La matrice culturale originaria indoeuropea e la separazione tra spirito e materia nelle religioni di origine giudaica (ebraismo, cristianesimo ed islam)
Tra le differenze d’impostazione e di espressione che contraddistinguono le religioni orientali e quelle di matrice giudaico-cristiana, va considerata l’aderenza alla vita e la non differenziazione tra spirito e materia, che prevale presso gli asiatici, mentre in Europa ed in Medio Oriente prevale la condanna dei piaceri mondani e la separazione tra spirito e materia.
La causa di questo scollamento dal quotidiano nella cultura occidentale è una conseguenza della conversione ai dettami biblici (e sue elaborazioni in termini cristiani e maomettani) che ha provocato la progressiva corruzione e cancellazione della originaria visione naturalistica indoeuropea. Questa sostituzione di valori si riflette anche in tutte le forme artistiche e culturali, in particolare nell’assoluta iconoclastia musulmana ma anche nelle fissazioni moralistiche cristiane, sia protestanti che cattoliche od ortodosse, che tendono a descrivere il male della vita e della sessualità, imputando alla “mondanità” la ragione della sofferenza – a partire ovviamente dal cosiddetto peccato originale- e proponendo come soluzione la mortificazione della carne, l’ascetismo e la rinuncia (al fine di potersi guadagnare la gioia in un aldilà).
Nelle manifestazioni rappresentative di tale “mortificazione” vi sono anche le auto-fustigazioni in pubblico, la scalata di santuari a ginocchioni, l’automutilazione, le sceneggiate infernali, le vie crucis, le torture e gli olocausti inflitti nelle piazze agli eretici, alle donne, etc.
Insomma lo spettacolo religioso in occidente può essere definito un “teatro dell’orrore”, a sfondo sadomaso. Ma non è mia intenzione continuare a descrivere l’alienazione che pervade l’Europa dopo l’adozione di certe “religioni” aliene. Posso solo rimpiangere l’antico spirito bacchico e dionisiaco scacciato (per sempre?) dal nostro DNA.
Per fortuna la rappresentazione religiosa in Oriente ha mantenuto -malgrado le perfide influenze esportate in India ed in Cina da missionari vittoriani e cattocristiani- la sua caratteristica originaria di glorificazione e celebrazione dell’esistenza. Il teatro, la danza, le processioni, l’arte in generale, tutto trabocca di sensualità e di gioia di vivere.
Sulle scene indiane vengono rappresentati gli amori di Krishna, le adivasi danzano lasciviamente nei templi, i cortei sono un’orgia di colori, suoni e godimento. Persino i funerali vengono celebrati con grande ricchezza e dispendio di musiche e di lauti pranzi.
Tra l’altro parlare di teatro “religioso” indiano in un certo senso è improprio. Poiché in esso non si espongono norme, precetti od episodi metafisici astratti. Si mettono in scena episodi delle epiche classiche, il Ramayana ed il Mahabarata ad esempio, che potrebbero corrispondere alle storie mitologiche dell’Iliade e dell’Odissea. Storie di re, di amori, di guerre, insomma di vita vissuta. Certo queste rappresentazioni offrono anche una “morale” ma è sempre una morale mondana, non religiosa come noi intendiamo la religione. Tant’è che in India non esiste una traduzione esatta per “religione”, esiste solo il “sanatana dharma”, la legge eterna del corretto agire nel mondo. Poiché la parola religione sta a significare “riunire ciò che è diviso” mentre per la filosofia indiana non c’è mai stata alcuna divisione. Il tutto è sempre presente nel tutto.
Questa è anche una vera espressione di laicità, una laicità pura, naturale, non macchiata da una rivalsa nei confronti del pensiero religioso o spirituale. Per questa ragione durante gli spettacoli teatrali ai quali ho assistito in India, a volte della durata di parecchie ore, se non giorni, sembrava di rivivere nel presente quel “pathos” delle vicende vissute dai grandi eroi ed eroine, incarnazioni divine, che veniva riportato sulle scene. Scene che spesso erano la strada, il tempio, un antico monumento, un bosco, raramente un teatro (quest’ultimo una invenzione della cultura occidentale che tende a racchiudere ed ad astrarre il vissuto dal suo contesto naturale).
