, di negozi, caffè moderni e ristoranti, ma è sufficiente gettare uno sguardo sulle stradine laterali che la scenografia cambia: povertà, miseria, catapecchie che stanno in piedi per miracolo e bambini che scorrazzano scalzi. Passato il Mtkvari ci troviamo catapultati nel mezzo della vecchia Tbilisi. Quel che si domina dall’alto della fortezza di Narikala è di una bellezza struggente. Il cuore pulsante della città è un grumo immenso di casette di due-tre piani dai colori variopinti con i balconi intarsiati in legno e immancabili pergole di vite in quanto il vino è il simbolo e l’identità profonda del Paese. Si respira l’aria del Sudamerica. Sembra di essere a L’Avana.

Attaccata alla parte più vecchia si stende la città ottocentesca e novecentesca, con splendidi palazzi color avorio e una serie interminabile di chiese, statue, colonne e ornamenti ora arabeggianti, ora baroccheggianti. Ci infiliamo in un bar di Via Rustaveli, la strada principale di Tbilisi che ospita uno dopo l’altro musei antichi e di arte moderna, il Parlamento, i teatri dell’opera e alcuni cinema. Per inciso, Rustaveli è stato il più grande poeta georgiano di tutti i tempi e contribuì all’unificazione linguistica del paese, una sorta di Dante caucasico insomma. Il bar non ha nome. Una decina di tavolini di plastica occupano il marciapiede, e sul bancone sono messe in bella vista le specialità culinarie georgiane dalla famosa focaccia con il formaggio a panini piccantissimi con la carne. Non faccio in tempo ad alzarmi per andare a prendere da mangiare per me e la mia compagna di viaggio, che sono assalito bonariamente da un giovane georgiano. “Ti posso aiutare?”

Parla un ottimo inglese, mi chiede da dove vengo e cosa voglio ordinare, mi paga tutto lui, ci offre due birre e quando vede che ho finito le sigarette mi regala un pacchetto nuovo fiammante. Rimango sbalordito. Quando sa che siamo italiani gli si illumina il viso. Ha ventun’anni, si chiama David Sdneladze, come David il Costruttore, il grande re georgiano che nel dodicesimo secolo riunificò il Paese, “Italiani?! Qui siamo tutti pazzi per voi, ho visto decine di volte Il Padrino, tutti i film sulla mafia, e quelli di Adriano Celentano. La mafia italiana è bella. Anche qui abbiamo la nostra mafia e tutti i georgiani la amano.”

E’ l’inizio di una allegra chiacchierata che prosegue, tra alti e bassi, per tutto il pomeriggio. Quando gli spiego che la mafia italiana è una realtà tragica che opprime tutto il nostro Mezzogiorno, una realtà di terrore e di migliaia di innocenti massacrati, David rimane un po’ scosso. Ammette che la mafia italiana è troppo violenta e non ha nulla a che fare con il folklore. Gli chiedo che lavoro faccia e mi spiega che insieme ad un’altra persona, un omone seduto in un altro tavolo che saluto con la mano, deve controllare questo bar e il locale accanto. Non capisco bene se sia un mafiosotto che s’intasca il pizzo in via Rustaveli, un mezzo poliziotto o solamente un giovanotto che per passare il sabato pomeriggio racconta delle storielle ad un occidentale. Ci offre ancora da mangiare, ci porta nelle cantine ad assaggiare i vini più pregiati e s’indigna con l’amico Zurab che ci ha lasciato soli per mezza giornata.

