L’immigrazione di massa dall’Africa verso l’Europa non è un fenomeno
dalle radici profonde ma, al contrario, è storia recente, il cui
inizio può essere ricondotto alla fine della Guerra Fredda ed
all’avvento del “nuovo ordine mondiale” propugnato dalle élite
euro-atlantiche. Come il fondamentalismo islamico e le varie
organizzazioni terroristiche sunnite erano sostanzialmente estranei al
mondo bipolare (dall’Algeria al Pakistan, dalla Libia alla Somalia
vigevano regimi più o meno limpidi, ma rigorosamente laici e spesso
d’ispirazione socialista), così l’immigrazione non era alimentata da
ondate di profughi o da flussi superiori alle esigenze del mercato del
lavoro, tranne nei paesi europei, Francia e Gran Bretagna in testa,
che sul solco dell’esperienza coloniale scelgono fin dagli anni ’80 di
adottare la politica, rivelatasi poi fallimentare, dell’accoglienza
indiscriminata.
La nascita e lo sviluppo del fondamentalismo islamico risponde sia
alla volontà delle monarchie del Golfo, che professano l’islam sunnita
più retrogrado ed intollerante (il wahhabismo), di espandere il
proprio credo all’intero mondo mussulmano che alla necessità di
Washington, Londra e Tel Aviv di plasmare un nemico contro cui
intervenire militarmente in Medio Oriente.
I flussi immigratori dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa
sono analogamente il prodotto delle politiche adottate dagli
angloamericani, che aborriscono l’idea dello sviluppo ordinato della
regione (che rimpicciolirebbe Israele data la propria minuscola
economia) ma preferiscono piuttosto fomentare tensioni e caos fedeli
al “divide et impera”. Le ondate migratorie si inseriscono poi nel
progetto massonico/mondialista di lungo periodo di annacquare le
nazionalità europee con l’iniezione di popolazioni allogene, per
facilitarne la fusione in organismi sovranazionali.
L’Italia, promotrice sin nel XX secolo di un colonialismo
“meridionalista” che cerca nei territori africani occasioni di lavoro
piuttosto che lo sfruttamento delle risorse naturali, è su posizioni
diametralmente opposte agli USA ed al Regno Unito, anche in virtù
della sua posizione al centro del Mediterraneo che le espone alle
turbolenze di tutta l’Africa a nord del Sahara: dove gli italiani
hanno interesse a costruire, gli angloamericani hanno interesse a
bombardare, dove gli italiani tessono i rapporti diplomatici, gli
angloamericani esacerbano le tensioni, dove gli italiani prediligono
il commercio, gli angloamericani optano per la soluzione militare.
Tanto la nostra politica arginerebbe i flussi d’immigrazione, quanto
quella di Washington e Londra alimenta i dissesti economici e politici
che sono all’origine delle migrazioni di massa.
Basti dire che in cima alle nazionalità degli immigrati che sbarcano
ogni anno in Italia figurano ancora i somali, il cui Paese sprofonda
nel 1991 in un’instabilità da cui non si è mai più ripreso (il che
dovrebbe preoccupare non poco per la Libia). Il caos in cui precipita
la Somalia è naturale o indotto? E se è artificialmente generato, chi
concorre a destabilizzare il fragile paese del Corno d’Africa?
Ebbene, la Somalia è il primo caso di disgregazione di uno Stato
africano condotto dagli angloamericani ai danni dell’Italia. Assegnata
a Roma in amministrazione fiduciaria dalla Nazioni Unite, dal 1950 al
1960 il povero ma strategico Paese è un’estensione dell’Italia, con
cui condivide bandiera, lingua ufficiale ed inno nazionale. Ottenuta
l’indipendenza nel luglio del 1960, ai vertici dello Stato siede il
filo-britannico Abdirashid Ali Shermarke, primo ministro dal 1960 al
1964 e poi presidente.
