Calcata e la Valle del Treja, dove vissero i Falisci…

Lunario Paolo D'Arpini 22 luglio 2024


In cerca di storie… alla scoperta del territorio falisco

Attorno al luogo sacrale del Soratte, tra il bacino del Treja e la bassa valle del Tevere, si stende il territorio, che fu abitato dal XV al III secolo avanti l’era volgare dai Falisci. Attraversare questa contrada è assai interessante per il naturalista, sebbene essa sia quasi impervia ed assai faticosa.

Faleria, Calcata, Mazzano, Magliano Romano, etc. sono siti dell’alta valle del Treja o dei suoi affluenti, i paesi sparsi su un terreno ondulato, tormentato da quei profondi burroni. Il varcare queste forre non è sempre impresa facile là dove mancano le strade. Non c’è da pensare né all’automobile né al motociclo: di cavalli od asini pochi ve ne sono, né si possono avere a nolo. I luoghi sono in generale troppo privi di ombra per prestarsi alle escursioni esclusivamente pedestri.

La bicicletta forse è uno strumento adatto, sebbene spesso bisogna rassegnarsi a condursela a mano, o peggio, a portarsela in spalla, allora la passeggiata assume presso a poco la fisionomia di un cross country. Ma le divagazioni primaverili ed autunnali su questo suolo pittoresco, situato fra le vette blandamente coniche dei vulcani Cimini e Sabatini e le rudi scogliere solitarie di Sant’Oreste, sono piene d’incanto. Si può vagare alla ventura dappertutto dove le strade o i sentieri serpeggiano, sicuri di trovar pascolo alla curiosità, alla meditazione e allo studio. Talora il cammino è ombreggiato da fitte boscaglie falle di grossi ed annosi ceppi di ontano, di faggio, di quercia mozzati in gioventù all’altezza di un metro, e da allora coronati ad ogni stagione da ciuffi di polloni giovani che si recidono ogni due o tre anni. Vaste estensioni, tenute in questa forma speciale di ceduo forniscono a Roma la legna sottile per l’uso domestico.

Centinaia di migliaia dì piccole fascine tutte eguali, saldamente legate in vincoli dì rami attorcigliati, appoggiate le une alle altre, formano immensi depositi, dì cento o più metri di lunghezza per cinquanta dì larghezza. Una capanna o una tana scavata nel tufo ricovera ì poveri custodì. Nelle boscaglie adiacenti corrono numerose le lepri e dicesi anche che vi sì nascondano i cinghiali. Campagnano fu anzi un tempo famoso per le cacce riservate, abbondantissime dì questa grossa selvaggina. Ma per il turista il cinghiale è un po’ come il camoscio per l’alpinista. È ben certo che l’animale c’è, ma pochi lo vedono. Certi valloni che nelle bassure raccolgono un po’ d’acqua semistagnante, o trasudano umidità dai fianchi, verdeggiano più dei terreni alti che lì dominano, ed invece dei poveri vigneti scaglionati sui pendii, sì distendono sul loro fondo grandi praterie magre, e povere di fiorì, infestate, dagli asfodeli, cariche dì lumachelle, ove pascolano gravemente mandrie dì vaccine grigie a lunghe conia. In qualche luogo è invece il formicolio dì greggi dì pecore da cui sopra-vantano colle spalle i becchi puzzolenti lentamente brucanti sul maggese, guardate intorno da ringhiosi cani maremmani cattivi nell’aspetto, e dai quali si può attendere tutto.

Se l’abbaiare astioso dì questi animali semiferoci minaccia il ciclista, deve mettersi in volata se il terreno glielo permette o scendere dì macchina per evitare gli acuti loro denti. Nei bassifondi sì trovano anche qui gli abbeveratoi caratteristici della campagna romana, lunghi, stretti, colla bocca d’acqua ad una testata: acque tutte malefiche, calde, torbide, abbondanti dì microrganismi. Un silenzio indisturbato incombe sopra questa contrada selvaggia: né canti, né rumori dì carri o dì persone. Solo da qualche eminenza sì scorge lontano nell’aria, la scarna fila dei pali dì ferro che sostiene la conduttura dei tram elettrico da Civita Castellana a Roma. In certe epoche dell’anno un sordo galoppo avverte nella mattinata che delle artiglierie sono condotte per i tiri dal Campo dì Bracciano a qualche vallone. Allora su certe eminenze perimetrali alla zona di tiro si inalberano dei bandieroni rossi, che delimitano ì luoghi pericolosi. Le batterie, spariscono nascoste coi cassoni, piazzate giù il più basso possibile. Soltanto il rombo prolungato degli spari che sì diffonde a intervalli, e, a grande distanza, un lieve fumo su dì un clivo colpito dalle granate, rivelano la presenza delle macchine da guerra. Il mistero copre l’insidia dì quest’arte micidiale, che mira un bersaglio nascosto e lo colpisce a tradimento senza poter neppure contemplare la distruzione che opera, ed è per vedere quest’invisibile che su qualche dosso si raccolgono, in gruppi eleganti, le nere figure degli ufficiali muniti dì binocoli, corruscanti nei riflessi del sole. Le scarse acque che scorrono nei borri incisi profondamente nel terreno vulcanico, lambiscono in qualche posto alte sfaldature dì rocce inaccessibili.

Questi villaggi hanno serbato dei tempi feudali l’impronta minacciosa, ma quasi tutti sono privi dì avanzi monumentali notevoli. Gli squarci delle rocce si prestano a creare ì contrasti più pittoreschi dì pianori rotti da precipizi, dì praterie e dì boschi, dì straducole inerpicantesi su per ì fianchi dirupati come nei presepi natalizi, percorse nel passato da asinelli e da uomini colle brache corte, in carovana, da donne cariche sul capo dì grossi fardelli, in acconciature caratteristiche ed in vestimenta, che, almeno nel colore, conservano l’uniformità dì un costume locale.

Tale è il paese notevole per tante particolarità che sì estende fra la Flaminia e la Cassia, a nord dì Veio e a sud dì Falerii, dominato dal Soratte, bagnato dal Treja, in più luoghi solcato dalle antiche vie romane ancor lastricate dai grandi poligoni dì selce che sfidano le alluvioni e l’aratro come se fossero rocce radicate nel suolo, incrociate qua e là da ben più antichi avanzi dì strade falische, così che quando le legioni romane lo attraversarono nei primi tempi, esse calpestavano già le necropoli etrusche, ricche da secoli dei prodotti dì un’arte propria, e di non spregevoli imitazioni locali degli splendori ellenici. Queste terre che ì Falisci avevano fecondato colla loro antichissima civiltà, cominciata nel XV e finita nel III secolo avanti l’era volgare, ci hanno serbato molti reperti degni dì ammirazione, che ora sono raccolti nel i museo di Forte Sangallo a Civita ed in quello dì Villa Giulia a Roma, poco fuori dì Porta del Popolo, messe ricca, che potrebbe certo decuplicare con tutta facilità se più larghi mezzi permettessero altri scavi.

(Tratto dal libro: I racconti dalla Città Invisibile, a cura di Paolo D’Arpini)

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