Douce France e Douce Allemagne – Macron si ispira al “Modello Tedesco”, se passerà il 24 settembre 2017

Il modello a cui si ispira Macron
Ecco il modello tedesco proposto da Maurizio Landini ai lavoratori italiani, che dovrebbe permettere ai padroni italiani di essere competitivi con i padroni tedeschi!
Ecco il modello del Jobs Act di Matteo Renzi!

Nota della Redazione di Resistenza
Diffondiamo questo articolo perché illustra bene il processo in atto in tutti i paesi imperialisti e aiuta a comprendere quello a cui puntano anche qui da noi il governo Gentiloni-Renzi e i suoi padrini: fare piazza pulita delle conquiste di civiltà e di benessere che le masse popolari avevano strappato, cioè di attuare in Italia il programma che negli USA è stato messo in cantiere da Ronald Reagan negli anni 1981-1988 e che in Europa è stato messo in cantiere prima in Gran Bretagna da Margareth Thatcher a partire dal 1979 e poi in Germania da Gerhard Schröder a partire dal 1998.
Chi spaccia soluzioni come “fare come la Germania” non ha capito, o fa finta di non capire, che praticamente si tratta di una concorrenza al ribasso in cui, alla faccia dei dati statistici (“lo smantellamento della previdenza sociale avvenuta a metà degli anni 2000 ha trasformato i disoccupati in lavoratori poveri” dice l’articolo; “la disoccupazione diminuisce” dicono i media italiani), a perdere sono sempre e solo gli operai, i lavoratori e le masse popolari.
Non “fare come la Germania”, ma fare come gli operai russi, guidati dal Partito Comunista bolscevico, fecero in Russia nel 1917! Fare la rivoluzione socialista e prendere nelle proprie mani la direzione del paese. Se a governare la società fossero gli operai anziché i padroni lo si capirebbe subito perché le fabbriche e le aziende produrrebbero quello che serve alle masse popolari e in modo compatibile con l’ambiente, anziché produrre, in un modo che avvelena l’ambiente e i lavoratori, una montagna di merci (molte delle quali rimangono invendute) solo per consentire al padrone di guadagnare sul lavoro degli operai. Lo si capirebbe anche perché nessuno dovrebbe lavorare 8, 10 o 12 ore al giorno, ma a tutta la popolazione abile verrebbe garantito un lavoro utile e dignitoso: cioè basta orari massacranti, basta esuberi, basta disoccupazione, basta precarietà, basta carichi di lavoro insopportabili (e gli incidenti sul lavoro non esisterebbero) basta allungamento dell’età pensionabile.
Il principale sostegno che dal nostro paese possiamo dare alle masse popolari degli altri paesi e ai popoli oppressi è fare la rivoluzione socialista in Italia, costruire nel nostro paese la base rossa della rinascita del movimento comunista e contribuire alla seconda ondata della rivoluzione proletaria mondiale. L’Italia fa parte della comunità internazionale degli imperialisti europei, USA e sionisti che domina il mondo, instaurare il socialismo in Italia significa rompere la catena che opprime tutti i paesi del mondo e aprire la strada a un nuovo corso della storia.
Chi dice “sarebbe bello, ma non è possibile”, “non ci sono le condizioni” è malato di pessimismo. Sicuramente non è una cosa facile e sicuramente non è una cosa che “cade dal cielo”: per fare la rivoluzione socialista è necessario che la parte più avanzata, generosa, cosciente delle masse popolari si unisca nel partito comunista che la costruisce, fase dopo fase, e la porta alla vittoria.

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Traduzione di un articolo di Olivier Cyran* del numero di settembre del mensile francese Le Monde Diplomatique.

I tedeschi, chiamati alle urne il 24 settembre 2017, non hanno mai avuto un numero così basso di persone in cerca di occupazione. E nemmeno così tanti precari. Lo smantellamento della previdenza sociale avvenuta a metà degli anni 2000 ha trasformato i disoccupati in lavoratori poveri. Queste riforme hanno ispirato la revisione del codice del lavoro che il governo cerca di imporre per decreto.