Nell’autunno del 1969, lo stesso anno in cui Muammur Gheddafi rovescia
con il determinante sostegno dei servizi italiani il re Idris messo in
trono dagli inglesi, l’ex-carabiniere Mohammed Siad Barre (1919-1995)
è artefice di un golpe che lo eleva a Presidente della Repubblica
Democratica Somala. Proprio come la Libia del Colonnello, sebbene la
nuova Somalia si inspiri ad ideali socialisti ed apra alla
collaborazione con l’URSS, gravita però nell’orbita italiana per
quanto concerne l’economia: i rapporti tra la Somalia di Barre e
l’Italia di Bettino Craxi sono così buoni che nel 1985 si celebra la
storica visita del premier socialista a Mogadiscio, accolto con calore
e sfarzo.
La dissoluzione dell’URSS nel 1991 sancisce l’inizio del “nuovo ordine
mondiale” a guida angloamericana, dove a saltare sono innanzitutto le
conquiste italiane in politica estera, ottenute strizzando l’occhio a
Mosca ed ai movimenti terzomondisti: la Libia del Colonnello è
immediatamente oggetto delle sanzioni dell’ONU che le impediscono di
esportare il petrolio1, mentre per la Somalia è adottata una strategia
più aggressiva che punta allo smembramento del Paese.
Già indebolita dalla guerra dell’Ogaden contro l’Etiopia (1977-1978),
la Somalia patisce duramente gli effetti della Prima Guerra del Golfo
(1990-1991) che azzera le fondamentali rimesse dei somali che lavorano
nella regione e blocca le esportazioni di bestiame. Siad Barre è ora
stanco ed anziano, il suo clan gestisce in maniera opaca lo Stato ed
il Paese è minato dalle faide tra etnie e dalle velleità
secessionistiche dell’ex-Somaliland britannico.
Il ministro degli esteri Gianni De Michelis e le autorità egiziane si
adoperano per una transizione morbida verso la democrazia, progettando
un iter che passa dalla redazione della costituzione a nuove elezioni.
A sabotare gli sforzi italo-egiziani intervengono gli inglesi che
danno ospitalità a Londra, foraggiandoli anche con cospicui
finanziamenti2, ai partiti ostili a Siad Barre: il Somali National
Movement che si batte per l’indipendenza dell’ex-Somaliland
britannico, l’United Somali Congress del generale Mohammed Farah Aidid
ed il Somali Popular Movement boicottano gli sforzi italiani fino a
farli deragliare. Sono in particolare la BBC inglese ed il Foreign
Office che si prodigano per alimentare le spinte secessionistiche
dell’ex-Somaliland, denigrano il governo centrale di Mogadiscio e
discreditano la politica somala dell’Italia.
Neutralizzate le iniziative italo-egiziane, una serie di misteriosi
attentati scuote la capitale, ricalcando il classico schema della
strategia della tensione: bombe all’ambasciata cinese ed irachena,
attentati contro la rappresentanza della CEE e l’ufficio centrale
delle poste. Per assestare il colpo di grazia allo stato somalo, gli
USA ritirano il loro sostegno all’esercito che, demoralizzato e
malpagato, si sfalda rapidamente: è l’inizio della guerra civile tra
le etnie, fondamentalisti islamici, separatisti dell’ex-Somaliland
britannico e signori della guerra vari che trasformano la Somalia in
una terra di nessuno. Lo Stato fallito diventa in cambio un’agevole
base per Al Qaida-ISIS-Al Shabab, offrendo così costanti pretesti a
Washington per bombardare, con l’unico concreto risultato di tenere il
Paese in un perenne stato di prostrazione ed instabilità.
Sono infatti essenzialmente somali i profughi che nei primi anni 2000
si riversano sulle coste italiane in un breve momento di bonaccia
internazionale, prima che inizi “la guerra al terrore” e la lunga
destabilizzazione del Medio Oriente, utile anche ad Israele.
