“Oltre la Bibbia. Antica storia di Israele” di Mario Liverani – Recensione
Mario Liverani, che insegna Storia del Vicino Oriente Antico all’università La Sapienza di Roma, è autore del volume Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, sostiene che non possono essere considerati storici i racconti più celebri del Vecchio Testamento, come le vicende di Abramo e dei Patriarchi, la schiavitù in Egitto, l’Esodo e la peregrinazione nel deserto, la conquista della terra promessa, la magnificenza del regno di Salomone.
“Gli ebrei, come del resto tanti altri popoli, si sono dati un mito delle origini nel momento in cui ne avevano più bisogno”, dice Liverani. “Oggi, con evidente anacronismo, ma con qualche ragione, si potrebbero accostare quelle pagine del Vecchio Testamento a un documento di propaganda politica”. Occorreva dare un passato nobile ad un popolo che rischiava di perdere la propria identità.
L’esilio imposto agli Ebrei dai Babilonesi nel 587 a.C. rafforzò la loro fede in unico dio. La scrittura e la rielaborazione dei testi biblici principali è durata più o meno un secolo, all’incirca dal 622 al 516 avanti Cristo: un secolo segnato da un evento che avrebbe potuto cancellare l’identità del popolo ebraico e la sua fede in un unico dio.
“Gli Ebrei avevano un loro piccolo Stato, il regno di Giuda, che attorno a Gerusalemme si estendeva su una superficie paragonabile a quella dell’Umbria: come altri staterelli dell’area, era assoggettato alla potenza egemone dell’epoca, l’impero babilonese. Si ribellò, ma gli andò male: i Babilonesi assediarono per anni Gerusalemme, la espugnarono e la distrussero. Il Tempio di Yahweh, il dio unico, fu abbattuto e il sommo sacerdote giustiziato assieme a una sessantina di notabili. La popolazione cittadina fu deportata in Mesopotamia. I contadini sparsi nelle campagne vennero invece lasciati sul posto: non rappresentavano un problema per l’impero”.
Lo scopo delle deportazioni fatte dai Babilonesi (e prima di loro dagli Assiri) era quello di cancellare l’identità dei popoli vinti, inducendoli ad adottare la lingua e ad adorare gli dei del vincitore.
Secondo le idee del tempo, i deportati non avevano motivo di credere ancora nel loro vecchio dio, che era stato sconfitto in guerra e non era stato capace di proteggerli. E invece, nei 70 anni che durò la “cattività babilonese”, i leader religiosi e politici ebrei, scampati al massacro, respinsero l’idea che Yahweh fosse stato sconfitto e adottarono una posizione religiosa radicalmente nuova, questa: il dio di Israele era l’unico dio di tutto l’universo. E non solo non era stato sconfitto, ma si era servito dei Babilonesi per punire il suo popolo, colpevole di gravissimi peccati.
I Babilonesi, dunque, erano stati solo uno strumento della divinità. Gli Ebrei, anziché perderla, rafforzarono la propria identità nell’esilio, convinti che, una volta espiata la colpa, forti di una religione rigorosa e purificata, sarebbero tornati in patria: dove avrebbero ricostruito Gerusalemme e il celebre Tempio.
L’occasione si presenta nel 539 avanti Cristo: Ciro, re dei Persiani, conquista Babilonia e consente agli Ebrei di rientrare in patria come sudditi del suo nuovo impero. Figli e nipoti dei deportati tornano a scaglioni a Gerusalemme, animati da un rinnovato spirito di rigore religioso.
Trovano però scarsa comprensione in quella parte della popolazione ebraica che non era stata deportata: peggio ancora, spazi che considerano loro sono stati occupati da immigrati di altra fede provenienti dalle regioni confinanti. I reduci hanno allora bisogno di un documento che dica in sostanza: “Abbiamo il diritto di riprenderci quello che è nostro da sempre: la Terra di Canaan, che ci è stata promessa da Yahweh e che Giosuè ha conquistato per noi.
