Il rito del pane… di Franca Oberti
“Gesù spezzò il pane… “.
Fin da piccola ho sentito queste parole nella mia famiglia. Per mio padre stavano a significare la condivisione, proprio come ce la racconta il Vangelo. Eppure lui non aveva studiato tanto, ma aveva memorizzato l’essenziale degli insegnamenti di Gesù; ogni tanto si lanciava nelle sue libere interpretazioni; per esempio, per farmi capire che il pane non andava sprecato, mi ripeteva: “Gesù è sceso da cavallo per una briciola di pane!”, quando si sa che Gesù cavalcava solo asinelli.
Il pane è sempre stato alla base della mia alimentazione e tramandato nelle sue diverse forme e preparazioni.
Cresciuta in città, era indispensabile fornirsi ai forni: negozi un tempo chiamati “Panetteria”, oppure “Panificio”, dove si faceva solo quello, almeno fino a pochi anni dopo la guerra. Il pane era categoricamente bianchissimo, per esorcizzare il pane nero delle tessere annonarie e del recupero di ogni possibile alimento per non morire di fame. In quel bianchissimo qualcuno sospettava una manipolazione, l’aggiunta di polvere di marmo, per sbiancarlo e renderlo più pesante. L’informazione correva piano negli anni ’60 e forse, il timore di essere scoperti, fece rinsavire i panettieri fraudolenti.
A Genova si trovava la pagnotta chiamata “Carnera”, da adulta pensai fosse dedicata al famoso pugile, ma non ne sono sicura. C’erano i panini all’olio e le piccole pagnottelle con tanta mollica, ma noi avevamo la focaccia! Ed era la nostra colazione preferita, addirittura intinta nel caffè latte: solo un genovese può capirne la bontà.
Negli anni si cominciarono a preparare pani sempre diversi, anche per accontentare gli immigrati da altre regioni. I panifici diventarono anche pasticcerie e spesso allargavano le licenze con i generi alimentari, diventando il punto di riferimento di tanti muratori, operai e ragazzi che, entravano nel negozio e ne uscivano con un ricco panino al prosciutto da addentare allegramente per strada.
La mia conoscenza del pane andava a ritroso nel tempo quando d’estate stavo dai nonni. In quegli anni nelle campagne del nostro Appennino tutti si facevano il pane in casa.
Non c’erano forni comuni, come capita ancora oggi in certe località e soprattutto dal centro Italia in giù. Nei nostri paesini di montagna ognuno si era costruito il suo forno a legna. Una cupola di mattoni pieni, ricoperti poi da sabbia, cenere e rifiniti in sasso, con delle piccole tettoie di tegole per poter lavorare all’imboccatura del forno senza bagnarsi in caso di pioggia.
La nonna teneva nel sacco della farina il crescente (in dialetto: llvado). Una pagnottella che si metteva a parte nel momento in cui si preparavano le micche per farle lievitare prima della cottura.
Il venerdì mattina cominciava il rito del pane.
La nonna pescava dal sacco di farina il crescente, lo scrollava dalla farina e lo poneva in una ciotola coperto d’acqua appena tiepida. Rimaneva a bagno tutto il giorno. Alla sera si allestiva la grande tavola con le sponde (una volta c’era anche una madia, poi scomparsa, forse per raggiunti limiti d’età), la nonna la grattava bene con una spatola apposita per togliere i residui precedenti; poi la puliva con uno straccio umido e la asciugava bene con un panno asciutto.
La vedevo lavarsi le mani con cura e poi preparava una piccola fontana di farina.
Nel cratere della farina, poneva il crescente ammollata che raccoglieva dall’acqua della ciotola e cominciava a lavorarlo con la mano sinistra; se asciugava troppo, con la destra vuotava un po’ di acqua della ciotola e continuava l’impasto fino a farne una pagnottella.
Nei nostri forni di montagna era previsto il posto per 12 o 14 micche di pane, l’equivalente di circa 6 chili di farina. Ogni pagnotta pesava circa mezzo chilo; poi si doveva calcolare il crescente e in estate la nonna metteva sempre un po’ di farina in più per noi bambine.
Il crescente lavorato e impastato era pronto per essere lasciato a riposo fino al sabato mattina.
Si copriva con altra farina e poi ancora con strofinacci candidi, usati solo per il pane settimanale.
Da bambina mi piaceva alzarmi insieme alla nonna e starle intorno per infilare le mani nell’impasto insieme a lei; ma lei mi anticipava quasi sempre, forse non voleva impicci, ma non aveva il coraggio di dirmelo.
Per quel mese sopportava noi nipoti e non ci sgridava mai.
Al crescente, con aggiunta di acqua tiepida (“devi poterci tenere la mano, sennò cuoce la farina prima del tempo…” mi diceva la nonna), piano piano si aggiungeva la farina necessaria per le dodici micche canoniche.
Bellissimo era vedere quel grande ammasso diventare sempre più voluminoso e poi sempre più liscio e setato. La nonna mi consentiva di infilarci le manine ben lavate e mi faceva vedere come bisognava “rmenarlo”. Era un lavoro lento, sistematico, lungo la misura della tavola, e poi diventava una biscia che si doveva arrotolare e ricominciare da capo. Dopo circa un’ora di quel lavoro svolto con consapevolezza, e magari chiacchierando con me, la nonna prendeva un lungo coltello e separava le dodici micche per vedere se la lievitazione era arrivata al punto giusto. Nel taglio della pasta comparivano tanti “occhi” e su tutto il biscione si vedevano piccole bolle che crescevano: era stato impastato al punto giusto!