In un certo senso lo stesso modello è espresso anche nelle funzioni “teatrali” dell’antica Cina, basate sulla musica e sulla cerimoniosità ma non indirizzate ad una ipotetica divinità, bensì agli antenati od alle forze della natura. Per contraltare assistiamo poi all’assoluta mancanza di etichetta o formalità in quelle “rappresentazioni”, se così possiamo chiamarle, che avvenivano nei monasteri Chan, in cui tutto era recita assurda, con il fine di risvegliare i ricercatori alla presenza cosciente del qui ed ora. Quando leggiamo le storie di vita nei monasteri cinesi non possiamo fare a meno di riconoscere la “pazzia” spirituale che diventa “spettacolo”.
Ricordo, ad esempio, la storia di una bellissima monaca, chiamata Ryonen, vissuta in un monastero zen. Un monaco che stavo nello stesso monastero si innamorò perdutamente di lei ed una notte si introdusse furtivamente nella sua stanza. Ryonen non si turbò affatto ed accettò volentieri di giacere con lui. Ma l’indomani quando l’innamorato si ripresentò ella disse che in quel momento non era possibile… Il giorno seguente si svolgeva nel tempio una grande cerimonia per commemorare l’illuminazione del Buddha alla presenza di una gran folla e di parecchi monaci venuti da lontano. Ryonen entrò senza indugi nella sala colma e con totale naturalezza si pose di fronte al monaco che diceva di amarla, si denudò completamente e gli disse: “Eccomi, sono pronta, se vuoi amarmi puoi farlo qui, ora…”.
Il monaco se ne fuggì per non far più ritorno mentre Ryonen con quel gesto aveva reciso le radici di ogni illusione. La storia di Ryonen e la sua totale adamantina aderenza alla verità può essere presa ad esempio lampante di cosa sia il “teatro religioso” nella tradizione zen. Con il metodo teatrale zen, infatti, in considerazione che tutto è una “commedia”, non vale celare le pecche e i difetti, le antipatie e le simpatie (spesso immotivate). Il render complici gli altri anche “forzosamente” serve a rompere quel muro di ghiaccio che solitamente si instaura fra persone che non si conoscono, o che stentano a manifestarsi liberamente.
Insomma il teatro religioso in Oriente attinge ancora direttamente alla vita di ogni giorno, in un certo senso potremmo definirlo un “teatro di strada”. In particolare penso a quella rappresentazione teatrale giapponese chiamata Kabuki, che ritengo collegato all’esperienza dello zen, e il significato di questo termine è quello di “provocazione” cioè si intende provocare mettendo in “scena” anche esplicite allusioni sessuali. Ka che sta per canto, bu è ballo e ki conoscenza tecnica. Quindi si riassume in un insieme inscenando una recita che oltre a rispettare le origini (cioè provocare o essere una rappresentazione realistica) prevede cambi d’abito repentini (che vengono agevolati dai “servi di scena” ed è una pratica chiamata bukkaeri) perché sotto quelli indossati, che si lasciano cadere, ce ne sono altri, a significare il “cambio” (non solo nell’azione ma nel ruolo dell’attore) e quindi delle diverse funzioni vitali.
Tempo fa lessi l’autobiografia di un attore giapponese (di cui purtroppo ho dimenticato il nome) in cui egli narrava le peripezie vissute per compiere lo straziante destino dell’attore, le parti strane, le umiliazioni, la fame, la fatica, le scomodità, gli applausi, i fischi e tutte il resto.. mi sembrava di leggere la vita di un santo… Io stesso -che sono un attore e regista dilettante- misi in scena, per strada o in luoghi all’aperto od in grotte, diverse storie zen che avevano lo scopo di trasmettere la consapevolezza che la verità è presente in tutto quel che ci circonda. Certo, come fanno i maestri zen, anche attraverso bastonate psicologiche od anche reali.
Questo perché ho notato che parecchia gente in Europa solitamente vive con una etichetta di rispettabilità e di santità artificiosa. Le persone sovente assumono dei comportamenti falsi, mettendo in risalto gli aspetti convenienti della propria personalità od oscurandone altri.
Mi auguro che la freschezza del teatro d’Oriente possa ancora una volta contagiare le menti libere d’Europa, mostrando loro lo squallore dello spettacolo finto trasgressivo del cinema hollywoodiano o peggio ancora delle sacre rappresentazioni bacchettone della pseudo cultura occidentale. Una cultura corrotta prima dalle perversioni religiose e poi da un laicismo materialista che tende a trasformare l’essere umano in un robot, cancellandone lo “spirito”.
Paolo D’Arpini