Il Colonnello Gheddafi scampa nel 1996 all’ennesimo tentativo dell‘MI6
inglese di assassinarlo ricorrendo agli islamisti del Libyan Islamic
Fighting Group3 e l’Italia, grazie ad un certosino lavoro diplomatico,
ottiene il reinserimento di Tripoli nella comunità internazionale. Nel
1999 sono revocate le sanzioni ONU e sotto il governo Berlusconi II
(2001-2005) i legami economici tra i due Paesi si irrobustiscono,
consentendo alle aziende italiane di conquistare la preminenza nei
settori energia, infrastrutture e difesa.
Nel febbraio del 2009 il Parlamento italiano ratifica il “Trattato di
amicizia, partenariato e cooperazione” tra Italia e Libia che, oltre a
porre fine ai contenziosi dell’epoca coloniale, vieta ai contraenti il
reciproco ricorso della forza (art. 3) e l’ingerenza degli affari
interni (art.4). L’Italia si impegna a dotare la Libia, ricorrendo ad
imprese italiane, di infrastrutture per in valore di 5 $mld ed è messa
a punto una soluzione per risolvere l’annosa questione
dell’immigrazione clandestina. L’art 19 del trattato recita infatti4:
1. Le due Parti intensificano la collaborazione in atto nella
lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di
stupefacenti e all’immigrazione clandestina, in conformità a quanto
previsto dall’Accordo firmato a Roma il 13/12/2000 e dalle successive
intese tecniche, tra cui, in particolare, per quanto concerne la lotta
all’immigrazione clandestina, i Protocolli di cooperazione firmati a
Tripoli il 29 dicembre 2007.
È l’inizio dei respingimenti che, sebbene denigrati dalla
organizzazioni sovranazionali e Caritas varie (la Corte europea dei
diritti dell’uomo, in spregio all’emergenza sbarchi che l’Italia
affronta in solitudine e su pressione dell’establishmet atlantico, ne
chiede la sospensione nel 2012), producono un calo del 90% degli
sbarchi nel 20105 rispetto all’anno precedente. In termini assoluti
l’afflusso di immigrati crolla nel biennio 2009/2010 a 14.000 unità
dalle 38.000 del 20086: determinante, per l’attuazione della strategia
anti-sbarchi, è la fornitura da parte italiana di sei motovedette alla
marina libica che, affiancandosi alle nostre unità, fermano nelle
acque libiche le imbarcazioni cariche di immigrati7.
È proprio contro queste motovedette che nel 2011 si accanisce la NATO,
annichilendo la sparuta flotta libica e le capacità di contenere i
flussi migratori.
2011, il crollo
L’Italia, considerata nei consessi internazionali ancora un paese
uscito sconfitto dall’ultima guerra e come tale trattata, è nel 2011
oggetto di un attacco in grande stile che nell’arco di dieci mesi
(febbraio – novembre) scardina la democrazia, l’economia e le alleanze
internazionali.
Con il concorso delle agenzie di rating americane Standard & Poor’s e
Moody’s e la manipolazione dei credit default swap ad opera di Goldman
Sachs, Silvio Berlusconi, già dimezzato dallo scandalo Ruby, è
costretto alle dimissioni sull’onda dell’emergenza spread. Al suo
posto è installato a Palazzo Chigi il mondialista Mario Monti, futuro
artefice dell’austerità che nel volgere di pochi mesi devasta il
sistema produttivo italiano.
Sfruttando l’estrema debolezza italiana e giocando sempre di sponda
con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, gli
angloamericani ed i francesi coronano finalmente il sogno di
rovesciare Muammur Gheddafi: la totale perdita di sovranità monetaria,
politica e militare dell’Italia consente così a Washington, Londra e
Parigi di riuscire dove avevano fallito per 42 anni (il primo
esperimento anglo-francese per spodestare il Colonnello – l’operazione
Hilton Assignment8 – è sventato dal Sid guidato dal generale Vito
Miceli già nel 1970).
