“Forze oceaniche” ovvero: se la guerra diventa un “cult” – Saggio di Lorenzo Merlo
L’esigenza della guerra, dell’impiego della forza in quanto dote disponibile è insopprimibile? L’impiego della ragione è in grado di assorbire quegli istinti fino a renderli superflui? Succedanei vari come lo sport e la guerra simulata possono bastare per scaricare l’energia che genera il desiderio della lotta? Rinunciare, mortificare, castrare l’espressione della forza è un bene o un male? I suoi risvolti negativi relativi all’equilibrio sono altrettanto importanti? Solo l’opulenza e il timore crescente di morte, cioè l’individualismo sfrenato possono salvarci dalla guerra? E il numero crescente di psicopatologie e suicidi che significa?
Sono stato a visitare Militalia, una fiera alla porta est di Milano, una delle oltre trenta organizzate ogni anno dal Parco Esposizioni di Novegro. Due padiglioni grandi come tre campi da tennis, uno quasi un campo da calcio, esterni abbondanti di verde e vialetti a cui si aggiunge un’arena, con tanto di spalti, in questa occasione destinata alle parate di associazioni militari di varie armi e di carri armati d’epoca.
Popolo affascinato
Militalia è tutto l’accessibile del mondo militare. I visitatori, soprattutto maschi, rappresentano uno spettro piuttosto ampio, forse completo di tutte le specie di interessati. Direi un campione attendibile di tutti noi. Gli stand sono serrati e compongono corridoi nei quali la folla copiosa sciama da uno al successivo. Vi si incontrano figuranti vestiti in divise d’epoca dell’esercito austriaco, di quello della Wehrmacht, delle Camicie nere o dei Normanni, con tanto di pelliccia, torso nudo e scudo circolare. Transitavano come me, come tutti gli altri, senza nessuno che li notasse più di tanto. La loro soddisfazione non si negava dal mostrarsi se qualcuno chiedeva di fotografarli. Mi chiesi se fossero cosplayer o comparse di colore messe in campo dall’organizzazione. Girando l’angolo di un espositore di Maschinengewehr 42, più noti come MG42, i mitra tedeschi della Seconda guerra, mi trovai alle spalle di un giubbotto con un grande cerchio rosso nel quale campeggiava un Lucy 666, evocazione dei poteri possibili che non sfruttiamo.
La folla si fece stretta spingendosi contro i banchi e le vetrine degli espositori, per lasciar passare la corsa della fanfara dei Bersaglieri. Quel plotone di attempati in Grande uniforme e moretto con le piume di cappone svolazzante, aveva suonato bene e aveva entusiasmato a sentire gli applausi condivisi da tutti, tra cui un cappellano e una crocerossina in uniforme d’epoca. Stand di case editrici e librerie, interrompevano non di rado le strisce di banchi dedicati a divise, antiche strumentazioni balistiche e radiotecniche, reperti di trincea tra cui latte di fu cibo conservato traforato dalle mandibole della ruggine, o mostrine della Prima guerra. Dai titoli disponibili leggevo argomenti praticamente senza confini dello scibile militare o a quella dimensione umana legato. Libri d’epoca e introvabili, ristampe anastatiche, nuove edizioni dalla grafica uniforme, titoli di grandi editori, storie uniche di mercenari, legionari, squadristi, partigiani, memorialistica, resoconti di battaglie accadute e celebrate ma per me sconosciute. Comprai un libro del 1946 editato dal Ministero della Guerra, dedicato alla battaglia dell’Armir sul Don, quella della ritirata di Russia e uno sulla battaglia di Stalingrado secondo la prospettiva sovietica.
Nel riprendere la gita fieristica dovetti subito fermarmi, il corridoio era intasato. Un vero legionario col tanto di képi, nappine e medaglie sorrideva sotto l’obiettivo di uno dei tanti visitatori che gli aveva chiesto un selfie insieme. Avrebbero dovuto vederlo tutti. Di marziale aveva un’impeccabile uniforme ma negli occhi era uno qualunque.
Un banco senza ridondanze mostrava libri dalla copertina sobria, senza immagini. Vi leggevo studi e ricerche, storie e prospettive intellettuali a sostegno delle più radicali posizioni politiche. Mi chiesi se quelle interpretazioni della realtà avrebbero mai potuto essere opportunamente studiate da ricercatori senza dogmi ideologici. Se la verità sta nel mezzo, se così sopra come sotto, uno scambio tra le parti avrebbe prodotto saggezza, così come uno scontro produce arroccamenti. Vidi un biglietto da visita passare da una mano macchiata di anzianità al ragazzo al di là del banco. Feci in tempo a leggere storico. Andandomene, sentii che stava cercando qualcosa di specifico sulle presunte origini della razza ariana nelle lontane terre dell’Afghanistan. Mi domandai nuovamente quanta superficialità servisse per criminalizzare quel popolo.