Alle cinque Zurab ci aspetta davanti al Parlamento. David si aggrega e saliamo tutti insieme su un taxi antidiluviano direzione città vecchia. La parte antica è circondata da splendide mura. Sembra un mondo a sé. Le casine sono tutte basse, con i balconi colorati e panni stesi dovunque. Non ci sono auto in giro. La mia compagna di viaggio la descrive come la Macondo in “Cent’anni di solitudine” di Marquez, cui io aggiungo immediatamente un che di Napoli. Un paio di stradine hanno le case completamente ristrutturate. E’ il polo di tutti gli artisti della città, una specie di Village newyorkese nel Caucaso, ci spiegano. Il resto del quartiere è un pò decadente. Dai portoni più poveri spuntano facce da favelas e vecchine tutte vestite di nero. Sono gli armeni, scappati da una delle tante guerre che hanno insanguinato questa parte di mondo, questo crocevia così complesso popolato da decine di etnie diverse. Arrancando arriviamo alla Fortezza di Narikali, un complesso di mura e torri abbarbicato sul colle più alto della città. Anche da qui si domina tutto dall’alto. A sud-est spunta una fila interminabile di luoghi religiosi. In poche centinaia di metri si allineano le cupole morbide del bagno turco e della moschea islamica, i profili severi della sinagoga e di quattro cattedrali – l’ortodossa georgiana, l’ortodossa russa, la cattolica romana e l’armena – a rivelare l’abitudine millenaria alla convivenza di popolazioni diverse, stanziali o di passo.

Sul far della sera riscendiamo nella città bassa, al tramonto ci mettiamo su una rupe a ridosso del Mtkvari. Circondati da pini e cipressi, avvolti nel canto dei grilli, sembra quasi di essere in una pineta della Maremma. Sulla collina di fronte troneggia un’enorme statua di donna: è la Madre Georgia. Questa donnona, quasi felliniana, che tiene con una mano una coppa di vino e con l’altra la spada è il simbolo della Nazione. “Per noi la donna ha un valore speciale, è al centro della vita”, si accalora David. “Siamo un popolo di guerrieri, come i nostri fratelli ceceni. Combattiamo da secoli, ma solo per la nostra libertà. Mai, nemmeno un giorno, abbiamo combattuto per conquistare terre non georgiane. Il vino è per gli amici – per noi l’ospitalità è sacra – e la spada è per i nemici.” Per rimarcare meglio le sue teorie, David tira fuori un coltello a serramanico. “Siamo un popolo di montanari che mai si è fatto sottomettere

Zurab, nostro amabile cicerone, lo guarda storto. “Non ho mai portato un coltello in tasca in vita mia, non vedo a cosa possa servirmi”. Zurab, giovane laureato all’Università di Tbilisi con un ruolo importante al ministero degli esteri, rappresenta il meglio della nuova Georgia. Ha subito sulla propria pelle la violenza che ancora si annida in alcuni strati della società georgiana. Il suo migliore amico è stato ucciso l’anno scorso a Tbilisi fuori da un ristorante, solo per aver discusso con personaggi con i quali evidentemente era meglio non avere a che fare. Si sa chi sono i colpevoli, ma sono ancora impuniti. Zurab sussurra che due di loro seggono addirittura sugli scranni parlamentari.

La Georgia è un paese a metà del guado, una transizione che ancora non è finita. Il 1991, l’anno dell’indipendenza dopo settant’anni di dominazione russa, poteva essere per i georgiani il principio di un periodo fecondo, invece segnò l’inizio di una rapida discesa agli inferi. Arrivò al potere una coalizione aspramente nazionalista con alla testa un personaggio controverso Zviad Gamsakurdija. Facendosi eleggere subito Presidente, Gamsakurdija in breve tempo esasperò le relazioni con le minoranze etniche, teorizzando con toni mistici un violento nazionalismo fondato sull’assioma la “Georgia ai georgiani”. In un paese dove quasi un cittadino su tre non è di etnia georgiana, guerre, morti, rancori, povertà e disperazione la fecero da padroni. Lo spirito georgiano dell’accoglienza, che nel periodo sovietico ne aveva fatto la meta turistica più ambita di tutta l’Unione, che aveva a Tbilisi un èlite politico-culturale avanzata, che esprimeva una pacifica convivenza tra popoli e religiosi differenti, nel biennio 1991-1993 venne completamente travolto e il Paese fu trascinato in un triste medioevo di guerre e rancori etnici (oltre diecimila morti in Abkhazia e nell’Ossetia meridionale), profughi, fame, povertà, disperazione. Alberghi bellissimi furono trasformati in case d’emergenza per i profughi, per i tre quarti dei cittadini in povertà e senza lavoro a causa del collasso totale dell’economia. L’arrivo di Eduard Shevarnadze, già ex ministro degli esteri di Mikhail Gorbaciov, segnò l’inizio di una lenta rinascita e la seconda metà degli anni novanta vide finalmente il silenzio delle armi, la nascita di un dialogo con le minoranze etniche e il rafforzarsi della democrazia nel paese.

