Biden-Harris. La strana coppia al potere…
Il ticket Biden-Harris mi preoccupa e non poco.
Joe Biden dopo una lunghissima carriera spesa ad appoggiare ogni tipo di aggressione imperialistica americana è felicemente approdato alla senile età che si sta vivendo con tratti inquietanti. Che abbia con sé una valigetta con la quale poter far scoppiare l’olocausto nucleare è pensiero agghiacciante. Per consolarmi mi ripeto che la storia della valigetta e del “comandante supremo” non sta esattamente come ce la raccontano e che se i generali non vogliono far scoppiare una guerra nucleare il capo della Casa Bianca non può farci nulla.
Kamala Harris è una donna piena di sé che non si capisce a che titolo sia stata scelta come vice presidente, a meno di rivolgersi alla categoria di “token person”, una figura tipica del politicamente corretto.
Come mi spiegò il grande economista statunitense Michael Hudson mentre stavo traducendo la sua autobiografia, un “token” è una sorta di ornamento formale nelle apparizioni pubbliche degli uomini politici negli USA e mi spiegò che “un politico ha sempre dietro si sé un token Nero o Ispanico quando parla”.
La prima funzione della Harris sembra dunque, così d’acchito, essere quella di un tokennon-bianco, un token non-uomo, un token, insomma, della “diversità” condensata.
Il suo non essere né bianca né maschio è sottolineato costantemente, fino al punto, non propriamente esatto ma diffuso, di descriverla come una “black” tout-court, così come Barack Obama era descritto come “afroamericano”, cosa, quest’ultima, del tutto scorretta.
In realtà la madre della Harris era indiana mentre il padre, Donald J. Harris, è un afro-giamaicano. Ma se tutto sommato possiamo ammettere la descrizione della Harris come donna “black”, se non altro perché lei stessa così si definisce in pubblico e così sembra percepirsi, vedremo che l’auto-identificazione razziale non coincide per forza con un’identificazione sociale.
Date le ascendenze materne, possiamo avanzare l’ipotesi che Kamala Harris sarà usata come token anche per perfezionare l’alleanza tra Usa e India, indispensabile per il contenimento anti-cinese, anti-russo e anti-iraniano che caratterizzerà la prossima amministrazione come e ancor più di quella uscente.
Utilizzare Kamala Harris come “token person” è stata indubbiamente una buona mossa da parte dei Dem, e fa presumere che la politica della nuova amministrazione sarà in gran parte giocata proprio sul lato ideologico, per nascondere la probabile recrudescenza delle vecchie aggressioni, la messa in opera di quelle nuove e, soprattutto, l’incapacità-impossibilità-nolontà di affrontare i problemi di massa statunitensi. Secondo i neo-liberal-con, l’1% ricco deve diventare ancora più ricco, perché al di là dell’avidità, dell’ingordigia e della mancanza di sentimenti reali di solidarietà ed equità (di ipocriti ne hanno un campionario intero), è l’unico modo che concepiscono perché non salti per aria la baracca, perché non crolli tutto con un boato assordante.
Di fronte a questa certezza (i signori che governeranno lo sanno perfettamente che gli spazi di manovra sono molto stretti) si continuerà a sostituire i problemi generali strutturali delle masse popolari con specifici problemi sovrastrutturali delle cosiddette “diversità” (qui la differenza tra struttura e sovrastruttura, che io non amo più di tanto, viene a fagiolo). Ciò si vede già adesso col ben servito dato alla sinistra del Partito Democratico (Sanders, Ocasio-Cortez e compagne) e la sostituzione dei suoi esponenti con esponenti “politicamente corretti”: Corretti sì ma tutti molto più a destra. E così sarà un florilegio di tokens e il politicamente corretto, en passant, sarà usato come giustificazione per strette censorie. Non è un caso che senza nemmeno avere uno straccio d’idea del programma reale della coppia Biden-Harris, tutti stanno comunque esaltando il colore molto “rosa” della sua amministrazione, facendo finta di ignorare che farà il paio col colore arcobaleno delle bombe che sgancerà, dell’impoverimento che produrrà e delle diseguaglianze che esacerberà.
E’ persino stato riesumato il token Jennifer Psaki, come segretaria stampa del Presidente.
