Quante sono le facce dell’Ucraina?
Il nócciolo della questione é proprio questo: non esiste una sola Ukraina. Esistono due Ukraine, nettamente diverse tra loro: quella dell’est e del sud, che é sostanzialmente una propaggine della Russia; e quella dell’ovest, che guarda al mondo occidentale e, soprattutto, tedesco. E non é tutto, perché é possibile ritagliare anche una terza Ukraina, estesa nell’area centrale del paese e, nel tempo, unita ora con l’una, ora con l’altra delle due “nazioni” rivali.
Per comprendere una realtá geopolitica certamente complessa, si deve necessariamente andare indietro nel tempo: fino al Medioevo, quando tutta l’Ukraina a est del Nipro (il fiume che taglia verticalmente in due il paese e sulle cui rive sorge l’odierna capitale Kyiev) fu la culla del primo insediamento russo: era quella che allora si chiamava Rus’ di Kyiev e che successivamente diverrá la Piccola Russia, una di Tutte le Russie dell’impero zarista.
Anche l’Ukraina occidentale affonda le radici nel Medioevo, quando aveva separato i suoi destini da quelli dei territori orientali – minacciati dai mongoli – facendo blocco con la Confederazione Polacco-Lituana, avamposto dell’Europa occidentale e della cattolicitá. Successivamente assegnata all’Impero Austriaco con il nome di Regno di Galizia, l’Ukraina occidentale passerá alla sovranitá polacca dopo la prima guerra mondiale, transitando poi nella sfera tedesca con la seconda guerra mondiale. Contemporaneamente, la parte piú orientale dell’Ukraina occidentale – scusate il bisticcio – tornava alla sovranitá dell’Ukraina russa (Repubblica Socialista Sovietica Ukraina), giusta le previsioni del patto nazi-comunista del 1939.
Quando, nel 1941, il Terzo Reich e l’Unione Sovietica ruppero l’alleanza, gli ukraini occidentali (filotedeschi e filonazisti) intrapresero una crociata per “liberare” gli ukraini orientali (filorussi e filocomunisti) e per creare una “Grande Ukraina” unificata. Nel 1945 saranno invece gli orientali a “liberare” gli occidentali, annettendoli – insieme ai ruteni ex-cecoslovacchi – alla R.S.S. Ukraina, che cosí diventava sostanzialmente la “Grande Ukraina” sognata dai nazionalisti filonazisti, sia pure con una diversa connotazione politica.
Nel 1991, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la R.S.S. Ukraina abolí l’etichetta di “Repubblica Socialista Sovietica”, ma mantenne l’assetto artificiale di un mastodonte che teneva insieme non soltanto due o tre popolazioni ukraine molto diverse tra loro, ma anche una folta comunitá etnico-linguistica russa: una robusta minoranza del 30% rispetto all’intera Ukraina, che peró diventava maggioranza nelle regioni orientali e meridionali del paese. Maggioranza che era addirittura schiacciante in alcune regioni: la Crimea (che Krusciov regaló letteralmente all’Ukraina nel 1954 e che Putin si riprese nel 2014) e il Donbass, di cui fanno parte anche le due repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk che sono state appena riunite alla Russia.
Naturalmente, un paese con un sí precario equilibrio etnico (e politico) aveva tutto l’interesse a mantenersi amico della Russia, anche perché da questa riceveva aiuti e forniture di gas a prezzo stracciato. Peraltro, dopo la caduta del muro di Berlino, la Russia aveva lasciato andar via pacificamente le nazioni che avevano fatto parte dell’URSS, ma dietro promessa che la NATO non si sarebbe spinta “un solo centimetro” verso est.
E, invece, gli Stati Uniti hanno ben presto iniziato a sobillare gli ukraini, fino al punto da organizzare una “rivolta popolare spontanea” che nel 2013 defenestró il Presidente Janukovyč (eletto democraticamente, si badi bene) e lo sostituí con una classe dirigente artificiale, formata da capi e capetti di tutte le formazioni politiche battute alle elezioni e, naturalmente, filo-USA e filo-Unione Europea; la stessa classe dirigente artificiale che, con l’aiuto dei “consiglieri” americani, governa ancóra oggi l’Ukraina.