Dice Liverani: “La riscrittura delle origini del popolo ebraico era già iniziata a Gerusalemme prima della deportazione, quando il re di Giuda, Giosia (regnò dal 640 al 609 avanti Cristo) progettava di espandere il suo piccolo Stato verso i confini di un mitico regno che nel remoto passato avrebbe unito sotto uno solo scettro tutti gli Ebrei. L’elaborazione del mito continuò durante l’esilio e proseguì negli anni successivi al ritorno da Babilonia.”
L’area di Gerusalemme è oggetto di scavi archeologici da un secolo e mezzo: del periodo che, secondo il racconto biblico, avrebbe visto la fioritura del “regno unificato” degli Ebrei (siamo nel X secolo avanti Cristo) non è stato trovato nulla, se non pochi cocci di terracotta. Non una traccia di scrittura, neanche minima: fatto inconcepibile per un regno di qualche importanza. Non si conosce, dai documenti contemporanei dei popoli vicini, neanche il nome di questo preteso regno. “In realtà”, dice Finkelstein, “quella Gerusalemme doveva essere un centro abitato piuttosto insignificante, un villaggio tipico della regione montuosa. Secondo calcoli demografici impiegati per questa epoca, il “regno” non doveva contare più di 5000 abitanti sparsi fra la capitale, Hebron e la Giudea, più qualche gruppo sparso di seminomadi.”
Secondo le osservazioni di Liverani nei documenti egizi dell’età del Tardo Bronzo non c’è traccia della permanenza di un popolo straniero nella valle del Nilo, né della presenza di Mosè alla corte del Faraone.
L’unico accostamento possibile è la prassi con la quale il Faraone accordava ai pastori nomadi il permesso di soggiornare nel Delta in tempo di siccità per abbeverare il bestiame. D’altra parte, l’idea di un impero che tiene prigioniero un popolo in terra straniera non poteva nascere prima dell’esperienza delle deportazioni assiro-babilonesi, avvenute però nel millennio successivo.
Analoghe osservazioni valgono per l’Esodo e la peregrinazione nel deserto. Usciti dall’Egitto grazie all’intervento divino, che terrorizza il Faraone oppressore con le terribili “sette piaghe”, il popolo ebraico avrebbe peregrinato per 40 anni nel deserto. Ma quello descritto è un deserto immaginato attraverso le paure e i pregiudizi di un cittadino di Gerusalemme o di Babilonia, che vi vede serpenti e scorpioni dappertutto ed è convinto di morirvi di sete e di fame, a meno di interventi della divinità. Un popolo di tradizione pastorale avrebbe avrebbe percorso le piste della transumanza e trovato acqua e pascoli nei posti giusti.
Di questa sapienza antica non c’è traccia nel racconto biblico, che appare poco più di una cornice per esporre questioni giuridiche e religiose.
Le Tavole della Legge, come del resto altre parti della narrazione biblica, contengono senza dubbio precetti antichissimi, che erano stati trasmessi per molto tempo soltanto dalla tradizione orale. Ma il primo dei comandamenti, quello che impone di adorare un solo dio, non è più antico del regno del di Giosia (640-609 a.C.).
L’onomastica rivela che gli Ebrei in origine adoravano altri dèi oltre a quello che sarebbe diventato il loro unico dio e che in ebraico era chiamato Yahweh. Alcune iscrizioni parlano di Yahweh e della sua compagna, una dea cananea di nome Asherah.
Poi adottarono la monolatria, cioè la fede in un unico dio per tutta la nazione, senza escludere che gli altri dei di altri popoli fossero a loro volta veri. Infine, ma solo negli anni dell’esilio babilonese, passarono al monoteismo puro, cioè al riconoscimento di Yahweh come dio unico di tutto l’universo. Anche il quarto comandamento, quello che impone l’obbligo di onorare il padre e la madre, si ritrova in scritti siriani mesopotamici, anche in forme più esplicite tipo “Mantieni il padre e la madre se vuoi avere diritto all’eredità.”