Ore 8: il Jobcenter (Agenzia per l’impiego N.d.T.) del quartiere berlinese di Pankow ha appena aperto i battenti che già una quindicina di persone fanno la coda davanti allo sportello dell’accettazione, ciascuna rinchiusa in un ansioso silenzio. “Perché sono qui? Perché, se non rispondi alla loro convocazione, ti tolgono quel poco che ti danno”, sbotta a bassa voce un cinquantenne, “comunque non hanno niente da proporre, a parte, forse, un lavoro da venditore di mutandine borchiate, chissà”. L’allusione gli strappa un leggero sorriso. Un mese fa, una madre sola di 36 anni, insegnante disoccupata, ha ricevuto una lettera dal Jobcenter di Pankow che la invitava, a pena di sanzioni, a candidarsi per un posto di rappresentante di commercio di un sexy shop. “Ne ho passate di tutti i colori con il mio Jobcenter, ma questo è il colmo”, ha risposto via internet l’interessata, prima di annunciare la sua intenzione di sporgere denuncia per abuso d’ufficio.
All’esterno, nel parcheggio del blocco di case popolari, l’“unità mobile di sostegno” del centro disoccupati di Berlino ha già iniziato l’attività. La signora Nora Freitag, 30 anni, sistema sul tavolo pieghevole, piazzato davanti al minibus degli operatori, un pacco di opuscoli intitolati Come difendere i miei diritti nei confronti del Jobcenter.
“Questa iniziativa è stata organizzata nel 2007 dalla Chiesa evangelica: c’è molta disperazione, e anche molta impotenza, davanti a questo mostro burocratico che i disoccupati percepiscono, non a torto, come una minaccia”.
Una signora, sessant’anni suonati, si avvicina con passo esitante, sembra molto infastidita di doversi presentare a degli estranei. La sua pensione, inferiore a 500 euro al mese, non le basta per vivere, riceve un’integrazione versata dal suo Jobcenter. Poiché fatica comunque a sbarcare il lunario, fa da poco un lavoro precario part-time (“minijob”) come donna delle pulizie in una casa di cura che le garantisce un salario netto mensile di 340 euro. “Figuratevi”, dice con una vocina agitata, “la lettera del Jobcenter mi dice che non ho dichiarato i miei redditi e che devo rimborsare 250 euro, ma questi soldi, io non li ho! Per giunta, li ho dichiarati fin dal primo giorno, i miei redditi, come potete immaginare; ci deve essere un errore…”. Uno degli operatori la prende sottobraccio per darle dei consigli in disparte: a chi indirizzare un ricorso, a quale porta bussare per sporgere denuncia se il ricorso ha esito negativo, ecc. Talvolta il minibus serve da rifugio per trattare un problema in maniera riservata. “È uno degli effetti di Hartz IV”, osserva la signora Freitag, “la stigmatizzazione dei disoccupati è così pesante che molti provano vergogna perfino a parlare della loro situazione di fronte ad altri”.