I bombardamenti della NATO radono al suolo lo Stato libico,
travolgendo sotto le macerie anche gli strumenti per la lotta
all’immigrazione: il 70% della flotta libica9 è affondato o gravemente
danneggiato dai raid aerei e, fatto ancora più grave, è inferto un
colpo letale al regime che, con tutti i suoi limiti, garantisce un
livello minimo di organizzazione burocratica, indispensabile per
controllare i flussi migratori.
Le cifre degli sbarchi sono sufficientemente eloquenti: nell’intero
2011, mentre i droni americani ed i corpi speciali anglo-francesi sono
impegnati nella snervante caccia al Colonnello, sulle coste italiane
si riversano 62.000 immigrati, rispetto ai 13.900 dei due anni
precedenti10.
Il 2012 è un anno relativamente tranquillo per la vita politica
libica, incentrata sulla nascita del Congresso Generale
Nazionaleincaricato di scrivere la nuova costituzione. È il periodo in
cui l’ambasciatore americano Christopher Stevens, usando come base
operativa il consolato americano di Bengasi condiviso con la CIA11,
supervisiona il traffico d’armi dalla Libia verso i porti turchi, dove
gli arsenali del defunto Colonnello equipaggiano gli islamisti
impegnati nella lotta contro Bashar Assad12. Qualcosa deve però
guastarsi nei rapporti tra Stevens ed i ribelli libici, freschi della
recente collaborazione per rovesciare Gheddafi: l’11 settembre 2012 il
consolato di Bengasi è preso d’assalto dai miliziani di Ansar
al-Sharia e l’ambasciatore americano soccombe nell’incendio appiccato
all’edificio dove si è rifugiato.
Ciononostante, l’emergenza sbarchi cala per tutto il 2012 e
nell’intero anno si registrano “solo” 13.000 nuovi arrivi.
La sostituzione del defunto Christopher Stevens con l’ambasciatrice
Deborah Jones, prudentemente installata a Malta, avvia però nel 2013
una nuova prepotente destabilizzazione del Paese nord-africano: a
gennaio il console italiano Giuseppe De Santis esce illeso da
un’imboscata tesagli a Bengasi ed il ministro degli esteri Giulio
Terzi denuncia il tentativo di rigettare il paese nel caos13; ad
aprile è la volta di un attentato dinamitardo all’ambasciata francese;
a maggio un’autobomba sventra parte dell’ospedale centrale di Bengasi
e la popolazione esasperata protesta contro il governo incapace di
garantire la sicurezza; a giugno una carica è piazzata sotto l’auto
del corpo diplomatico italiano a Tripoli ed i servizi segreti
ipotizzano il coinvolgimento di un terrorista vicino agliinglesi14; a
ottobre, a dimostrare l’impotenza del governo, il premier alb è
vittima di un sequestro lampo nell’albero in cui alloggia; a dicembre
il primo attentato suicida dell’era post-Gheddafi uccide otto persone
ad un posto di blocco nei pressi di Bengasi.
L’intero 2013 è poi costellato da misteriosi omicidi eccellenti che
eliminano, una dopo l’altra, figure di spicco dell’establishement
libico con ovvie ripercussioni sulla stabilità del Paese: muoiono
50-60 persone, tra cui si annoverano funzionari della polizia,
giudici, attivisti, generali delle forze armate ed alti ufficiali dei
servizi d’informazione15.
Gli sforzi angloamericani per bloccare la normalizzazione del Paese
sortiscono gli effetti sperati ed il 2013 è un anno record per gli
sbarchi: 43.000 immigrati approdano sulle coste italiane, di cui il
65% parte dalla Libia.
Nel 2014 gli angloamericani raccolgo i frutti della loro strategia di
destabilizzazione: le fragili istituzioni libiche collassano sotto il
peso di faide tra tribù, attentati dinamitardi ed intolleranze
religiose, provocando un parallelo aumento vertiginoso degli sbarchi
che totalizzano il record di 170.000 persone.