Di sera, Tbilisi è ancora più bella con tutti i suoi gioielli illuminati e tutti i suoi giovani che riempiono le decine di locali notturni che negli ultimi tempi fanno a gara ad aprire. Nella notte sfavillano pure le luci dei Casinò (ben diciassette!), dei night-clubs dove i nuovi signorotti si divertono tra fiumi di alcool. Di domenica tutta la città sembra in festa: gli uomini sono tutti vestiti in nero, le donne tutte ingioiellate e improfumate. Sulla via Rustaveli decine di macchine passano strombazzando: sono i matrimoni, con le spose che sventolano i bouquets dai finestrini. All’ora di pranzo abbiamo appuntamento con l’Ambasciatore italiano in Georgia, Fabrizio Romano, una persona acuta e ironica.

“Tbilisi è spettacolare” afferma. “So che il governo georgiano ha richiesto all’Unesco di farla divenire Patrimonio dell’umanità. Il popolo georgiano ha una storia millenaria e sono sicuro che ha tutte le carte per farcela. A novembre ci saranno le elezioni parlamentari e tutto si dovrebbe svolgere nella più assoluta trasparenza. Sarebbe già un successo”. L’Ambasciatore ci racconta che a Tbilisi la vita culturale è fervente e il governo italiano ha un programma di collaborazione proprio in questo campo. Il mondo culturale georgiano ha il suo epicentro all’Università di Tbilisi, proprio lì c’è Zurab ad aspettarci. Il primo blocco universitario è un grande palazzo bianco e severo. Incontriamo i leader del movimento politico studentesco Tengo Dalalishvili e Dakar Berekashvili, due giovani molto colti che citano Pasolini e Visconti. Con il motto “It’s enough!” (Basta!), da sette mesi questi girotondini caucasici hanno creato un movimento di protesta contro il Presidente Shevarnadze che si è diffuso a macchia d’olio sulla scena politica del Paese.

“Il movimento Kmara”, racconta Bakar Berekashvili, “è nato il 14 aprile qui a Tbilisi. Kmara in georgiano significa ‘basta’. Abbiamo deciso di chiamarlo così perché riteniamo che la misura sia veramente colma. Il nostro movimento si vuole richiamare idealmente al movimento serbo ‘Otpor’ (’resistenza’) che si oppose con grande vigore a Milosevic nell’autunno del 1998 e dimostrò di essere efficace nel traghettare quel paese verso la democrazia. Kmara ha preso corpo ad aprile quando il partito del Presidente Shevarnadze, ‘Unione dei Cittadini della Georgia’, si è dissolto. Dalle sue ceneri sono nati cinque nuovi partiti, due di questi sono andati all’opposizione e gli altri tre – con i peggiori personaggi del Paese – sono rimasti fedeli al Presidente. Sotto la sua guida è stata creata una coalizione, ‘Alleanza per la Nuova Georgia’, che appare avida di potere e vogliosa di rimanere forzosamente al governo. Per questo abbiamo deciso di reagire. A novembre si terranno le nuove elezioni parlamentari e in vista di questo importante appuntamento Kmara si è dato due obbiettivi: combattere questo governo con mezzi pacifici, evitando che le elezioni d’autunno siano tenute in un clima d’illegalità, e proseguire la nostra azione di vigilanza democratica anche sui nuovi eletti: non vogliamo in alcun modo abbassare la guardia.”