Una delle normative più vincolanti d’Europa
Hartz IV: questo marchio sociale deriva dal processo di deregolamentazione del mercato del lavoro, chiamato Agenda 2010, messo in essere tra il 2003 e il 2005 dalla coalizione del cancelliere Gerhard Schröder tra il Partito socialdemocratico (SPD) e i Verdi. Battezzata con il nome del suo ideatore, Peter Hartz, ex direttore del personale della Volkswagen, il quarto e ultimo pacchetto di queste riforme ha unificato i sussidi sociali e le indennità dei disoccupati di lungo termine (senza impiego da oltre un anno) in un unico sussidio forfettario, versato dal Jobcenter. Il presupposto è che lo scarso importo di questa somma – 409 euro al mese nel 2017 per una persona sola (1) – dovrebbe motivare il beneficiario, ribattezzato “cliente”, a trovare o a riprendere al più presto un impiego, anche mal retribuito e poco aderente alle sue attese o alle sue competenze. Il riconoscimento del sussidio è subordinato a un programma di controlli tra i più vincolanti d’Europa.
Alla fine del 2016, l’ambito di applicazione di Hartz IV coinvolgeva circa 6 milioni di persone, di cui 2,6 milioni di disoccupati ufficiali, 1,7 milioni di disoccupati sommersi non contabilizzati dalle statistiche attraverso la trappola dei “dispositivi di avviamento al lavoro” (formazione, addestramento, impieghi da 1 euro, minijobs, ecc.) e 1,6 milioni di figli di beneficiari del sussidio. In una società strutturata sul culto del lavoro, queste persone sono spesso descritte come scoraggiate o come bande di fannulloni e talvolta anche peggio. Nel 2005, in un opuscolo del ministero dell’economia, con la prefazione del ministro Wolfang Clement (SPD) e intitolata Priorità alle persone oneste. Contro gli abusi, le truffe e il fai da te nello Stato sociale, si poteva leggere: “I biologi sono concordi nell’utilizzare il termine ‘parassita’ per designare gli organismi che si sostentano a spese di altri esseri viventi. Ovviamente, sarebbe totalmente fuori luogo estendere agli esseri umani nozioni proprie del mondo animale”. E, ovviamente, l’espressione “parassita Hartz IV” è stata abbondantemente ripresa dalla stampa scandalistica, Bild in testa.
La vita dei beneficiari dei sussidi è uno sport da combattimento.
Quando la somma percepita, a livello di sussistenza, non consente al beneficiario di pagarsi un affitto, il Jobcenter se ne fa carico, a condizione che l’affitto non superi il tetto massimo fissato dall’amministrazione a seconda delle zone geografiche. “Un terzo delle persone che vengono da noi, lo fanno per problemi legati all’abitazione”, dichiara la signora Freitag, “nella maggior parte dei casi perché il rialzo degli affitti nelle grandi città, in particolare a Berlino, ha fatto loro superare i massimali del Jobcenter; allora i beneficiari dei sussidi devono traslocare, ma senza sapere dove, poiché il mercato delle case in affitto è saturo, oppure devono pagare di tasca propria la differenza eccedente il massimale, tagliando le spese alimentari”. Dei 500.000 “Hartz IV” che vivono a Berlino, il 40% paga un affitto che supera il limite normativo.
Il Jobcenter ha la facoltà di sbloccare aiuti urgenti, ma con il contagocce. Questo gli conferisce un diritto di indagine paragonabile quasi a un affidamento sotto tutela. Conto in banca, acquisti, spostamenti, vita familiare o perfino sentimentale: nessun aspetto della vita privata sfugge all’umiliante radar dei controllori. Le 408 agenzie del paese dispongono di un certo margine d’intervento, alcune “brillano” per immaginazione. A fine 2016, ad esempio, il Jobcenter di Stade, in Bassa Sassonia, ha inviato un questionario a una disoccupata nubile incinta chiedendole di rivelare l’identità e la data di nascita dei suoi partner sessuali.(2)
I germi della filosofia di questo regime inquisitorio si trovavano già nel manifesto firmato nel giugno del 1999 da Schröder e dal suo omologo britannico Tony Blair. In esso, i due profeti della “socialdemocrazia moderna” proclamavano la necessità di “trasformare la rete di sicurezza della previdenza sociale in un trampolino verso la responsabilità individuale”. Poiché, precisava questo testo intitolato Europa: la terza via, il nuovo centro, “un lavoro part-time o un impiego mal retribuito sono meglio che non avere del tutto un lavoro, in quanto facilitano il passaggio dalla disoccupazione all’impiego”. Un povero che suda piuttosto che un povero disoccupato: questa verità da bar dello sport è servita da matrice ideologica alla “cesura, senza dubbio la più importante, della storia dello Stato sociale tedesco dai tempi di Bismarck”, secondo la formula di Christoph Butterwegge, ricercatore in scienze sociali all’Università di Colonia.(3)
In Francia, le leggi Hartz costituiscono da dodici anni una fonte inesauribile di ammirazione nei circoli padronali, mediatici e politici. L’ode rituale al “modello tedesco” ha preso ulteriore vigore in seguito all’arrivo all’Eliseo di Emmanuel Macron, per il quale “la Germania si è riformata in maniera formidabile”.(4) Un punto di vista raramente contestato dagli editorialisti. “Il cancelliere tedesco Gerhard Schröder ha spinto molto per imporre le riforme che fanno la prosperità del suo paese”, ha ricordato il direttore editoriale di Le Monde all’indomani dell’elezione del candidato della “start-up nation”, per esortarlo ad adottare il pugno di ferro nelle sue riforme.(5) L’economista Pierre Cahuc, ispiratore con Marc Ferracci e Philippe Aghion della riforma del mercato del lavoro immaginata da Macron, rende omaggio anche lui al “successo eccezionale dell’economia tedesca” ritenendo che Hartz IV non solo “giova all’impiego”, ma è anche auspicabile per diffondere gioia e allegria, visto che “i tedeschi si dichiarano sempre più soddisfatti della loro situazione, soprattutto i meno abbienti, mentre la soddisfazione dei francesi ristagna”.(6)
Mentre “i meno abbienti” riescono ancora a contenere la loro euforia nelle code d’attesa dei Jobcenter, è incontestabile che i progetti di Macron si ispirano direttamente al “modello tedesco”. In particolare lo svuotamento del codice del lavoro e il rafforzamento del controllo sui disoccupati, che si vedrebbero penalizzati nel caso rifiutassero due offerte consecutive di lavoro. Nessuno meglio del presidente francese ha saputo sintetizzare il senso di Hartz IV quando ha spiegato il 3 luglio, davanti al Parlamento riunito a Versailles, che “proteggere i più deboli, non significa trasformarli in assistiti permanenti dello Stato”, ma fornire loro i mezzi per – ed eventualmente obbligarli a – “incidere in modo efficace sul proprio destino”. Con un’acrobazia verbale simile a quella fatta a suo tempo dai promotori di Hartz IV, aggiungeva: “Dobbiamo sostituire l’idea di assistenza sociale (…) con un’autentica politica di inclusione di tutti”. Per Schröder, la parola d’ordine nei confronti dei poveri era più lapidaria: “Incoraggiare e pretendere” (“fördern und fordern”).
Comunque, Hartz non si è sbagliato: in Francia, l’artefice delle leggi che portano il suo nome continua a godere di una lusinghiera reputazione. In Germania, nessuno si è dimenticato della sua condanna, nel 2007, a due anni di carcere con la sospensione condizionale e al pagamento di una multa di 500.000 euro per avere “comprato la pace sociale” alla Volkswagen, elargendo ai sindacalisti del consiglio di fabbrica bustarelle, viaggi ai tropici e prestazioni di prostitute. Per cui, in Germania, nessuno vuole più sentire parlare di lui e per trovare un pubblico ancora disponibile ad applaudirlo, l’ex direttore del personale si rifugia in Francia. Il Movimento delle imprese di Francia (Medef, la Confindustria francese N.d.T.) lo invita regolarmente e François Hollande, che l’ha ricevuto quando era presidente, avrebbe voluto averlo tra i suoi consiglieri,(7) ma ormai è a Macron che Hartz dedica i suoi saggi consigli, a mezzo stampa.(8)
Eppure Hartz ha avuto solo un ruolo di secondo piano nell’introduzione delle riforme di Schröder. Certo, ha presieduto la commissione i cui lavori sono stati alla base delle riforme, ma è soprattutto la Fondazione Bertelsmann che ha orchestrato il tutto. L’organismo “filantropico” del gruppo multimediale più influente della Germania è stato al centro del processo di elaborazione dell’Agenda 2010: finanziamento di studi e di conferenze, diffusione di documenti esplicativi ai giornalisti, creazione di reti di “buona volontà”. “Senza l’attività preparatoria, di accompagnamento e di assistenza dispiegata a ogni livello dalla Fondazione Bertelsmann, le proposte della commissione Hartz e la loro trasposizione legislativa non avrebbero mai potuto vedere la luce”, osserva Helga Spindler, professoressa di diritto pubblico all’Università di Duisburg.(9) La Fondazione si spingerà perfino a invitare i quindici membri della commissione a partecipare a seminari di studio in cinque paesi considerati all’avanguardia nel recupero dei disoccupati: la Danimarca, la Svizzera, l’Olanda, l’Austria e il Regno Unito.(10)

