Democrazia in pericolo!? Come al solito “ha stato Putin”…

L’Occidente – si sa – è alla continua ricerca di un dittatore da combattere e possibilmente da abbattere, magari ricorrendo alle compiacenti campagne internettiste orchestrate dalla CIA. Lo hanno ammesso ufficialmente, non piú tardi di 15 giorni fa, in una seduta della Commissione Esteri del Senato americano, dibattendo del ruolo della US Agency for Global Media nelle proteste “pro democrazia” ad Hong Kong.

Dopo avere distrutto intere nazioni con la scusa (ma era soltanto una scusa) di abbattere i “feroci dittatori” locali, in questi ultimi tempi la fertile inventiva di americani e – soprattutto – europei è tornata a privilegiare il fronte russo. L’obiettivo-principe è sempre quello sbadatone di Putin, che eliminerebbe i suoi avversari con veleni di chiara provenienza russa, “firmando” cosí i delitti a beneficio della CNN o dei servizi segreti tedeschi.

Non si disdegnano neanche gli alleati di Putin, come il bielorusso Lukašėnko, accusato di aver truccato le elezioni che lo hanno visto vincente per l’ennesima volta. Cosa possibilissima (avviene regolarmente in tutti i paesi non democratici che vogliono darsi una patina di democrazia), ma tutta da dimostrare. In fondo, a sostenerlo sono quelli che hanno perso le elezioni.

Certo, si tratta di un gioco pericoloso: pretendere che tutti i paesi del mondo adottino il sistema democratico è giá una utopía irraggiungibile. Pensare, poi, di imporre la “conversione” a suon di bombe – o di embarghi o di sanzioni economiche – è pura follía. Ma, in fondo, entrambe queste virtú pseudodemocratiche – l’utopía e la follía – non sono che il paravento di una terza virtú, piú democratica di tutte le altre: l’ipocrisia.

È l’ipocrisia, infatti, a stabilire che il tale regime sia da isolare perché antidemocratico e dittatoriale, e che il talaltro (che magari preveda la pena di morte per le mogli infedeli o per gli omosessuali) possa invece essere ammesso nel libero consesso dei paesi civili e democratici.

Ed è sempre l’ipocrisia a decidere che sia antidemocratica la procedura elettorale in Bielorussia, dove l’opposizione ha potuto comunque partecipare liberamente alla campagna elettorale e alle operazioni di voto, ancorché poi contestate; e che, viceversa, le regole democratiche siano pienamente rispettate – poniamo – in Turchia, dove tutti gli oppositori, ma proprio tutti (politici, militari, magistrati, giornalisti, docenti, impiegati statali, eccetera) sono stati di fatto cancellati dalla vita civile durante uno “stato d’emergenza” durato due anni interi.

Né si creda che dopo la fine dello stato d’emergenza (luglio 2018) la situazione si sia normalizzata. «È continuata per tutto l’anno – cito dall’ultimo rapporto di Amnesty International – la repressione contro ogni dissenso, reale o percepito, nonostante la fine dello stato d’emergenza durato due anni. Migliaia di persone sono rimaste in custodia cautelare per periodi dalla durata punitiva, spesso in assenza di prove sostanziali che avessero commesso un qualche reato riconosciuto dal diritto internazionale. I diritti alla libertà d’espressione e riunione pacifica sono stati fortemente limitati e le persone considerate critiche nei confronti dell’attuale governo, in particolare giornalisti, attivisti politici e difensori dei diritti umani, sono state detenute o hanno dovuto affrontare accuse penali inventate. Le autorità hanno continuato a vietare arbitrariamente le manifestazioni e a fare ricorso all’uso eccessivo e non necessario della forza per disperdere dimostranti pacifici. Sono emerse ancora denunce credibili di tortura e sparizione forzata.» E – rincara la dose una denuncia di Reporter senza Frontiere – oggi la Turchia è «la prima prigione al mondo per giornalisti».

Eppure – apprendiamo dai nostri telegiornali – la cancelliera Merkel ha chiesto con petulante arroganza “spiegazioni” alla Russia per lo stranissimo avvelenamento dell’oppositore Alexei Navalny. Eppure – anche questo lo apprendiamo dai nostri media – l’Unione Europea d’obbedienza berlinese ha varato sanzioni contro la Bielorussia, dichiarando che “non riconosce” i risultati delle ultime elezioni.

Sulla Turchia, invece, silenzio di tomba. Lí la democrazia non corre pericoli. Lí il presidente islamista (ma “moderato”) Recep Erdoğan non è da considerarsi un dittatore. Addirittura, è ancóra in piedi – spero solo formalmente – il “processo di adesione” della Turchia all’Unione Europea, senza che alcuno fra gli zelanti sanzionisti antirussi si sogni, almeno, di chiudere formalmente quel ridicolo processo che mira a portare in Europa un paese asiatico.

Erdoğan ringrazia commosso, e contraccambia le gentilezze europee invadendo le acque territoriali di due membri dell’UE – la Grecia e Cipro – nel tentativo di appropriarsi delle risorse petrolifere di quei paesi. Ma questo è ancora niente, perché il presidente turco sta spedendo truppe e “consiglieri” in tutti gli angoli del fu Impero Ottomano: dalla Siria alla Libia (con grande pericolo per l’Italia), dal Mediterraneo orientale al mar Rosso, e da ultimo al Caucaso, con rischi elevatissimi di far divampare un conflitto devastante fra Armenia e Azerbaijan.

Ma lasciamo stare, per il momento, il pericolo oggettivo che l’aggressiva politica estera del “moderato” Erdoğan potrebbe rappresentare per la pace in un’ampia fetta del mondo. Ne parleremo in una prossima occasione. Quello che voglio sottolineare, adesso, è l’ipocrisia dell’atteggiamento occidentale, europeo in particolare, nei confronti del regime turco. Colpa, in primissimo luogo, della Germania di madame Merkel, compiacente sponda – secondo un vecchio copione – dei sogni di potenza ottomani.

Per i “valori dell’Europa”, evidentemente, la democrazia è un concetto molto elastico. Ma – attenzione – anche l’elastico piú robusto ha un suo punto critico, superato il quale si rompe. E, quando l’elastico si rompe, torna indietro con violenza, e puó far male, molto male.

Michele Rallo – ralmiche@gmail.com

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