Attraverso numerose dirette ‘Kmara’ è arrivato nelle case di tutti i georgiani: dalle coste del Mar Nero fino alle valli più impenetrabili dove le tradizioni sono dure a morire. L’effetto è stato dirompente, e anche adesso, nelle caldi pomeriggi estivi, quasi quotidianamente si vedono sfilare nella Capitale migliaia di manifestanti. In giro per Tbilisi sono visibili le tante scritte Kmara che chiedono al Presidente Shevarnadze di combattere con energia la corruzione, di rispettare lo stato di diritto, di combattere la povertà e di riformare lo scadente stato sociale. Una di queste campeggia ancora sul più grande palazzo della città: il grande edificio, color avorio, sede della Presidenza della Repubblica.

Da aprile ad oggi si sono succedute, solo a Tbilisi, quindici manifestazioni con un numero sempre crescente di partecipanti, nell’ordine di decine di migliaia di persone. In tutto il paese è dilagata la protesta contro Shevarndze. Il governo si sta rendendo conto dell’importanza raggiunta da questo movimento e in più occasioni ha cercato di impedire ai manifestanti di scendere in piazza, ma l’ambasciatore italiano si mostra fiducioso: “Il popolo georgiano ha una storia millenaria, sono sicuro che abbia tutte le carte per farcela. L’apertura da tre anni della nostra ambasciata e un corposo programma di collaborazione culturale dimostrano chiaramente la nostra volontà di non abbandonare questa nazione al suo destino. Le elezioni di novembre si dovrebbero svolgere nella più assoluta trasparenza e già questo sarebbe un grande successo.”

E proprio nell’Università viva e combattiva concludiamo il viaggio in questo lembo di mondo che secondo la leggenda Dio voleva riservare per sé, da sempre spazio di sogni e avventure di mercanti, appeso a metà tra Europa e Asia, tra Oriente e Occidente. Distrutta e ricostruita ben ventinove volte, punto di snodo dei traffici, lungo la storica ‘Via della Seta’, appesa tra Oriente ed Occidente, città che porta i segni di tutte le contraddizioni della lunga transizione georgiana, dalla bellezza struggente della parte vecchia, con il suo grumo di casette a due-tre piani dai colori variopinti, alla sterminata distesa di periferie desolate dove enormi palazzoni aspettano di essere finiti da chissà quanto tempo, Tbilisi è stata per noi una lunga, lunghissima emozione. 

 Francesco Trecci

15 settembre 2008 – Luna piena al Circolo Vegetariano di Calcata — Plenilunio con lettura romantica

Eventi ilaria 12 agosto 2008

Di questi tempi la lettura è diventata un lusso, son pochi quelli che leggono e pochissimi quelli che ascoltano. Nella tendenza controcorrente che ci contraddistingue il 15 settembre di quest’anno – luna piena di settembre – invitiamo gli amici per una lettura davanti al fuoco. Ci è sembrato che il plenilunio in Vergine fosse il più indicato per una lettura all’aperto, prima dell’arrivo delle brume autunnali.  Leggeremo  brani di alcuni libri romantici fra i quali un libro scritto in inglese da un italiano  che racconta  di un tempo poco lontano, quello dell’ultima guerra,  in cui la tragedia è descritta con tanta umanità e pulizia da far sembrare quel tempo migliore di questo che stiamo vivendo, in apparente pace e benessere, ma sostanzialmente in alienazione e sconforto.

Recensione di “Italian heartbreak”.

