Coronavirus e globalizzazione economica – Contagio e contanti…

Cosa c’entra il Coronavirus di cui tanto si parla con la globalizzazione economica? C’entra, eccome. Non direttamente – é logico – ma nelle sue implicazioni immediate, nelle sue premesse e, soprattutto, nelle sue conseguenze. Procediamo con ordine. Innanzitutto, cosa é il Coronavirus? É una famiglia di virus (non un singolo virus) che gli scienziati chiamano “a RNA”; virus che colpiscono gli esseri umani e gli animali in forme diverse, dalle piú benigne (come un semplice raffreddore) alle piú pericolose (come la SARS di alcuni anni fa).

Quello che imperversa in questi giorni, dunque, non é “il” Coronavirus, ma “un” Coronavirus: per l’esattezza, quello che il mondo scientifico ha denominato Coronavirus 2019-nCoV, e che nella terminologia giornalistica é indicato piú semplicemente come Coronavirus di Wuhan.
Ecco spuntare il nome di Wuhan, per l’appunto. Wuhan é una delle dieci cittá cinesi piú importanti: sia per dimensione e numero di abitanti, sia per il ruolo di assoluta rilevanza che riveste nell’economia nazionale. Sede di numerose industrie, ospita anche un mega-laboratorio di ricerche sulle malattie infettive, che taluno ha accusato di essere il paravento per ricerche piú o meno contigue alla guerra chimico-batteriologica. Secondo altri, piú benevoli, il laboratorio di “sicurezza biologica” (biosafety) era dedito alla messa a punto di virus non letali, per potere poi predisporre i relativi vaccini. Non manca, infine, chi azzarda l’ipotesi che qualche agente patogeno possa essere sfuggito accidentalmente dai laboratori “di sicurezza”, dando cosí origine all’epidemia.

Naturalmente, si tratta di semplici illazioni. É tuttavia strano che, in un paese che conta piú o meno un miliardo e mezzo di abitanti, questo benedetto virus sia andato a nascere proprio nella cittá che é sede di quel grande e – dicono – segretissimo laboratorio.

Altro fatto non proprio lineare: il governo cinese avrebbe ricevuto il primo allarme-virus giá l’8 dicembre scorso, ma avrebbe informato l’Organizzazione Mondiale della Sanitá solo il 31 dicembre. Se ne deduce che, in questo ampio lasso di tempo, Pechino abbia tentato con tutti i mezzi di circoscrivere l’epidemia e di mettere a punto un antidoto, mantenendo segreto l’evento per evitare i prevedibili effetti negativi sulla propria economia. Il fatto che le autoritá cinesi non siano riuscite nel loro intento nell’arco di ben tre settimane, fa sorgere qualche ulteriore interrogativo circa le connotazioni di questo Coronavirus: resistenza, velocitá di propagazione, tasso di contagio, tasso di mortalitá, eccetera. Sembra, peraltro, che i cinesi si preparino al peggio, come lasciano intendere due fatti specifici: primo, la costruzione, a tempo di record, di un enorme ospedale in zona; secondo, il blocco ermetico dell’esercito alla cittá, impedendo a chicchessia di entrarvi o di uscirne. Finora i cinesi non sono riusciti neanche a isolare il codice genetico del virus incriminato (almeno cosí sembra), e senza codice genetico non si possono produrre antidoti né vaccini.

Fortunatamente – lo dico per inciso – ci siamo riusciti noi italiani. Agli infettivologi del nostro Istituto Spallanzani é bastato avere in cura per quarantott’ore due turisti cinesi contagiati, per isolare il virus. Inutile negarlo – inciso nell’inciso – noi italiani siamo sempre i migliori, in tutti i campi, malgrado i nostri cari alleati facciano di tutto per affogarci nella palude di una Unione Europea senz’anima.