Basta analizzare le rotte dei barconi per avere conferma che dietro
l’ondata di sbarchi che investe l’Italia ci siano Washington e Londra:
la quasi totalità dei barconi salpa dalla Tripolitania (la regione
libica più vicina alla Sicilia) ed è proprio qui che nell’agosto del
2014, in netta opposizione alla tradizione che vuole la Tripolitania
“laica” e la Cirenaica “islamica”, si installa la formazione islamista
Alba della Libia.
Disconoscendo l’esito delle elezioni del 25 giugno, Alba della Libia
conquista manu militari la capitale, obbligando il legittimo governo
del premier Abdullah al-Thani a riparare a Tobruk. Le fortune degli
islamisti di Alba della Libia sono legate al sostegno economico e
militare elargito da Turchia, Qatar, USA e Regno Unito, uniti anche
sul fronte siriano contro il regime laico di Bashar Assad. Come
abbiamo più volte evidenziato nelle nostre analisi, la vicinanza degli
angloamericani agli islamisti di Tripoli e la parallela ostilità verso
il governo di Tobruk e l’esercito nazionale libico del generale
Khalifa Haftar, spinge quest’ultimi a cercare a Mosca le forniture
militari per la riconquista del Paese, negate loro da Washington che
persegue la “somalizzazione” della Libia.
Fa sorridere il tentativo della stampa filo-americana italiana di
scaricare sul generale nazionalista Haftar, impegnato da mesi nella
riconquista di Bengasi, le colpe dell’immigrazione clandestina: si
cimenta nell’impresa il giornalista de Il Manifesto Giuseppe Acconcia
(collaboratore dell’OpenDemocracy di George Soros e docente presso
l’Università americana del Cairo): anziché notare la lapalissiana
responsibilità del governo islamista di Tripoli nel traffico degli
immigrati, Acconcia accusa il governo di Tobruk ed il generale
egiziano Al-Sisi di alimentare i flussi migratori con oscure finalità
ricattatorie16.
Nel 2015 compare anche in Libia l’ISIS, i cui miliziani sono
trasbordati con il placet americano dalla coste turche alla Libia per
mezzo di navi, di tanto in tanto bersagliate dall’aviazione libica. Il
governo di Tobruk non desiste dal chiedere alla comunità
internazionale, ed all’Italia in particolare, di essere debitamente
equipaggiato per combattere l’immigrazione clandestina, ammonendo
anche di possibili infiltrazioni di miliziani dell’ISIS : Roma ignora
le richieste del legittimo governo libico e preferisce allertare le
prefetture e le regioni per ricevere la cifra record di 400.000 nuovi
immigrati17.
L’Italia, dopo l’avvallo alla scellerata operazione NATO contro
Muammur Gheddafi, si dimostra infatti ancora completamente succube ai
diktat di Washington: anziché arginare un fenomeno destabilizzante e
socialmente esplosivo come l’arrivo in massa di centinaia di migliaia
di persone, lo Stato italiano, già gravemente debilitato, si adopera
in ogni modo per facilitare l’invasione di clandestini.
Roma rifiuta l’assistenza al governo di Tobruk nella lotta
all’immigrazione, perché finora la volontà è stata quella di assistere
e persino incrementare degli sbarchi in ossequio alla direttive di
Washington: ampi spezzoni dello Stato assecondano questa politica.
Dalla Marina Militare alle coop, passando per i servizi: i fiancheggiatori
Nel febbraio del 2012 la Corte europea dei diritti dell’uomo fornisce
un assist decisivo per l’attuazione dell’invasione programmata
dell’Italia, condannando la politica dei respingimenti attuata
dall’Italia che nel biennio 2009-2010 dimezza quasi gli sbarchi: il
mondialista Mario Monti, installato a Palazzo Chigi sull’onda
dell’emergenza spread, si dice pronto a recepire la sentenza della
Corte18.
È in questi mesi che si perfeziona il business dell’immigrazione
clandestina, attivo a scala nazionale ma sviscerato solo a Roma
nell’ambito dell’inchiesta Mafia Capitale: l’indagine del procuratore
Giuseppe Pignatone ci interessa non tanto per i risvolti politici ma
perché rivela la partecipazione di larghi ed importanti spezzoni dello
Stato al fenomeno dell’immigrazione di massa, intesa non come una
minaccia da contrastare, ma al contrario come un avvenimento da
sfruttare.
