Reddito universale o reddito di cittadinanza?
Ha fatto molto discutere una recente dichiarazione di Beppe Grillo sul “reddito universale”. Molti hanno fatto confusione, ed hanno creduto che si trattasse di un tentativo per nobilitare la nota (ed irrealizzabile) proposta del Movimento Cinque Stelle sul “reddito di cittadinanza”. Per carità, forse l’intenzione del comico genovese era proprio quella. Ma, in realtà, il suo ragionamento su un futuribile “reddito universale” va ben al di là della risibile sparata demagogica sul “reddito di cittadinanza”.
Incominciamo da quest’ultimo. A meno che non diventi una elemosina sul tipo del reddito “di inclusione” targato PD, allo stato attuale un reddito “di cittadinanza” non è neanche lontanamente ipotizzabile in Italia, mancando due presupposti ineludibili. Il primo di tali presupposti è una normativa assai rigida, draconiana, che escluda la attribuzione agli stranieri della cittadinanza italiana; anche agli immigrati “regolari” dovrebbe essere concessa solamente una ospitalità temporanea, senza che questa possa dar luogo ad una integrazione definitiva.
Il secondo presupposto è il ritorno ad una totale, completa, integrale sovranità monetaria. Solo riappropriandoci del diritto-dovere di battere la nostra moneta nazionale potremmo disporre delle somme ingentissime che necessitano per una iniziativa del genere. A prescindere, naturalmente, dagli accorgimenti necessari per prevenire contraccolpi inflattivi.
Questo, per quanto riguarda il reddito “di cittadinanza”. Il reddito “universale” immaginato da Beppe Grillo, invece, attiene ad un àmbito che va ben al di là del nostro scenario nazionale, chiamando in causa i sommovimenti economico-finanziari che vanno profilandosi in àmbito planetario.
Quando Grillo dice che nella società globalizzata ci sarà sempre meno spazio per il lavoro e per i lavoratori, dice ovviamente una cosa giusta. Quando dice che le crescenti masse di disoccupati hanno, in una società sempre più tecnologizzata, soltanto il ruolo di consumatori che devono assorbire i prodotti delle imprese, dice una cosa altrettanto giusta. Quando dice che, per adempiere al loro còmpito di consumatori, i disoccupati hanno comunque bisogno di un reddito che li metta in condizione di acquistare i prodotti, dice ancòra una cosa giusta, giustissima.
È chiaro, naturalmente, che l’argomento si discosti molto dal piccolo cabotaggio demagogico del “reddito di cittadinanza”. E tuttavia, malgrado ciò e malgrado la caratura di un Grillo sia ben diversa da quella di un Di Maio, permane il medesimo sottofondo di pressappochismo, di dilettantismo, di improvvisazione; permane la medesima mancanza di una visione lucida, complessiva, quale soltanto la politica può dare, e che non può essere surrogata dalle battute di spirito di una antipolitica da marciapiede.
L’antipolitico o il parvenu della politica può partorire una proposta bislacca, tipo “diamo uno stipendio a tutti e tiriamo a campare”. Il politico, invece, deve interrogarsi sulla sostenibilità, sulla accettabilità di una globalizzazione economica che fa gli interessi soltanto di una ristretta élite economica e determina la miseria di intere nazioni. Deve interrogarsi sulle fonti di finanziamento che consentano agli Stati di rispondere alle esigenze dei singoli, occorrendo anche con elargizioni di redditi di sopravvivenza; deve quindi interrogarsi sulla titolarità della emissione monetaria. Deve chiedersi se è possibile continuare ad assecondare le credenze religiose o pseudoreligiose che causano una irresponsabile crescita delle popolazioni del globo, specie di quelle dei paesi più poveri, con il corollario di crisi, carestie, migrazioni.
Mi si dirà che, a ben guardare, non soltanto l’antipolitica, ma la politica stessa – almeno nelle sue espressioni maggioritarie – sembra non porsi questi interrogativi, sembra accettare passivamente i guasti della società di oggi, sembra considerare come “inevitabili” il massacro sociale, l’immigrazione, la miseria generalizzata. Ed è purtroppo vero. Molta parte della politica odierna sembra voler inseguire l’antipolitica sul suo stesso terreno: dilettantismo, demagogia spicciola, accettazione acritica del “pensiero unico” coniato dai poteri forti.
Ecco perché alla politica vera, quella concepita come servizio al bene della collettività, si richiede oggi un impegno ancora più energico, un coraggio ancora più saldo, una capacità ancora più incisiva di elaborare una linea di resistenza al mare di fango e di rassegnazione che minaccia di sommergere i popoli e le nazioni.
Michele Rallo