Jennifer in ruoli simili indubbiamente ha esperienza perché era già stata, per l’appunto, direttore della comunicazione durante il secondo mandato di Obama mentre durante la prima tenure aveva svolto il ruolo di portavoce del Dipartimento di Stato, allora retto dalla Clinton. Ora, lo so benissimo che fare un confronto tra lei e la sua allora omologa russa, Maria Zakharova, è sleale e perfido, e quindi, non preoccupatevi, non mi faccio prendere dalla tentazione e lascio immediatamente perdere, anche se potremmo capire molte cose sulle capacità in campo. Però non posso sorvolare sul fatto che in entrambe le posizioni la Psaki era riuscita a dare sfoggio di una particolare forma di russofobia: l’ignoranza. Riuscì ad esempio ad affermare che era l’Europa occidentale che forniva il gas alla Russia.
In realtà a casa sua Jennifer è – giustamente – semisconosciuta, ma è una celebrità in Russia, tanto che nella patria di Tolstoj e Dostoevskij sono stati coniati in suo onore persino neologismi, come “grande psakino – great Psakiing” che sta per “gran casino”, o “gran confusione dei fatti”.
Elena Panina, membro della Commissione Affari Internazionali della Duma ha commentato il ritorno della Psaki dicendo che “il fatto che gente del genere occupi posizioni governative di alto livello in una superpotenza nucleare è chiaramente allarmante”.
Ma la vera, intima, cifra della nuova portavoce di Joe Biden si desume da ciò che sto per raccontare.
La rivoluzione colorata di Kiev era in pieno svolgimento e l’ambasciatore statunitense in Ucraina, Jeffrey Pyatt, telefona all’Assistente Segretario di Stato, Victoria Nuland, informandola che l’Unione Europea non era molto contenta del casino che stava succedendo. Al che la Nuland, regista in loco del colpo di stato in Ucraina, rispondeva col celebre “and, you know, fuck the EU! – e allora: in culo l’Unione Europea!”. Purtroppo la conversazione, registrata, fu resa pubblica. Gelo nelle cancellerie europee.
Chiamata a dare spiegazioni, la Psaki – non sto scherzando – diede la colpa ai marinai russi che avevano insegnato alla Nuland le parolacce quando a 23 anni aveva passato otto mesi su una nave russa. Ripeto: non sto scherzando.
E questa gente può scatenare guerre mondiali. Sono anch’io terrorizzato.
Detto solo incidentalmente, Victoria Nuland assieme alle altre super donne dell’amministrazione Obama, Samantha Power, ambasciatrice all’ONU, Susan Rice, consigliera per la sicurezza nazionale (anche lei ripescata da Biden come direttore del Consiglio di politica interna), e Hillary Clinton, formavano la quadriglia delle erinni dem: feroci, senza scrupoli e prive di ogni pur labile barlume di pietas. Questo per il colore “rosa”. D’altra parte avevamo già avuto una testimonianza della “sensibilità femminile” al potere con Madeleine Albright, Segretaria di Stato di Bill Clinton. Per lei mezzo milione di bambini iracheni morti per l’embargo erano “un prezzo giusto”: https://audittheempire.com/05-07-19/. Se la “diversità” è un valore, questo documento dimostra che il genere da solo non basta a differenziare una donna da un orco e che il contesto può essere determinante. Era il 1996 e una riprova l’abbiamo avuta quindici anni dopo con un’altra Segretaria di Stato democratica, Hillary Clinton, che rideva con tratti isterici alla notizia che Gheddafi era stato ucciso dopo orrende torture anche sessuali: https://www.youtube.com/watch?v=mlz3-OzcExI.
Tra l’ideologia e la realtà c’è di mezzo il mare, spesso un mare di sofferenze.
Tornando al nostro ticket, l’esperienza in politica estera di Joe Biden è indubbiamente notevole. Ha sostenuto attivamente la guerra in Serbia di Bill Clinton, le guerre in Afghanistan e in Iraq di Bush jr. (anche se poi dichiarò che il suo voto a favore dell’ultima fu un errore – dopo qualche centinaio di migliaia di morti, ma vabbè, un piccolo errore, non rimarchiamolo troppo); poi ha sostenuto la guerra in Libia e quella dei terroristi in Siria, scatenate da Obama. Nelle schifezze degli ucronazisti di Kiev, lui e il figlio, come ben si sa, sono immersi fino al collo. Insomma, un track record di alto livello.