La toccante nostalgia ed allo stesso tempo l’ineluttabile separazione dalla madre patria fanno  del libro “Italian heartbreak”  di Cosimo  Arrichiello una lucida memoria degli eventi vissuti e subiti durante gli anni del fascismo, della guerra e dell’immediato dopoguerra. Egli raccontando la sua vita  descrive anche vari strati della società di quel tempo, seguendo  il percorso geografico dei suoi spostamenti ed avventure.  Una storia d’Italia vista con gli occhi del popolo, dell’esperimentatore primo, di quelli che furono definiti gli “anni neri”.

Semplici aneddoti di vita, quadri di famiglia, sbattimento per la sopravvivenza, illusioni e consapevolezze dell’uomo comune, ritagli di notizie altisonanti, saggezza spicciola, insomma uno spaccato di storia patria che non pecca assolutamente di astrazione, anzi…. Questo libro merita di essere letto, anche per la sua piacevole vena napoletana, non soltanto dal pubblico che ama le storie vere  ma soprattutto dagli studiosi di costume, storia e civiltà umana. 

Il fatto poi che l’autore, vivendo da tanti anni in Inghilterra,  abbia redatto queste sue memorie in lingua inglese aggiunge profumo esotico alla struggente realtà descritta, colorandola di “humour”  e togliendo grossolanità ad ogni  evocazione e ricordo.

  Paolo D’ArpiniAppuntamento di lunedì 15 settembre 2008. Circolo Vegetariano VV.TT. di Calcata.

h. 17.00 – Passeggiata serale nella valle del Treja per cercare arbusti e rami secchi.

h. 19.00  – Accensione del fuoco  e delle candele.

h. 19.01  – Preparazione di bruschette e lettura conviviale in attesa che si levi la luna.

Ognuno è invitato a portare cibo vegetariano che verrà poi condiviso fra i presenti.

Prenotazione necessaria. Tel. 0761-587200

Silenzio sulla guerra in Caucaso e sterili polemiche olimpiche.

Comunicati Stampa ilaria 11 agosto 2008

Suona strano osservare che mentre vanno avanti le sterili polemiche sulle olimpiadi di Pechino, quando a queste olimpiadi tutto il mondo ci partecipa e non passa giorno in cui non vengano evidenziate le performances di questa o quell’atleta proveniente da questa o quella città d’Italia (Tuscia e Viterbo compresi),  suona strano -dicevo- che si passi invece sotto conveniente silenzio la tragedia in corso nel Caucaso.

Nel Caucaso a pochi kilometri dal mediterraneo, dalle coste di casa nostra, si spara e si muore, ma è più “vendibile” il solito gossip socio politico sul lontano oriente -o forse è più comodo- mentre ci si tappa la bocca, gli occhi e le orecchie sulla tragedia alle porte di casa nostra. 

Ho ricevuto  oggi l’informazione, da persone che conoscono i fatti,  della reale emergenza in quell’area, in particolare dall’organizzazione di volontariato Mondo in Cammino, che è attiva da anni in Caucaso,  di cui alcuni membri sono appena tornati da una missione in quelle regioni.  Essi, fra l´altro, hanno visitato i campi profughi osseti e ceceni.  Ed  hanno riscontrato situazioni drammatiche: situazioni in cui, oltre  l´emergenza umanitaria, è presente uno stato di abbandono generale ed in cui (nonostante i proclami di tutela delle autorità locali) buona parte dei profughi vive senza il riconoscimento dei più elementari diritti umani e civili. Ora, in questa già difficile situazione, andranno ad aggiungersi le migliaia di profughi in fuga dal conflitto osseto/georgiano. Conseguentemente all’assenza di strutture recettive, l´esodo di queste migliaia di persone creerà una situazione di provvisorietà permanente e di tensione conflittuale in tutto il Caucaso che potrà determinare il futuro di tutta la regione, con ripercussioni sugli equilibri strategici internazionali.

“DI FRONTE A QUESTA TRAGEDIA UMANITARIA E ASSOLUTAMENTE NECESSARIO INTERVENIRE”.  Affermano i volontari di Mondo in Cammino ed anch’io mi associo, chiedendo alla Comunità Europea, al  governo Berlusconi ed alle autorità amministrative ed agli  Enti umanitari italiani di attivarsi  per impedire una tragedia imminente ed annunciata.