Un bambino con un tecnologico elmo da softair mi tagliò la strada per raggiungere la famiglia ferma al banco di fronte dove una riproduzione del Profilo continuo di Mussolini campeggiava al centro di una vetrinetta illuminata.
Girovagai ancora tra armi, coltelli, equipaggiamenti, dotazioni, manuali, mostrine, medaglie, orologi dei sommergibili sovietici. Sì, c’erano espositori dall’estero e visitatori da molta Italia, almeno a giudicare dalle cadenze delle parlate che senza origliare volteggiavano nell’aria.
Collezionisti e studiosi, curiosi di tutto e appassionati di soli soldatini di piombo si mescolavano sotto le bandiere regie, tra tenute da combattimento e da elicotteristi, tra spazi dedicati a simulazioni di combattimenti all’arma bianca e reparti di guerrieri per gioco. C’era anche un grosso fregio del Club Alpino Italiano con il fascio sotto l’aquila, cartuccere e giubbotti antiproiettile, teste moicane e bicipiti esuberanti mischiati a distinti signori, articoli per il camouflage e angoli per il softair-tiro, spille con i teschi e anelli con la svastica e la croce di ferro, quadri con documenti e ritratti d’epoca, bombe disinnescate e scatole di proiettili vuoti dove dita competenti cercavano bossoli di un certo calibro, per una certa arma, berretti della Wehrmacht, stampe di battaglie, dipinti di generali e gagliardetti di balilla. Un antiquario guardava con un lentino autoilluminato il fregio verniciato di un casco SS.
All’esterno, intorno ai carri, parcheggiati dopo l’esibizione, molti fotografavano e si facevano fotografare. Famiglie intere. Nel dentro e fuori dai padiglioni transitavano abiti civili e divise militari perfettamente riprodotte fino agli scarponi e alle giberne. Alcune di queste, in gruppi di più persone, rispondevano fiere a un mio cenno di saluto con la mano al cappello.
Neo-velinisti
Parlai con diversi espositori. Qualcuno lamentava che il cambio generazionale trasformava i collezionisti in una specie in via di estinzione. Tutti condividevano l’impressione di un afflusso aumentato di visitatori rispetto le edizioni precedenti, ma con meno soldi in tasca.
Sempre più persone a visitare una fiera militare? Pareva un dato interessante che, temevo, qualche giornalista di superficie avrebbe interpretato con il luogo comune di un preoccupante ritorno di paurose ideologie. Ben fatto se in termini di cronaca perché, ormai da qualche anno, l’alone di quell’eventualità aleggia nei pensieri di molti. Ma malfatto se intriso di moralismo, sensazionalismo, opportunismo e appiattimento sull’deologica monopolistica cultura che ha da tempo tradito se stessa per vendersi al liberismo, per genuflettersi ai nuovi padroni del suo pensiero. Più che colletti bianchi, invisibili, la cui guerra non insanguina ma altrettanto spegne. Critica troppo severa? Non lo so. Se sollecitati, quegli stessi neo-velinisti darebbero contro anche agli spettatori della Cavalcata delle Valchirie. E purtroppo le interpretazioni senza spessore, piallate secondo formule e conclusioni che neppure di un millimetro si staccano dalla narrazione best sellers di questi tempi, del dagli al fascista, sono sempre più numerose rispetto all’asciutta cronaca che ognuno potrebbe interpretare secondo coscienza.
Storia unica verità
Se la storia ha mostrato che tutti i sentimenti degli uomini recitano sul suo palcoscenico e se i sentimenti sono limitati, e se le cose si muovono, ciò che la grande ruota ci ha fatto vedere, sempre ritornerà. Almeno fintantoché non saremo in grado di evolvere emancipandoci da affermazioni egoiche, quale il senso di importanza personale nel quale arbitrariamente ci identifichiamo, per il quale arriviamo alle peggio azioni. Premesse indispensabili ad erigere il muro della dualità, quindi dello scontro, della storia che fa paura.
Da parte mia, pensavo che quel popolo così numeroso e vario di Militalia fosse stato portato là dalle onde lunghe che siamo naturalmente tenuti a rispettare, che senza mostrarsi ci muovono, nonostante siano frequentemente occultate da quelle emotive e frenetiche, di superficie, di moda. Onde che ancor prima della storia, riguardano l’ontogenesi dello spirito degli uomini. Come questi non possono fuggirle, così la storia non può che esserne rappresentazione. Una di queste riguarda il richiamo della lotta.
Fiori sacri
Considerazioni piuttosto spesse che la post-modernità, abbracciata al suo mito del progresso senza fine, ci dà l’opportunità di ridicolizzare.