Chiusa la parentesi, e chiusa anche l’elencazione dei punti oscuri della vicenda, vengo all’aspetto politico: anche il pericolo di una veloce propagazione del Coronavirus al mondo intero é uno dei frutti avvelenati della globalizzazione economica e delle sue inevitabili conseguenze. Globalizzazione, infatti, non significa soltanto economia e finanza. Significa anche libera circolazione degli uomini (immigrazione) e delle merci. E questa circolazione – resa frenetica – ha come conseguenza inevitabile la diffusione rapidissima in tutto il mondo anche di malanni e di altri fenomeni negativi, con conseguente esportazione di vari accidenti nel campo agroalimentare (dalla cimice asiatica al punteruolo delle palme, alla xylella delle olive), con la migrazione di specie animali aggressive che attaccano le specie indigene e cancellano la biodiversitá (le api africane, per esempio), o anche con la propagazione di malattie infettive.

Eppure, specialmente all’interno di questa incredibile Unione Europea, é tutto un peana al cosmopolitismo d’accatto, un agitarsi di intellettuali che si dichiarano “cittadini del mondo”, una goduria di statisti (o presunti tali) che invocano l’abbattimento dei muri e la costruzione di ponti per consentire a un miliardo e mezzo di africani di soverchiare mezzo miliardo di europei. In nome della modernitá, dell’apertura, dell’essere al passo coi tempi. E, naturalmente, dell’antirazzismo. Che non c’entra un tubo, ma che tanto “fa fino”.

In altri tempi, questo Coronavirus sarebbe rimasto un affare interno della Cina, che questa avrebbe affrontato e poi risolto senza mettere in pericolo la salute degli abitanti del mondo intero; o, tutt’al piú, sarebbe tracimato lentamente, dando tempo alle strutture sanitarie degli altri paesi di premunirsi adeguatamente. Oggi non é cosí. Virus e batteri hanno diritto di spostarsi gagliardamente in tutte le contrade del globo.

Anche questo Coronavirus, quindi, fa parte a buon diritto del “paniere” della globalizzazione economica e della mondializzazione politica. Un paniere ove si trova di tutto: non soltanto le api africane e le cimici asiatiche, ma anche la mafia nigeriana e il terrorismo islamico, la schiavizzazione delle ragazze costrette a prostituirsi a suon di botte, gli scafisti e i trafficanti di tutte le risme.

Tutte queste cose (e tante altre ancóra) non sono che gli “effetti collaterali” di quella colossale rapina universale che va sotto il nome di “globalizzazione”: economica, finanziaria, politica, sociale, culturale.

Ufficialmente, ci viene proposta come un baratto. Loro – i poteri forti – ottengono la “libertá dei commerci” e possono arricchirsi all’inverosimile. E noi – i popoli di tutte le nazioni – possiamo giocare a fare i “cittadini del mondo”, passando un finesettimana a Parigi o mandando i nostri figli a studiare a Berlino.

Poi, peró, passata l’ubriacatura di un cosmopolitismo farlocco, ci rendiamo conto che quelli lá hanno distrutto la nostra economia, e che a noi non resta che sperare di sopravvivere alla Fornero. Quanto ai nostri figli, dopo un paio di brillanti lauree ed una prestigiosa partecipazione all’Erasmus, hanno tutt’al piú un futuro da lavapiatti a Londra, Brexit permettendo. A patto, naturalmente, di farla franca da Coronavirus, Ebola, Aviaria, Mucca Pazza e pandemie varie.

Intanto, per rimanere nel tema della globalizzazione (e non del Coronavirus), Romano Prodi, alias Mister Privatizzazioni, ha appena rilasciato una dichiarazione grondante soddisfazione e compiacimento: «Prendiamo il costo del lavoro. Attualmente quello italiano è grandemente inferiore rispetto a quello tedesco e francese. E possiamo dire che è meno lontano da quello cinese: un tempo il nostro era 40 volte il costo orario del lavoro di Pechino, ora 2,5 o 3 volte. Non siamo a costo pari, ma ci stiamo avvicinando e bisogna preparare il futuro.»

Bello, no? L’obiettivo della globalizzazione é di ridurre le nostre retribuzioni e i nostri standard di vita ai livelli cinesi. In attesa di raggiungere questo ambíto traguardo («ci stiamo avvicinando» secondo il vaticinio prodiano), perché non cominciare a prendere familiaritá con l’ambiente, magari con un assaggio di Coronavirus?

Michele Rallo – ralmiche@gmail.com

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