Siamo in Europa ed il Caucaso è la nostra patria,  la patria di tutti noi europei, infatti gli europei sono definiti “popolazioni di  stirpe caucasica”.
Paolo D’Arpini

Informazioni ulteriori su:

http://www.mondoincammino.org/

Capranica: esperimento di ecologia sociale e profonda -

Compagni di viaggio ilaria 10 agosto 2008

“Il ritorno a casa”

    18  e 19 ottobre 2008 – Arte sul tema,  Tavola rotonda, Festa in piazza.Per due giorni a Capranica  possiamo meditare e discutere sull’argomento del ritorno a casa. Dov’è la nostra casa e come si fa ad essere accettati nella casa, da quanto tempo manchiamo dalla casa e siamo sicuri -soprattutto-  di non essere già nella nostra vera casa?

Capranica – Incontro organizzativo del 30 agosto 2008:

per chi voglia dare una mano a portare, per almeno uno dei due giorni, il proprio “ritorno a casa”, per chi voglia solo passare un pomeriggio insieme dedicato a tutto ciò e a conoscerci, per darci idee e collaborazione, per proporre e discutere, vi aspettiamo in una “casa”,  sabato 30 agosto a Capranica, nel centro storico, Via Castelvecchio 10.
Tel: 0761678477- 3389400869

Questo invito non è e non sarà prossimamente firmato da sigle, siamo solo persone e un po’ animali che annusano l’aria e l’odore della terra sulla quale camminano, insieme.

 “Il Ritorno a Casa”  secondo Doriana Goracci.

Ciao, torno a casa…rientro a casa…lascio casa…sono senza casa…chiudi casa …apri la casa…ci vediamo a casa mia?…tornatene a casa tua…questa è casa mia!…ho una nuova casa…la mia è una vecchia casa…Credo che almeno una di queste frasi l’abbiamo pronunciata nella vita ed è stata detta da chi ci ha messo al mondo e continuerà ad essere ripetuta dalle generazioni dopo di noi. “Vivere nel luogo in cui si vive sapendo che è la nostra casa, significa essere del luogo”, una sorta di pensiero ed agire, che ci fa camminare sicuri, disinvolti, senza differenza, tra ciò che siamo e la terra che camminiamo: bel concetto romantico e profondo ma richiede fatica ed una grande pazienza: c’è chi accoglie e chi si avvicina.
Il rumore del trasloco, non passa inosservato,  ma come varchi la soglia di quelle quattro mura, sembrano svanire i problemi fuori, cominci ad abbandonarti, a cancellare le emozioni più forti, che ti hanno stordito e riprendi ad ascoltare le tue emozioni, i bisogni di chi dorme e mangia con te, condivide quelle quattro mura, sempre che tu non sia sola o solo. Ci sono ritorni da eroi e ritorni di perdenti, vinti e consumati, ritorni di anziani che hanno lavorato per una vita, lontano…ci sono i ritorni in famiglia, a casa…ci sono case che ti fanno paura e quelle che ti proteggono, fuori c’è la terra, la strada, come quella dove si posano le fondamenta  del tuo abitare il mondo. Ritorni a casa dopo una vacanza, una gita, una festa, una cena, un funerale, un addio, un arrivederci.
Questo incontro è per parlare della nostra casa, come si fa ad essere accettati nella casa, da quanto tempo manchiamo dalla casa e se  siamo sicuri -soprattutto- di qual’è la nostra vera casa? Per questo e per tutti gli altri motivi che potranno venire fuori, affrontandoli insieme, solo facendoli emergere, abbiamo pensato di titolare  la manifestazione: “Il Ritorno a casa”  

