La trave nell’occhio… e la caduta dell’impero occidentale
La vera sfida in questa fase storica, se sei un occidentale moderatamente vigile, e a maggior ragione se sei italiano, è non soccombere alla depressione.
Già, perché chi riesce ancora a unire i puntini e a intuire almeno la forma generale di quello che ci sta succedendo, vede che siamo di fronte a qualcosa che ha la portata della caduta dell’impero romano. Il decentramento dell’impero americano ha ed avrà conseguenze non minori di quell’illustre precedente sulle sue province.
Il dato di partenza è che il mondo non è già più unipolare, come è stato dagli anni ‘90, e non è neppure bipolare, come è stato dopo il 1945, ma sta divenendo sempre più chiaramente multipolare.
In questo contesto l’Occidente europeo vive una doppia tragedia, geopolitica e culturale.
Sul piano geopolitico si sta capendo sempre più chiaramente come l’Europa in tutte le sue versioni non si sia mai davvero allontanata dalla cuccia predispostale nel secondo dopoguerra dagli USA.
Gli europeisti, o almeno una parte di essi, si erano illusi che l’Europa (CEE, CE, UE) fosse nata come contraltare e polo alternativo agli USA, ma il perfetto allineamento degli “alleati” degli USA prima nella vicenda pandemica ed ora nel conflitto russo-ucraino ha mostrato a chi ne avesse ancora bisogno che l’Europa è e rimane sostanzialmente una colonia americana, tenuta a catena corta dal padrone.
Il fatto che in questo momento tutta l’Europa stia scavando la propria tomba economica opponendo pochissima o nulla resistenza alle spintarelle americane dice tutto quello serve per capire.
Tralasciando l’Italia, che scondinzola attorno all’amministrazione USA in modo molesto e imbarazzante persino per il padrone, anche paesi un po’ più accorti del nostro circa i propri interessi (Germania e Francia) stanno tutt’al più mugugnando, senza riuscire davvero a prendere una posizione differente. Si dirà: perché accade? Parte della risposta sta semplicemente nel fatto che il nostro asservimento strutturale agli USA passa attraverso la dipendenza totale sul piano militare (dal ‘45 siamo e restiamo pieni di basi militari americane) e sul piano delle telecomunicazioni (la “rete” è sì “mondiale”, ma in effetti è sotto diretto o indiretto controllo americano – salvo per quei paesi che hanno adottato verso di essa per tempo e sistematicamente modalità di filtraggio e sorveglianza su base sovrana.)
Ma c’è anche una seconda parte della risposta, che è assai più triste, e con ciò veniamo alla tragedia culturale.
L’Europa è soprattutto una colonia culturale americana.
Il mondo in cui ci muoviamo è integralmente formato da modelli, format e contenuti di importazione: passeggiamo virtualmente per le strade di S. Francisco e tra gli attici di Manhattan, viviamo come nostri i problemi di razzismo di un’eredità schiavista e facciamo seriosi interventi legislativi per porre rimedio ai problemi dell’Alabama.
Persino l’apprezzamento che abbiamo per le nostre città o per i nostri territori passano attraverso la patinatura della filmografia americana e ci emozioniamo nel vedere con gli occhi di Hollywood il glamour di Parigi o le vie di Roma.
Gli USA si sono dimostrati essere sì una potenza militare, ma soprattutto un’immensa potenza propagandistica, una macchina monopolistica micidiale di creazione dell’immaginario. Ed è perciò che noi europei non siamo più in grado nemmeno di immaginare forme di vita diverse da quelle fittizie proiettate dall’advertising americano. I cinesi, russi, arabi, ecc. che la nostra immaginazione evoca sono proiezioni passate attraverso gli studios californiani.
