USA. La rielezione di Vladimir Putin in Russia alimenta la rabbia di guerra americana
Dunque, Putin è stato rieletto trionfalmente per la quarta volta, con qualcosa come il 77% dei voti. Percentuale comunque inferiore al “gradimento” della popolazione, che secondo tutti i sondaggi supererebbe di molto l’80%. Peraltro, 5 su 7 dei suoi concorrenti (dall’estrema destra all’estrema sinistra) sostenevano la stessa linea di politica estera del Presidente. Solo 2 i concorrenti allineati sulle posizioni di USA e Unione Europea: insieme, hanno totalizzato l’1,4% dei suffragi.
Comprensibile il lutto nelle redazioni della grande stampa fiancheggiatrice dei poteri forti occidentali. Ma – di grazia – perché mai i russi non avrebbero dovuto premiare Putin? Ha stroncato l’alleanza tra la finanza internazionale e la corrotta burocrazia post-comunista, alleanza finalizzata a depredare la Russia delle sue immense ricchezze energetiche e a ridurne in miseria gli abitanti (come è accaduto in Italia); ha modernizzato realmente lo Stato (altro che “le riforme che l’Europa ci chiede”); ha battuto la grande mafia oligarchica e la piccola delinquenza gangsteristica; ha sconfitto la crisi economica (con Eltsin i pensionati chiedevano l’elemosina agli angoli delle strade); ha favorito la nascita di un esteso ceto medio e combattuto le sacche di povertà; e, infine, ha dato forza, prestigio e dignità alla Russia, rifiutando di aggiogarsi al carro degli Stati Uniti.
Certo, i servizi americani hanno tentato prima di minare la sua popolarità, e poi di influenzare il voto dei russi, per quel poco che era possibile: hanno inventato improbabili “eroi del web” e li hanno lanciati sulla scena internazionale come “difensori della democrazia”, ma con assai scarsa fortuna a Mosca e dintorni. I russi, notamente, non sono fessi, non sono disposti ad accettare tutte le parole d’ordine ed a credere a tutte le fandonie fabbricate dai servizi d’oltreoceano.
Ma, in Occidente, le ingerenze americane in Russia (e in Ukraina, e in Siria, e in Libia, e in mille altri paesi) non scandalizzano nessuno. A scandalizzare è il “Russiagate”, il tentativo – cioè – della Russia di influenzare le elezioni americane con metodi infinitamente più soft di quelli utilizzati dagli americani per tentare di indebolire un personaggio scomodo come Putin. Metodi che si spingono talora – come per esempio è avvenuto in Ukraina – fino a stanziare milioni di dollari a pro di un golpe per abbattere un Presidente democraticamente eletto.
Ma tralascio le considerazioni di ordine morale, e vengo ai fatti nudi e crudi di questi giorni. Fatti che mi inquietano. Soprattutto due di questi, avvenuti a migliaia di chilometri di distanza tra loro, ma che a me sembrano convergere verso un unico obiettivo: lo scatenamento di una guerra contro la Russia. Vecchio pallino, questo, dello “apparato militar-industriale” di Washington, e da alcuni anni anche obiettivo di una nuovissima scuola di miliardari ebreo-americani che amano definirsi “filantropi”.
Veniamo ai fatti, dunque. Il primo è l’assassinio plateale di una spia russa rifugiata in Inghilterra. Chiaramente si è trattato di una montatura orchestrata da qualche servizievole “servizio”: possono essere stati gli inglesi stessi, o quei democraticoni della CIA, senza contare che anche gli israeliani hanno un certo bernoccolo per cose del genere. Ora, se veramente i russi avessero voluto eliminare quel personaggio (peraltro piuttosto modesto), lo avrebbero fatto durante il suo soggiorno nelle carceri moscovite e non lo avrebbero mandato in Inghilterra con uno scambio di prigionieri. E, se proprio fossero impazziti e avessero deciso di eliminarlo in un secondo momento, certamente non avrebbero “firmato” il delitto utilizzando una sostanza chimica che – del tutto teoricamente – dovrebbero possedere soltanto loro.
Ma c’è anche un secondo fatto, che in pochi hanno attenzionato: l’improvviso licenziamento – in quel di Washington – del Segretario di Stato (cioè il Ministro degli Esteri) Rex Tillerson, e la sua sostituzione con l’ex capo della CIA, Mike Pompeo. Ai più sarà sembrato uno dei tanti avvicendamenti in seno all’amministrazione Trump. Ma così non è. E ciò per un particolare motivo: rispetto al teatro mediorientale, Tillerson ha una posizione molto prudente, in particolare sull’Iran. Al contrario, Pompeo è un “falco”, favorevole a riproporre le sanzioni contro l’Iran e, secondo alcuni, anche alla guerra. Peraltro, il Primo Ministro israeliano Netanyau si era recato a Washington pochi giorni prima del defenestramento: sembra – riferisce il documentatissimo sito di Maurizio Blondet – proprio per perorare una guerra “preventiva” contro Teheran.
Si tratta di due episodi – quello di Londra e quello di Washington – a prima vista slegati l’uno dall’altro. Ma che a me sembrano pericolosamente convergenti verso un unico scenario. La Russia, infatti, non potrà accettare che americani e israeliani radano al suolo l’Iran, suo principale alleato in Medio Oriente. Putin non potrà non reagire. E questo – se dovesse succedere – porterebbe ad un conflitto mediorientale di dimensioni vastissime, con il coinvolgimento diretto di tre potenze nucleari: gli USA, la Russia e – ultimo non ultimo – il bellicoso Israele di Benjamin Netanyau. In una tale eventualità – facile prevedere anche questo – gli americani chiederebbero il sostegno degli alleati NATO e, in primo luogo, dei compagni di merenda inglesi, già sul piede di guerra per il provvidenziale assassinio della spia russa.
Questa, naturalmente, è solamente una ipotesi di studio; ipotesi che spero proprio non abbia a verificarsi. Ma teniamo ben presente che c’è chi lavora perché, al contrario, una tale ipotesi possa prendere corpo. Beninteso, in nome dei soliti alti ideali di democrazia internazionale che, in un recente passato, sono stati la scusa per scatenare due guerre mondiali e un centinaio di altri conflitti minori.
Michele Rallo
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