 ”Il tuo Cristo è ebreo.
La tua macchina è giapponese.
La tua pizza è italiana.
La tua democrazia greca.
Il tuo caffè brasiliano.
 La tua vacanza turca.
I tuoi numeri arabi.
Il tuo alfabeto latino.
Solo il tuo vicino è uno straniero.”
(da un manifesto tedesco degli anni ‘ 90)

  

Doriana Goracci 

dorianagoracci@hotmail.it 

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“Il Ritorno a Casa” secondo Paolo D’Arpini

  “Vivere nel luogo in cui si vive sapendo che è la nostra casa, significa essere del luogo” Questo è il pensiero dell’ecologia profonda e corrisponde al sentire di chi non coglie alcuna differenza fra sé ed il luogo, di chi ritiene di esser figlio della terra.  E la terra non ha cantoni esterni, la terra tutta è una ed indivisibile ovunque e comunque. La terra  -e vorrei specificare-  “questa terra di Tuscia” è la mia casa,  per me che ci abito, assieme alla comunità di chi ci ha abitato prima di me e ci abiterà dopo di me. Ma il percorso del ritorno a casa – che è fisico e romantico allo stesso tempo- richiede una fatica ed una grande pazienza. Richiede accettazione da parte di chi accoglie e da parte  di chi si avvicina…  “Ospite”  è sia chi riceve che colui che viene ricevuto, nella società umana, dei nobili esseri umani del mondo,  così si definisce l’accoglienza…..   Io personalmente sono anticamente originario della Ciociaria (di Arpino appunto) e quando si è “viandanti e senza patria” occorre stare attenti a come ci si comporta… a come ci esprime…    Spesso mi sono interrogato su cosa significhi essere straniero, in effetti  mi son sempre sentito straniero, un ebreo errante senza essere  ebreo, anche quando abitavo a Roma (città in cui son nato), ed anche quando mi trasferii in Veneto dove vissi per molti anni, ovviamente anche a Calcata dove addirittura sono due volte straniero, sia per i calcatesi originari, che mi vedono come una  jattura, l’iniziatore che ha portato tutti i forestieri a Calcata, e  sono forestiero pure  per la nuova comunità degli “artisti e bottegai” del centro storico, perché non mi sono mai uniformato alle norme del “teatrino” calcatese… del fine settimana.    E’ per questo che in uno dei miei “melodrammi”  dicevo “quanti sono gli stranieri in Italia? Almeno il doppio di quelli dichiarati dall’Istat”. Forse dovrei dire che sono molti di più, giacché  talvolta si può essere stranieri non solo se si è oriundi.  Talvolta viene considerato estraneo, a Viterbo,   uno originario di Vallerano o Ronciglione,  e pure chi viene da un rione periferico come Bagnaia.  Magari si è stranieri  allorché non si è tifosi della stessa squadra di calcio,  o se si parla con un negro per strada… o ci si veste in modo strano…   Il destino crudele di noi “stranieri” lo conoscono in molti e non solo a Viterbo.   Un amico straniero come  me,  Marco, che abita da anni a Blera, ha suggerito una soluzione raccontando la sua esperienza di lunga vita in campagna, facendosi accettare dal luogo stesso, ma forse questo gli è stato possibile perché il suo lavoro è rivolto alla terra…  Diceva, Etain,  un’altra straniera in terra di Tuscia: “Il fatto è che non è più nostra consuetudine cercare l’accordo con il luogo, considerandolo primario alla vita, solitamente riteniamo che sia la comunità a doverci accettare. Ma in verità il contenitore vero della nostra vita fisica e psichica è proprio il luogo, l’ambiente naturale, che ci ripara e nutre ed istruisce, se siamo pazienti e capaci di ascolto” Ritengo però che non si possa né debba evitare l’integrazione con la comunità, altrimenti c’è arroganza e separazione culturale nel voler mantenere  la distanza con gli altri….  E’ pur vero che spesso non ci sentiamo accettati dal resto della  comunità ma dobbiamo -come detto sopra- compiere un esperimento congiunto di avvicinamento al luogo ed ai suoi abitanti….    Così pian piano il ghiaccio si scioglie e dopo ripetute prove possiamo finalmente dire di essere tornati a casa, di aver riconosciuto e di essere stati riconosciuti. Paolo D’Arpini

circolovegetariano@gmail.com

Il Limite del caldo e la rugiada bianca – Dal 22 agosto al 22 settembre

Lunario ilaria 9 agosto 2008

Ecco siam giunti al limite del caldo ed alla discesa della rugiada bianca.