Ora, finché gli USA erano il padrone unipolare del mondo, questa nostra collocazione di province culturali dell’impero americano poteva non risaltare, ed essere relativamente innocua. Ci consentiva di proseguire nel sogno europeo anteguerra di essere i “civilizzatori del mondo” che si facevano carico del “fardello dell’uomo bianco” (white man’s burden), anche se ora il comando centrale era passato dalla rissosa Europa al di là dell’Atlantico. Abbiamo continuato a percepirci come il centro culturale del mondo, e lo abbiamo fatto in modo vicario, parassitario, grazie alle portaerei americane e alla filmografia americana. Certo, sapevamo di non essere più davvero al centro, ma finché ci pensavamo come ricca e colta periferia dell’impero, non c’era bisogno di sottilizzare. Potevamo persino permetterci di fare un po’ gli snob nei confronti dell’ingenuità plastificata dei cugini americani, permettendoci tratti di paternalismo sul piano dell’”alta cultura”.
Ma gli USA sono in crisi da tempo, e il resto del mondo non è più un’espressione geografica su cui semplicemente muovere le pedine americane. Gli USA sono riusciti a contenere negli anni ‘80 l’autonomia giapponese e riescono ancora, con qualche fatica a tenere in piedi la “dottrina Monroe” nel continente americano. Ma l’emergere della potenza cinese, la rinascita russa dalle ceneri dell’URSS e anche la tumultuosa insofferenza dell’intero mondo islamico hanno ridato fiato a tutte quelle parti del mondo lontane dai paradigmi americani, e che ora riescono ad immaginare che il loro destino includa la possibilità di esplorare strade proprie.
In questo quadro la tragedia europea si staglia in tutta la sua angosciosità.
L’Europa oggi appare in effetti culturalmente incapace di comprendere e accettare che possano esistere forme di vita diverse da quella euroamericana.
Si tratta di una forma di spettacolare cecità antropologica, di cui le èlite europee, e in ampia misura anche il popolo minuto cresciuto davanti alla TV, sono espressione.
Non riusciamo proprio a capacitarci di come si possa essere e soprattutto desiderare di essere diversi da “noi”, laddove questo “noi” è l’idealizzazione mediatica e fascinosa della “vita occidentale”.
Così noi, i nostri ceti politici e le nostre cassi dirigenti, oggi si trovano paralizzati nell’incapacità di pensare al resto del mondo in termini che non siano quelli di un “grande errore”.
Questa cecità culturale poteva essere un mero difetto sovrastrutturale finché comunque al centro della scena della potenza mondiale c’eravamo noi europei, ed era comunque un difetto privo di conseguenze drammatiche finché, come provincia dell’impero americano, non dovevamo davvero confrontarci con niente di davvero diverso.
La “diversità” che il mondo euroamericano celebra è sempre solo la diversità innocua e magari buffa del “folclore” o della “eccentricità” interna alla propria forma di vita. Ma una diversità che si pensi come mondo alternativo è per noi concepibile solo come un “grande errore”.
La tragedia è che oggi, per evitare di uscire dall’illusione che ci siamo costruiti attorno, dobbiamo assumere in modo sempre più netto posture dogmatiche, dobbiamo chiudere non solo gli occhi, ma le orecchie e il naso, e tappare la bocca ai dissenzienti, perché solo ed esclusivamente il mondo fittizio delle liberaldemocrazie idealizzate che ci è stato teletrasmesso ci appare abitabile.
E’ per questo che i leader europei non possono davvero oggi opporsi alle volontà americane: non solo per oggettivi rapporti di forza, ma anche perché tutti gli argomenti, tutti i modelli, tutto l’immaginario su cui possono fare leva dice a loro e al loro elettorato una sola cosa: nessun altro mondo è possibile. Gli altri, tutti gli altri, tutte le epoche diverse dalla nostra, tutte le forme di umanità diverse dalla nostra – così come ci viene rappresentata idealmente – sono solo errori, incomprensibili brutture, residui dogmatici.
Solo che oggi, questa nostra cecità ci induce a raccontarci bugie sempre più grandi, e ci spinge ad essere sempre più intolleranti verso chi non regge il gioco di queste illusioni. E questa cecità ci rende anche incapaci di valutare il pericolo reale di continuare a crederci l’indispensabile centro del mondo, mentre potremmo ritrovarci in tempi straordinariamente rapidi ad essere solo la periferia ottusa e impoverita di un impero americano, a sua volta decentrato e in crisi.
Andrea Zhok – https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/22640-andrea-zhok-cecita.html