L’emergenza clandestini si trasforma a Roma, ma è così in tutta
l’Italia, in un’opportunità per macinare utili a spese dello Stato,
che prima asseconda ed alimenta gli affari ruotanti attorno alla
gestione degli immigrati e poi, con l’avvio di Mare Nostrum, si
preoccupa di incrementare esponenzialmente gli arrivi di profughi e
clandestini.
A Roma il business dell’immigrazione fa capo a Salvatore Buzzi (“Tu
c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga
rende di meno” recita una sua telefonata) e Massimo Carminati, capo di
un clan mafioso abile nell’intercettare gli appalti del Comune di
Roma, da ultimo quelli legati all’accoglienza dei clandestini.
Chi sono questi due loschi figuri? Due pesci piccoli del mondo
criminale romano, che hanno scalato per caso i vertici della cupola
mafiosa che fa il bello ed il cattivo tempo nella capitale?
Decisamente no.
Salvatore Buzzi, condannato nel 1980 a venti anni di carcere per aver
ucciso con 34 coltellate il complice con cui froda la banca dove è
impiegato19, ha il raro privilegio nel 1994 di essere graziato dal
Capo dello Stato, allora Oscar Luigi Scalfaro. Intuisce da subito le
allettanti potenzialità del terzo settore se sviluppato gomito a
gomito con la politica e divenuto sodale di Luca Odevaine, già
vice-capo Gabinetto ai tempi della giunta di Walter Veltroni, si
infiltra così a fondo nel mondo politico romano da essere in grado di
accaparrarsi la metà degli appalti legati all’emergenza immigrazione
(l’altro 50% è dirottato sulle coop cattoliche dell’Arciconfraternita
del Santissimo Sacramento e di San Trifone). Il consorzio di
cooperative Eriches da Buzzi, chiude il bilancio del 2013 con 53
milioni di fatturato e, come ammette da lui stesso, tutti gli utili
provengono dalla gestione di profughi e clandestini20.
Massimo Carminati, il re di Roma alle cui dipendenze soggiace anche
Buzzi, è invece l’ultimo epigono della Banda Magliana,
l’organizzazione malavitosa che imperversa nella capitale tra gli anni
’70 e ’90, così vicina ai servizi segreti da nascondere il proprio
arsenale nei depositi del Ministero della Sanità. La longevità di
Carminati nel crimine romano, oltre ad un vita piuttosto discreta ed
appartata, è riconducibile alla passata esperienza nei Nuclei Armati
Rivoluzionari che, sul solco del terrorismo nero degli anni ’70,
collaborano alla strategia delle tensione con efferati stragi (la
bomba alla stazione di Bologna del 1980) ed omicidi eccellenti
(l’assassinio di Piersanti Matterella sempre nel 1980).
La contiguità dei servizi segreti, eufemisticamente definiti
“deviati”, alle attività criminali di Buzzi e Carminati è brevemente
pubblicizzata appena esplode lo scandalo21: poliziotti che avvertono
il “re di Roma” di essere sotto indagine, 007 che forniscono
consulenze e apparecchi per non essere intercettati, carabinieri del
nucleo operativo della compagnia di Trastevere che si mettono a
disposizione dell’organizzazione criminale, etc etc.
Buzzi e Carminati sono a conoscenza già nel novembre 2013, un anno
prima che scattino i gli arresti di Mafia Capitale, di essere sotto
indagine, ma il loro senso di impunità è tale che i loro affari
proseguono imperterriti: a turbarli è solo la nomina nel 2012 a
procuratore della Repubblica di Roma di Giuseppe Pignatone che, dopo
la sua attività a Reggio Calabria, è considerato un mina vagante,
fuori dai giochi romani22.
