Libia. Motivi del contendere tra Francia ed Italia
Vediamo di ricapitolare i fatti, almeno i più recenti. Dunque, la Libia era retta da una di quelle dittature o quasi-dittature laiche che, dall’indomani della seconda guerra mondiale, avevano assicurato la stabilità (e il progresso) del mondo arabo: da Nasser in Egitto a Bourghiba in Tunisia, da Ben Bellà in Algeria a Saddam Hussein in Iraq, da Assad padre in Siria a – per l’appunto – il colonnello Gheddafi in Libia. Gheddafi aveva conquistato il potere nel 1969, abbattendo la strana monarchia (inventata dagli inglesi) dei Senussi.
Malgrado certe estemporanee iniziative dovute a ragioni di politica interna, il nuovo dittatore libico era un amico dell’Italia. E come tale, fin dal suo esordio, era stato aspramente ostacolato non soltanto dagli inglesi, ma anche dai francesi, che non ci avevano (e non ci hanno) perdonato di aver strappato la Libia alla Turchia nel 1911. I “cugini” di Parigi, al tempo, avrebbero voluto impossessarsi della parte occidentale della Libia (la Tripolitania) saldandola ai loro possedimenti tunisini e algerini. La parte orientale (la Cirenaica) sarebbe dovuta andare agli inglesi, che la avrebbero congiunta all’Egitto, da loro amministrato “provvisoriamente” fin dal 1882.
Dapprima furono gli inglesi a tentare di togliere di mezzo Gheddafi, ma al tempo l’Italia era governata da statisti di un certo peso (gli Andreotti, i Moro, i Craxi…) e i nostri servizi riuscirono a far fallire i vari tentativi controrivoluzionari: ultimo, quello dell’operazione Hilton (1971), sventata con una brillante contromossa del generale Vito Miceli, all’epoca capo del nostro Servizio Informazione Difesa.
Da allora gli inglesi si sono in certo qual modo rassegnati a vedere la Libia tornare nella sfera d’influenza (anche economica) dell’Italia. Non così i francesi, che hanno continuato a giocare sporco, sporchissimo contro Gheddafi (e contro di noi) con sistemi e metodi che sono andati ben al di là dei soliti intrighi alla 007, scivolando pericolosamente su un terreno prossimo a vere e proprie operazioni di guerra. In questo quadro potrebbe collocarsi anche la strage di Ustica, che secondo alcuni autorevoli investigatori (primo fra tutti il giudice Rosario Priore) sarebbe stato null’altro che un effetto collaterale di un’azione di guerra francese, condotta nei cieli italiani per abbattere un aereo con a bordo Gheddafi.
Bene o male, comunque, il quadro ha retto fino a quando a governare il mondo è stato il bipolarismo USA-URSS. Quando gli americani hanno dato la spallata agli equilibri nati dalla seconda guerra mondiale, sono saltati anche gli equilibri nel mondo arabo e mediorientale. I regimi laici sono stati quasi tutti spazzati via dalle “primavere arabe” inventate dall’alta finanza internazionale, mentre per la Libia in particolare un personaggino che all’epoca si trovava alla Presidenza della Repubblica Francese – tale Nicolas Sarkozy – ha stretto alleanza con la ben più temibile signora Hillary Clinton – ministro degli esteri USA del tempo – per eliminare dalla scena Gheddafi, cancellare l’influenza italiana e impadronirsi della Libia.
Non occorre ricordare come sono andate le cose: il governo Berlusconi è stato talmente prono ai desiderata americani da mandare i nostri aerei a fare la guerra… contro noi stessi, Gheddafi è stato linciato in diretta tv, e la Libia è precipitata nel caos. Unica nota positiva: il penoso tracollo di Sarcozy e della Clinton.
Fin qui, per tappe velocissime, la storia. E oggi? Oggi la Libia è fondamentalmente divisa in due: in Tripolitania comanda (si fa per dire) un certo Fayez al-Sarraj, alla testa di un sedicente “governo di accordo nazionale” che non controlla neanche i quartieri della capitale. In Cirenaica, invece, è saldamente al potere il generale Khalifa Haftar, cui se non altro si deve la quasi completa distruzione dell’ISIS nella parte orientale della Libia. Ma non si creda che la situazione sia così semplice, perché il mondo politico libico, una volta venuta meno l’amalgama nazionale della dittatura gheddafiana, è ritornato al livello in cui l’avevamo trovato nel 1911, cioè alle tribù. Sono tre o quattro quelle principali; ma ciascuna, al suo interno, è divisa in decine e decine di sotto-tribù, tutte dotate di una propria milizia. Quanto alle milizie, sono veri e propri eserciti privati, armati con tutto quanto ciascuna è riuscita ad “ereditare” da singoli reparti dell’ex esercito libico: compresi i carriarmati e l’artiglieria pesante.
Diciamo che oggi, al di là del governo della Cirenaica e di quel che resta del califfato dell’ISIS, in Libia si fronteggiano un paio di centinaia di milizie, ciascuna delle quali si candida a gestire una fetta più o meno grande di territorio e, spesso, uno o più pozzi petroliferi che vi insistono. Il governo “riconosciuto dalla comunità internazionale” – come si dice – non ha una probabilità su un milione di venire a capo di questo guazzabuglio. Su questo governo hanno scommesso gli Stati Uniti dell’era pre-Trump, l’Italia e altri brandelli della diplomazia “moderata”.
Sul generale Haftar, invece, hanno puntato la Russia di Putin, l’Egitto e gli Emirati Arabi. Ma su Haftar ha scommesso pure la Francia di Emanuelino Macron, il quale – fra scandali, crolli emotivi e furiosi rimproveri dell’attempata consorte – si sta dando un gran daffare per cacciare l’Italia (e l’ENI) dalla Libia e per sostituirla con la Francia (e la Total). Il fanciullo dell’Eliseo ha scelto Haftar solo perché noi avevamo scelto Sarraj, solo per un riflesso condizionato di antitalianismo ancestrale che fa capolino da ogni sua dichiarazione pubblica, solo per un gridolino di revanscismo coloniale nell’epoca dell’anticolonialismo.
Il cerchio si chiude: il via libera all’immigrazione senza limiti che deve approdare e rimanere in Italia; la spocchia dei burocrati europei (in primo luogo di quelli di nazionalità francese) contro la manovra economica del governo italiano; e, adesso, questa sporca manovra per vanificare il tentativo di una normalizzazione in Libia. L’Europa – per chi non l’avesse capito – è contro di noi. Al nostro fianco, soltanto due critici di questa Europa tedesca: Vladimir Putin e Donald Trump.
Michele Rallo