Delle idee in politica estera della Harris invece sappiamo poco. E quel poco è preoccupante. Sull’Iran surclassa persino quel vecchio guerrafondaio del suo capo, che dice di voler ritornare ai trattati sul nucleare mentre la signora ha dichiarato di non escludere un ricorso a bombardamenti preventivi contro le strutture nucleari iraniane. Non solo, eventualmente ordinerebbe bombardamenti preventivi anche su quelle della Corea del Nord (in questo caso anche Biden vuole stracciare gli accordi tra Trump e Kim Jong-hun – sapete,quando ci sono di mezzo i valori …).
Della Harris si conoscono invece molto bene la determinazione e la mancanza di scrupoli nella cura ossessiva della propria carriera.
Purtroppo, mentre le colpe dei padri ricadono sui figli, i meriti rimangono strettamente personali.
Nel caso della Harris forse ha contribuito anche il fatto che quando aveva sette anni i genitori divorziarono e lei rimase con la madre. Ed è un vero peccato, perché Donald Harris è stato un notevole economista progressista influenzato da pensatori che vanno da Marx alla Robinson, da Schumpeter a Keynes e contribuì alla formazione delle Pantere Nere negli anni Sessanta.
La figlia Kamala ha invece incentrato la prima parte della sua carriera attorno alle questioni legali e come l’ha fatto dice molto sulle sue propensioni e sulla sua rettitudine.
Procuratrice distrettuale in California, nel 1994 inizia a frequentare Willie Brown, un potente politico black democratico, per 30 anni deputato all’Assemblea Statale della California, per 15 suo speaker e infine sindaco di San Francisco. Una carriera costellata da accuse di nepotismo e favoritismi (elargiti sia a destra che a sinistra) e conseguenti indagini dell’FBI.
Willie ha 60 anni ed è sposato, Kamala 30 ma, come si sa, la differenza d’età e lo stato di famiglia non sono d’ostacolo all’amore quando è sincero (nemmeno in Italia, come molti casi insegnano). Nasce una relazione che durerà due anni, quel tanto che basta per essere piazzata da Brown in posizioni pubbliche che le frutteranno decine di migliaia di dollari all’anno, on top al suo stipendio da procuratore, e accuse molto pesanti [1]. Il ricco entourage frequentato da Brown aiuterà in solido negli anni seguenti la carriera della di lui diletta.
Sarà come sarà, ma durante i primi tre anni di ufficio come procuratore distrettuale a San Francisco, il tasso di incarcerazione spiccherà un vero balzo [2]. Tuttavia nel 2004 entra in contrasto con la polizia perché si rifiuta di chiedere la pena di morte per l’assassino di un poliziotto. Ma una volta diventata procuratrice generale cambia idea e si rifiuterà di sostenere due petizioni popolari per l’abolizione della pena di morte, sollevando accuse di incoerenza e opportunismo. Ha capito che il capestro paga mentre l’opposizione alla pena di morte è un ostacolo alla scalata dei piani alti.
Per sovrammercato nel 2014 e nel 2015 la Harris si rifiuta di indagare sull’uccisione da parte della polizia di due neri e, non contenta, si oppone anche a un disegno di legge per nominare un ufficio d’indagine specializzato sull’uso da parte della polizia di violenza letale.
Sulla sanità ha espresso opinioni molto ondivaghe. O meglio, ha detto tutto e il contrario di tutto: la voglio pubblica e la voglio privata. Così, tanto per non scontentare nessuno, né i poveracci né le assicurazioni.
Questo è il profilo del token del ticket.
Comunque sia, devo chiarire un punto importante. Che Kamala Harris sia stata “offerta” ai votanti come vice-presidente per questioni simboliche politically correct è un dato di fatto. Che la Harris accetti semplicemente un ruolo di token, di bella statuina, io personalmente lo metto in dubbio. Molto dipende dal suo carattere e dalle sue capacità politiche. E anche dalla sua spregiudicatezza, che come abbiamo visto è notevole. D’altra parte proprio in India, la terra d’origine della madre, c’è stato l’esempio di Indira Gandhi. Scelta dai potenti boss del Congress Party come presidente perché figlia dell’appena defunto leader carismatico Jawaharlal Nehru e perché ritenuta innocua, cioè un perfetto token, in pochissimo tempo sbaragliò i suoi nemici interni al Congress e l’opposizione sociale e di sinistra, anche con mezzi pesantemente coercitivi (stato d’emergenza, migliaia di arresti, diecimila morti nella repressione del movimento naxalita) e per anni governò sostanzialmente come un’autocrate nella cosiddetta “più grande democrazia del mondo”.