Qui mi fermo, chiedendo scusa ai lettori per questa lunga premessa di carattere storico. Premessa senza la quale, tuttavia, é estremamente difficile comprendere le ragioni profonde di ció che sta accadendo in questi giorni. Attenzione, peró: la storia non é certo sufficiente a spiegare tutto, quasi che i destini del mondo siano governati dai “corsi e ricorsi storici” teorizzati dal nostro Vico. La conoscenza dei fatti antecedenti serve a fornire il quadro generale, la cornice degli eventi, soprattutto di eventi complessi come quelli di cui ci stiamo occupando.
Occorre, in parallelo, conoscere e comprendere le dinamiche attuali, le mire strategiche, gli interessi concreti e, soprattutto, gli obiettivi di lungo termine che si vogliono raggiungere. E, nel nostro caso, occorre comprendere o, meglio, tentare di comprendere per quale dannato motivo gli americani hanno voluto mantenere in vita la NATO dopo che questa, a séguito della fine della minaccia comunista verso l’Europa, aveva perduto ogni ragion d’essere. E, per giunta, per quale dannatissimo motivo questa incredibile neo-NATO sia stata indirizzata al contrasto di una Russia che non minacciava piú l’Europa, e non piuttosto alla vigilanza della minaccia concreta che all’Europa viene da sud, da un mondo islamico che non riesce a liberarsi dalla cappa fondamentalista. E, ancóra, per quale arcidannatissimo motivo i governi europei – che avrebbero tutto l’interesse alla maggior collaborazione possibile con la Russia – accettano di fare le mosche cocchiere degli americani, danneggiando sé stessi con delle sanzioni da manicomio e rischiando di avere tagliati i rifornimenti di gas.
E si potrebbe continuare a lungo. Per esempio, perché gli americani fanno l’impossibile per gettare la Russia in braccio alla Cina? O perché fuggono dall’Afghanistan davanti a quattro guerriglieri- straccioni e rischiano la terza guerra mondiale in Ukraina?
Si potrebbe continuare a lungo – dicevo – ma si rimarrebbe spiazzati, perché a tutte quelle domande – e ad altre ancóra – non é possibile dare delle risposte logiche, razionali. A meno che non si voglia immaginare che la politica estera e di difesa degli Stati Uniti sia governata da forze oscure e potentissime, che perseguono interessi privati in contrasto con quelli che sono gli interessi reali, concreti della nazione americana. É quello che il presidente Eisenhower – mica un complottista da tastiera – chiamava “il complesso militar-industriale”, avvertendo che «nell’azione di governo dobbiamo premunirci contro le influenze che, in modo palese o occulto, vengono esercitate dal complesso militar-industriale.» E aggiungeva: «La possibilitá che certi disastrosi poteri travalichino i loro limiti e le loro prerogative esiste adesso, ed esisterà anche in futuro. Non dovremo mai permettere che il peso di questo intreccio di poteri metta in pericolo le nostre libertà e le istituzioni democratiche.»
Queste cose il 34° Presidente degli Stati Uniti d’America le diceva nel lontano 1961; ed allora furono in molti a storcere il naso, perché oggettivamente suscitavano interrogativi inquietanti sul perché e il percome gli USA fossero intervenuti nella prima e nella seconda guerra mondiale.
Rilette adesso, nel 2022, suscitano interrogativi ancor piú inquietanti: a quale punto il complesso militar-industriale americano intende fermarsi? si accontenterá di una guerricciola in Ukraina, o punterá piú in alto, al coinvolgimento della NATO e, con la NATO, dei paesi europei che ne fanno parte?
Della NATO – non dimentichiamolo – facciamo parte anche noi. E certamente non é rassicurante ricordare che l’attuale Presidente del Consiglio, all’atto del suo insediamento, si preoccupó di sottolineare che il suo governo, oltre ad essere “europeista”, sarebbe stato anche “atlantista”. Allora la situazione in Ukraina non era ancóra precipitata, ma negli ambienti “bene informati”, che credo Draghi ben conoscesse, si sapeva benissimo che si viaggiava verso scenari assai pericolosi.
Anche per questo (e naturalmente non solo per questo) spero che Mario Draghi faccia al piú presto le valigie. Mi sentirei molto piú tranquillo se, in questo momento, a capo del nostro governo ci fosse un elemento un po’ meno europeista e, soprattutto, un po’ meno atlantista.
Michele Rallo