La vergine con il suo acume e senso di comparazione ci “dimostra” che è ancora estate… ma la nostra pelle ci dice che la stagione sta cambiando. La posizione  è quella dell’Ovest, dove tramonta il sole.  In questo periodo c’è la caduta a terra dei “frutti dell’amore”, prugne, mele, pere, fichi, nocciole, more… La natura munifica ci dona i suoi frutti caricati dal sole di tanta dolcezza.

Muoversi con la luna.

Questi sono giorni dalla radice con forza discendente, sono i migliori per lavorare in giardino, nei campi, nei boschi. Molto favorevole, in luna crescente, ogni tipo di piantagione e travaso per le piante d’appartamento e la semina  di nuovi tappeti erbosi.

Ricetta del mese.

In questo periodo c’è abbondanza di fiori di zucca che possiamo usare per vari piatti. Uno di questi consiste nel far sbollentare alcune patate mescolate a topinambur,  tenere leggermente al dente, e bucciare, poi tranciare aggiungendo olio d’oliva, un goccio di latte, uva sultanina, farcite l’impasto con i fiori di zucca e ponete al forno per alcuni minuti irrorando con un po’ di olio misto a vino aspro.

La cura del mese: coliche e mali di pancia.

Preparate un infuso di aneto,  anice e semi di finocchio (mezzo cucchiaino ciascuno) e bevetene una sorsata ogni ora aggiungendovi, se lo desiderate, un cucchiaino di miele integrale.

Carrellata su alcune erbe officinali.

Alcune erbe possono essere direttamente mescolate al cibo o preparate in infuso o per uso esterno.

Infiammazioni e ferite: primula, margheritina, calendula, fiordaliso,

Preparazione di oli eterici per l’irrorazione sanguigna: timo, aglio, salvia, camomilla, alloro, melissa, basilico.

Infiammazioni della pelle e mucose:  equiseto, erica, ortica.

Per regolare le funzioni dello stomaco: assenzio, artemisia, dente di leone, genziana.

Infiammazione della mucosa intestinale: more, alchemilla, castagno, veronica.

Usando saggiamente le erbe non solo si migliora la cucina ma si prevengono molte malattie. Bisognerebbe ritornare al principio medico dell’antica Cina in cui dottori era pagati finché si stava in buona salute e non quando ci si ammalava.

Tradizioni.

Questo periodo per gli Atzechi (21 agosto – 19 settembre)  è il mese  della Madre Terra ed essi adoravano la Luna, la regolatrice del ciclo mestruale e della fecondità. I nativi del periodo venivano riconosciuti per la loro vita ordinata e la mentalità pratica, analitica e  segnata da spirito di osservazione, essi erano dotati per la letteratura e gli studi scientifici. Come non riconoscervi le qualità della Vergine?

Pensieri edificanti.

“Sono pronto a resistere con ogni mezzo, anche a costo della vita, in modo che ciò possa costituire un esempio nella storia ignominiosa di coloro che hanno la forza ma non la ragione” (Salvador Allende prima di morire l’11 settembre 1973).

“Forse è povero chi  aspira all’eterno? Forse è povero chi non ha desiderio per le cose del mondo se non quello di servire Dio?” (Meister Eckhart).

“Tu distruggi l’ego di coloro che nel loro cuore riposano in Te, oh Arunachala” (Ramana Maharshi, prima strofa dalla  Ghirlanda di Lettere in onore di Sri Arunachala Shiva).