Kamala Harris sarà l’Indira Gandhi statunitense? Chissà! Una volta sarebbe stata un’ipotesi ridicola, viste le grandi diversità culturali, istituzionali e politiche tra i due Paesi. Ma oggi gli USA stanno attraversando forse la più grande crisi politica della loro storia dopo la Guerra di Secessione. I brogli elettorali dei Dem (che ci sono stati, eccome) per strappare in uno Stato o l’altro risicate maggioranze, la reazione irrituale di Trump (i brogli – o i voti comprati, anche alla mafia – ci sono sempre stati, ma il perdente comunque abbozzava per carità di patria), le camarille all’interno della Corte Suprema, delle corti statali e dei due partiti, descrivono un secondo grave colpo alle istituzioni americane dopo quello inferto dall’assassinio Kennedy. E la nazione è spaccata nettamente in due.
L’attentato di Dallas del 1963 segnò l’avvio deciso della moderna politica imperialista statunitense sull’onda lunga della vittoria nella II Guerra Mondiale. Questo secondo “attentato istituzionale” avviene invece sul declinare delle capacità egemoniche e imperiali degli USA a ben 75 anni da quella vittoria. Se dipendesse solo dalla nuova amministrazione ci sarebbe poco da farsi illusioni: assisteremmo all’inizio di un secondo round di aggressioni di ogni tipo per mantenere con le unghie e coi denti l’egemonia globale. Ma le condizioni internazionali sono drasticamente cambiate. Non solo, negli anni Sessanta l’economia USA era in fase montante e non aveva rivali. Quindi poteva assorbire le spinte sociali e di emancipazione razziale e presentarsi come locomotiva economica internazionale. Oggi non è più così. Oltre all’esibizione degli ethnic tokens e dei gender tokens e all’accelerazione sul pedale coercitivo della rimanente egemonia sarà difficile andare. Donald Trump ha cercato in modo confuso (e diversamente non poteva essere, per fattori oggettivi oltre che per i gravissimi limiti soggettivi del presidente uscente) di ritornare agli anni Sessanta. Non poteva riuscirci. Perché non poteva portare il secondo decennio del Duemila indietro al sesto decennio del Novecento. I suoi successori cercheranno invece di trascinare il sesto decennio del Novecento qui nel terzo decennio del Duemila. E anche questo sarà impossibile. E saranno disastri se verrà meno un’opera di prevenzione e di dissuasione da parte delle altre potenze e se all’interno degli USA non verrà suscitato un vero e ampio movimento di opposizione sociale che non guardi al passato indicato da Mr. MAGA, ma al futuro.
E non saranno disastri token.
Piotr – https://www.sinistrainrete.info/politica/19511-piotr-il-token-del-ticket.html
Note
[1] https://www.latimes.com/archives/la-xpm-1994-11-29-mn-2787-story.html
[2] https://www.nytimes.com/2019/07/31/us/politics/kamala-harris-prisoners-tulsi-gabbard.html
Commento-integrazione di F.G.: “Assieme a Biden di vincitori ce ne sono a josa, troppi da elencare, è la moltitudine della cosca dei “diritti umani” che serve a obliterare i diritti umani che non le garantiscano maggiore ricchezza e controllo. Ci sono quelli stufi dei traccheggiamenti di Trump sugli annientamenti di altri Stati, sul mancato attacco a Iran, Nordcorea, Venezuela, Cuba e stufi di un Trump che si fa rovinare i golpe, come in Bolivia, Algeria, Egitto, Bielorussia. Geoge Soros ora è gongolante al punto da infittire il reticolo di rughe del vizio, con i suoi tentacoli ONG. Con lui ci sono i governi paralleli, i Deep State della metropoli e delle marche imperiali, che possono uscire allo scoperto e giocare in prima persona…”