Facciamo un esempio. Se per un momento ne prendiamo un suo esponente, l’opulenza, il culto del consumo e l’homo oeconomicus e consumans che ne deriva, si può forse sostenere come questa tumorale conseguenza positivistica offra un lato utile a smorzare o annullare il problema del ritorno alle armi. Se la metastasica diffusione di quel genere di cultura e filosofia, alla quale tutti ci siamo abbeverati, è per alcuni ragion sufficiente per sperare nel suo crollo, l’uomo di oggi ignaro del raggiro è governato dalla paura di perdere l’accumulato. In quell’accumulo riconosce il proprio valore. In quel valore c’è il suo senso della vita. Perché mai mettersi in gioco e rischiare di perdere tutto?
È un uomo individualista. Non gode di alcuna forza comunitaria, non difende il suo suolo e neppure la sua cultura. Si considera baciato dal progresso perché ritiene che la tecnologia gli elargisca vita più lunga e meno rughe. Perché non si avvede di quanto invece i giocattoli che usa, lo usino. Non si fa domande sul futuro se non relative a come proteggere sé e i suoi averi. Il timore di perdere tutto è osmotico alla paura della morte, che considera fine della vita.
Ius individui
Dunque apparentemente messi in salvo – per modo di dire – da una malattia degenerativa? Più no che sì. Quelli della pace perpetua non possono spuntarla entro un mondo duale dove gli opposti si danno vita reciproca. Non si può scappare da una volta per uno. Non solo. Se il timore di perdere il frutto di una vita disincentiva dal mettersi radicalmente in gioco, dobbiamo essere consapevoli di avviarci alla morte lenta, seppur piena di apprezzabili spettacoli e passatempi succedanei di una vita autenticamente, creativamente giocosa. Sola via di per la serenità in vita e in punto di morte.
Siamo quindi in una condizione psicologica che impedisce alla vita la sua massima potenza, libertà, bellezza e coraggio. Fiori sacri necessari alla realizzazione di sé, che l’uomo telecomandato ha preferito sostituire con benefit e carriera. Senza avvedersi che la profanazione di oggi porta dritto tra gli aromi dei profumi di guerra di domani.
Da homo oeconomicus e consumans dobbiamo aggiungere serialibus o acephalus con tanto di certificazioni di qualità e idoneità, come le merci e i servizi. Come del resto già avviene è con la formazione industriale delle nostre scuole e con la conseguente uniformizzazione del pensiero.
Un contesto di guerra tra morti viventi, in cui per sopravvivere non solo ci si sentirà in diritto di sopraffare legalmente il prossimo, come già è, ma di vantarne diritti riconosciuti sotto la voce di una specie di ius individui con tanto di giurisprudenza a favore.
Forze oceaniche
Quando la pace è vissuta come un’abitudine definitiva e scontata – quando si è scordato quanto sia costata – forse le mani iniziano a prudere. Un’espressione fisica che allude concepire pensieri bellicosi. Ma possono iniziare a prudere anche quando il vivere diviene oppressivo e fastidioso. L’idea della guerra viene in soccorso alla speranza di cambiare, esattamente come l’idea del suicidio pare la sola soluzione al sofferente.
Passare dal punto A al punto B, dall’inerzia al prurito è un endogeno movimento segreto a noi stessi che pochi razionalizzano. E che molti inconsapevolmente trasmutano. Non guerra con sangue, urla e dolore ma succedanei simbolicamente corrispondenti. La fiumana di Militalia era lì a dircelo, scorrendo serena in corridoi di quella parte di storia che deriva dalla guerra.
A noi la scelta
Dunque a Militalia ho assistito a un momento preoccupante?
No. L’opulenza e il penetrato e fiorente consumismo, ben agitato da un individualismo sfrenato, come una scogliera di pietra pomice, assorbono le presunte onde ineludibili dell’esigenza di guerra. I colletti invisibili, come gli ufficiali col bromuro nelle gavette dei soldati, hanno mescolato ai nostri giorni trappole di sedativi sociali annullando così le spinte sconvenienti al governo degli uomini. Ovvero le loro doti creative che, se facessero il loro corso dentro gli individui, realizzerebbero uomini compiuti, la miglior garanzia per non subire il fascino della sopraffazione sul prossimo.
Sì. L’esigenza di guerra, affermata da sempre dall’antropologia e da altre discipline, si riaccende quando altre modalità di convivialità mostrano difetti inizialmente accettati o in ombra. La guerra allora, come il gioco per i cuccioli, torna a divenire un’esigenza dei grandi. Forse per questo il flusso di persone varie, scorreva, ancor prima che tra i corridoi della fiera, dentro il retorico fascino della battaglia.
Quelle onde potenti mai circonstanziali ma costitutive, come la frustrazione e la mortificazione, non sono comprimibili in alcun modo se non solo temporaneamente. In questo caso la domanda è, fino a quando?
È la storia che la pone.
Lorenzo Merlo