Un altro ramo dell’inchiesta Mafia Capitale prontamente insabbiato
dalla stampa è quello che coinvolge la Marina Militare: nel dicembre
del 2014 sono tratti in arresto tre ufficiali con l’accusa di aver
organizzato una truffa ai danni dello stato per 7 €mln, appropriandosi
del gasolio formalmente destinato ad una nave cisterna affondata
nell’Atlantico un anno prima.
La Marina Militare, la forza armata storicamente più vicina degli
angloamericani, è tra i maggiori fiancheggiatori dell’immigrazione
selvaggia e nell’ottobre del 2013 esercita forti pressioni sul governo
italiano per il lancio di Mare Nostrum, l’operazione di salvataggio a
largo delle coste siciliane che, anziché arginare il fenomeno degli
sbarchi, in poco più di un anno (ottobre 2013- novembre 2014) fa
lievitare il numero di immigrati in arrivo all’incredibile cifra di
170.000 unità.
Invece di farsi carico dei barconi quando entrano in acque italiane,
la Marina Militare e la Guardia Costiera estendono il loro raggio
d’azione alle acque libiche, cosicché agli scafisti è sufficiente
affacciarsi sul mare, chiamare i soccorsi ed attendere di essere
rimorchiati fino ai porti italiani.
La Marina Militare è entusiasta di Mare Nostrum, che finalmente le
offre un ampio spazio mediatico sui cinegiornali della RAI, carta
stampata e siti di Amnesty International e Ong varie, dove è celebrato
l’impegno della Marina a “salvare il maggior numero possibile di vite
umane”23. Poco importa se alcuni immigrati ammettano di essere stati
costretti ad imbarcarsi sotto la minaccia della armi, salpando dalle
spiagge di Tripoli controllate dalle milizie islamiste di Alba della
Libia.
Quando in Parlamento qualcuno fa notare come sia proprio Mare Nostrum
la causa dell’aumento esponenziale di sbarchi, il capo di stato
maggiore della Marina Giuseppe De Giorgi ha la sfacciataggine di
sostenere che non sia l’operazione italiana ad alimentare il flusso di
clandestini, bensì “fattori di forza globali”, come “il disfacimento
di Eritrea, Siria e Libia”24: l’ammiraglio dimentica che la
dissoluzione di questi stati non è frutto di cause naturali, ma della
precisa azione di Stati Uniti, Regno Unito ed Israele, coadiuvatati da
alcuni paesi mussulmani.
Arriviamo all’interrogativo finale: a cosa servono gli sbarchi di
massa, accuratamente apparecchiati dalla NATO?
Emergenza sbarchi, l’altra Ucraina dell’Europa
Nei nostri articoli abbiamo evidenziato fin da subito come il
principale obbiettivo del golpe in Ucraina fosse sedare le forze
centrifughe in seno all’UE generate dall’eurocrisi: provocando la
scontata reazione di Mosca minacciata nei suoi interessi vitali, gli
angloamericani elevano la Russia a nuovo pericolo per l’Europa,
rispolverando la funzione originale della UE/NATO, nate per il
contenimento dei russi.
Abbiamo inoltre dato risalto alla perfetta correlazione tra crisi
greca e crisi ucraina, sottolineando come l’aumento delle probabilità
che Atene lasci l’euro sia accompagnate a distanza di giorni, se non
di ore, dalla recrudescenza del conflitto ucraino.
Ebbene, la funzione degli sbarchi di massa, è la stessa assolta dal
conflitto ucraino: creare instabilità e tensioni,presentando la
UE/NATO come la soluzione ai problemie minacciando foschi scenari
qualora gli Stati affrontassero singolarmente queste sfide. “Fortunati
che ci sono la NATO e l’Unione Europea a fronteggiare la Russia e
l’immigrazione!” dicono gli alfieri dell’establishment euro-atlantico.
“Senza la UE e la NATO verreste inghiottiti dall’Africa e schiacciati
dalla Russia! Guai a cambiare lo status quo!” continuano.
Finora le personalità italiane che abbiano meglio esplicitato il
concetto sono i massoni Mario Monti e Giorgio Napolitano.