Lo studio delle culture del Vicino Oriente Antico ha permesso di stabilire che molte narrazioni bibliche non sono originali, ma si sono ispirate a fonti più remote. Il racconto del Diluvio Universale, per esempio, si trova già nel poema epico di Gilgamesh, eroe sumero-babilonese del 2000 a.C., come testimoniato dalle tavolette con scrittura cuneiforme trovate a Ninive.
Incredibile è la somiglianza fra il codice di Hammurabi, re babilonese del XVIII secolo a.C. che fece redigere la più antica raccolta di leggi e i Dieci Comandamenti, come “Non frodare”, “Non adorare altre divinità al di fuori del Signore”, “Non concupire”, “Non desiderare roba d’altri”.
L’episodio riguardante Eva e la mela è tratto da una leggenda sumera che faceva dipendere l’origine dei mali dalla prima donna che, indotta da un serpente a disobbedire al dio creatore, convinse il suo compagno a mangiare il frutto dell’albero proibito. La favola sumera viene raccontata in un documento chiamato “Cilindro della Tentazione” che è conservato presso il British Museum di Londra. Questo documento, scritto nell’anno 2500, esisteva già venti secoli prima che venisse redatta la Bibbia.
La Torre di Babele altro non era che la ziggurat che il re di Ur, Nimrod, fece costruire a Babilonia nel 2100 a.C. in onore del dio Nanna.
Per gli storici, la folgorante campagna militare di Giosuè per la conquista della Palestina (la terra che la Bibbia dice promessa da dio ad Abramo, progenitore mitico degli Ebrei) è del tutto inverosimile: chi ne ha scritto il racconto ignorava che all’epoca la Palestina era occupata dagli egiziani, che di sicuro non se ne sarebbero rimasti con le mani in mano. Inoltre, nessun documento contemporaneo ne reca traccia.
L’archeologia ha dimostrato che, fra le città che la Bibbia dice espugnate da Giosuè, Gerico era già in rovina e abbandonata da quattro o cinque secoli e Ai addirittura da un buon millennio.
E i popoli che sarebbero stati sterminati fino all’ultimo uomo, donna e bambino per ordine di Yahweh? Con qualche sollievo gli storici hanno accertato che il loro elenco nella Bibbia è inventato. Salvo i Cananei, che si trovavano davvero in Palestina, ma che di certo non vennero sterminati, e gli Ittiti, autentici anche loro, ma che in Palestina non avevano mai messo piede, gli altri, Amorrei e Perizziti, Hiwiti e Girgashiti, “giganti” e Gebusei sono popoli semplicemente immaginari.
Figlio di David e Betsabea, Salomone segna, nella narrazione biblica, il momento di massimo successo politico degli Ebrei. Succeduto al padre su un trono comprendente tutte le 12 tribù di Israele, Salomone avrebbe allargato i confini del regno fino a farne una potenza regionale. Ma la pretesa che si estendesse dall’Eufrate al “torrente d’Egitto” (oggi Wadi Arish) rivela l’anacronismo: questi sono i confini della satrapia persiana della Transeufratene, istituita però secoli dopo.
La descrizione biblica del grande tempio edificato da Salomone non è credibile: nella Gerusalemme del tempo, una città piccolissima, non ci sarebbe stato neanche lo spazio per erigerlo. Ha poi tutta l’apparenza di una favola il viaggio della regina di Saba che parte dal regno dei Sabei (un territorio dell’odierno Yemen) per far visita a Salomone accompagnata dai suoi cortigiani con doni preziosi per saggiare la sapienza e l’intelligenza del grande re Israelita.
Salomone è forse una figura storica, ma del suo nome non c’è traccia in nessun documento al di fuori della Bibbia.
(Fonte: http://www.homolaicus.com/at/bugie-bibbia.htm)