La zia aiutava la nonna a preparare una lunga asse, coperta di lenzuola pulite e ad ogni micca che la nonna lavorava singolarmente, dopo averla arrotolata come una specie di banana, la zia predisponeva lo spazio e il lenzuolo veniva piegato in modo da tenere separate le micche tra loro, per non farle attaccare e poterle maneggiare ancora singolarmente.
Finito ogni singolo impasto, tutto veniva coperto per bene e lasciato lievitare da una a due ore, a seconda della temperatura esterna. A volte era necessario tenere le braci nella stufa, perché le mattinate estive in montagna sono piuttosto fresche.
Intanto si preparava il forno. Fuori dalla casa, dovevamo attraversare un piccolo piazzale; quando pioveva si doveva fare tutto di corsa per non far bagnare la legna e non bagnarci noi stesse. Nel tempo della lievitazione, il forno si scaldava; prima fascine di faggio, fatte girare all’interno con un bastone dalla nonna, che sembrava trasformarsi in una strega con tanto di scopone e fazzoletto nero in testa.
Quando la brace era pronta, si introducevano legni un po’ più grossi e il lavoro di distribuzione del calore continuava, perché ogni parte della cupola in mattoni doveva scaldarsi in modo uguale.
I mattoni diventavano rossi, poi neri e infine bianchi. Si doveva stare attenti a non scaldarlo troppo in fretta perché sennò faceva bruciare il pane, né troppo lentamente perché non si scaldava abbastanza per cuocerlo. Poi, prima di mettere il pane, si usava uno spazzolone fatto con rami di sambuco; si doveva pulire velocemente per non farlo raffreddare e tutta la brace si portava all’esterno dell’imboccatura.
L’arte del calore nel forno si sta perdendo; ora si usano quelli prefabbricati e si acquistano anche le coordinate per costruzione e uso.
Sono fortunata, perché con mio marito, abbiamo appreso sia l’arte del pane che quella dello scaldare il forno e ancora oggi, pur non avendo più l’entusiasmo né le forze, ci piacerebbe tanto continuare questo rito.
Occorrono tempi lunghi, volontà, rispetto per le tradizioni, e occorre anche aver avuto il tramando diretto di queste conoscenze, perché i tanti libri che ormai vengono pubblicati sul pane e le tante istruzioni di architetti e impresari edili sulla costruzione dei forni, non hanno nulla a che vedere con certi riti antichi, vissuti, amati e testimoniati oralmente.
Infornare il pane era bellissimo; mi rammarico di non aver potuto avere gli strumenti di oggi e poter fotografare la mia nonna che con maestria prendeva le pagnotte gonfie e tiepide e le appoggiava sulla pala e poi dentro, una dopo l’altra senza mai farle sgonfiare, con la delicatezza di una mamma che maneggia il suo bambino appena nato.
La porta del forno veniva chiusa e la brace, tolta in precedenza, si metteva davanti al coperchio per non far uscire subito tutto il calore.
I primi venti minuti erano fondamentali, dal profumo si capiva se cuoceva bene o se stava bruciando. In quei minuti si dovevano prendere decisioni importanti perché il risultato fosse ottimale.
Solo una volta veniva aperto; le pagnotte, dorate e con la crosta già fatta, venivano agitate un po’, perché fossero ben staccate dal fondo del forno, poi con un sorriso la nonna richiudeva il forno e preparava il “chissolo” per noi bambine, una prelibatezza che lei si permetteva solo in estate e solo per noi: una specie di focaccetta spalmata di burro e zucchero che era la tredicesima pagnotta e veniva infornata per ultima.
Ora il pane è diventato pericoloso per la salute, eppure tutti lo comprano e magari lo sprecano anche.
Il problema non sta nel pane, ovviamente, ma nelle modificazioni dei grani e nella separazione dei vari nutrienti per poter sfruttare il chicco in tutti i suoi componenti.
Le tante allergie al glutine arrivano solo dallo squallido intervento dell’uomo ingordo di benessere e per un’economia mondiale che sta portando tutto il nostro patrimonio agricolo alla deriva.
Occorre tornare all’uso della farina macinata al momento, integra, completa di ogni componente per consentire l’assimilazione del pane ai nostri corpi maltrattati. Per poter fare ancora il pane in casa, sono costretta all’uso della cucina elettrica; non mi entusiasma, ma questo mi consente di preparare il crescente (oggi lo chiamano “pasta madre”), usare farine selezionate, lavorare tanto la pasta per consentire agli acidi dannosi di evaporare e per avere così l’essenza del pane vero, il cibo primordiale, l’alimento alla base della nostra cultura e tradizione.
Franca Oberti
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Post Scriptum dell’autrice: “Caro Paolo, con mio rammarico anche quest’anno dovrò rinunciare a farvi visita in occasione della Festa dei Precursori. Ho letto il bel racconto di Michele Meomartino * e un po’ vi invidierò per quello che avete programmato sul pane. Per questo ti ho mandato il mio racconto e se ti farà piacere fare un confronto col racconto di Michele che mi pare abbia tutt’altra procedura. Vi auguro di rinnovare il successo degli altri anni e in attesa (ahimè… sempre) di avere l’occasione di conoscerci di persona, un caro saluto a te e Caterina…”
* Articolo menzionato: http://retedellereti.blogspot.it/2018/04/treia-28-aprile-2018-cera-una-volta-il.html