Dice infatti l’ ex-Goldman Sachs Mario Monti, tanto nefasto all’Italia
quanto esplicito nel descrivere le strategie del potere25:
“Se si crea un’Europa del Sud, magari con qualche paese che esce
dall’euro o con un euro un po’ più debole rispetto a quello adottato
dai Paesi del nord, può darsi che l’Europa a quel punto deleghi
all’Europa del sud la funzione di frangiflutti rispetto ai flussi
migratori, trasformandolo in un avamposto non integrato nell’Europa”.
Incalza l’ex-presidente della Repubblica, ora senatore a vita Giorgio
Napolitano:
“Questo è il momento dopo il 1989 in cui si impone la costruzione
di un nuovo ordine mondiale. Siamo giunti al dunque, bisogna
riflettere su come sia giusto e sostenibile un ordine mondiale.
Dobbiamo guardare al domani, ai prossimi mesi e riflettere e operare
sul futuro. (…) Non siamo di fronte solo a un’emergenza, siamo dinanzi
a movimenti e rimescolamenti di popolazioni nel Mediterraneo (chiaro
riferimento al piano Kalergi, NDR). Fino a ieri la questione
Mediterraneo-Medio Oriente è stata ai margini dell’azione europea. (…)
Oggi è tempo di un’azione non più procrastinabile”.
La strategia angloamericana di compattare la UE con l’emergenza
emigrazione ha finora sortito esiti positivi? A differenza della crisi
ucraina, dove perlomeno Washington ha ottenuto da Bruxelles
l’imposizione delle sanzioni economiche contro la Russia, l’emergenza
sbarchi si è rivelata un clamoroso fallimento, alimentando anziché
sedando i nazionalismi che stanno sgretolando la UE.
Su pressione dei conservatori inglesi alle prese con le elezioni
politiche e della CDU/CSU di Angela Merkel, l’operazione Mare Nostrum
che termina il primo novembre 2014 è sostituita dall’operazione
europea Triton, che archivia il soccorso nelle acque internazionali e
restringe il raggio d’azione dei soccorsi a 30 miglia dalle coste
italiane.
Fallisce poi miseramente poi il tentativo di spalmare la fiumana di
immigrati in arrivo sulle coste italiane sui diversi membri della UE:
è in primis la Francia ad opporsi all’ipotesi che i clandestini siano
spartiti per quote proporzionali e le trattative in corso prevedono
una modestissima ricollocazione di 40.000 immigrati dalla Grecia e
dall’Italia verso gli altri paesi, esclusi Regno Unito, Irlanda e
Danimarca26. Nel frattempo sia in Austria che in Francia riprendono i
controlli alle frontiere per respingere i clandestini che cercano di
superare il confine.
Quali sono dunque le prospettive per l’Italia in vista dell’estate,
stagione “calda” per eccellenza per quanto concerne gli sbarchi? Come
per l’Ucraina, c’è da aspettarsi anche in Libia una nuova ondata di
destabilizzazione ad opera degli angloamericani, sempre più
preoccupati dalla velocità con cui si sta disintegrando la UE. I
segnali in questo senso purtroppo non mancano: i tagliagole dell’ISIS
si rafforzano giorno per giorno in Libia27 ed il governo islamista di
Tripoli, molto sensibile agli interessi americani, ha già minacciato
di reagire qualora gli europei intervenissero militarmente contro le
basi degli scafisti28.
L’Italia, priva di qualsiasi forma di sovranità, rischia così di
essere travolta dalla sempre più vasta opera di destabilizzazione
condotta dall’establishment euro-atlantico, che dall’Ucraina alla
Libia, passando per i Balcani, sta infiammando tutto il nostro estero
vicino: comprendere che l’Unione Europea e l’Alleanza Atlantica sono
l’origine e non la soluzione dei nostri mali, è il primo passo per
fermare la dissoluzione sociale ed economica del Paese.
Federico Dezzani
Fonte: http://federicodezzani.altervista.org