Posti di lavoro stabili trasformati in impieghi precari
Il 16 agosto 2002 Hartz presenta le sue conclusioni a Schröder sotto la cupola della cattedrale francese di Berlino. È un “grande giorno per i disoccupati”, esulta il cancelliere che promette di farne tornare a lavorare due milioni di persone nel giro di due anni. Spesso 344 pagine, il rapporto della commissione contiene tredici “moduli di innovazione” redatti in gergo manageriale a base di “engleutsch” (una miscela di tedesco e inglese) pieni di espressioni come “controlling”, “change management”, “bridge system per anziani attivi”, “assoggettamento e volontariato”, ecc. Nel rapporto, il Jobcenter è descritto come un “servizio potenziato per i clienti”.
Entrata in vigore il 1° gennaio 2005, la normativa nata con questa non-lingua si lega con l’altro pacchetto normativo dell’Agenda 2010, che orchestra la deregolamentazione del mercato del lavoro. Per portare i disoccupati nell’ambito del lavoro salariato si rendeva necessaria la creazione di un ampio armamentario di strumenti messi a disposizione dei padroni: defiscalizzazione dei salari più bassi, istituzione dei minijob a 400 euro, poi portati a 450 euro al mese, abolizione dei limiti al ricorso al lavoro temporaneo, incentivi alle agenzie interinali che fanno ricorso a disoccupati di lungo termine, ecc. La febbre dell’oro contagia gli imprenditori, in particolare nel settore dei servizi. Riforniti di truppe fresche dai Jobcenter, approfittano di questa opportunità per trasformare posti di lavoro stabili in impieghi precari – lasciando liberi i lavoratori precarizzati di mettersi anche loro in fila al Jobcenter per cercare di integrare il loro magro stipendio. Il lavoro interinale esplode, passando da 300.000 persone ingaggiate nel 2000 a circa un milione nel 2016. Nello stesso periodo la percentuale di lavoratori poveri – pagati meno di 979 euro al mese – passa dal 18 al 22%. L’introduzione, nel 2005, del salario minimo (fissato a 8,84 euro all’ora nel 2017) non ha affatto invertito la tendenza: 4,7 milioni di lavoratori attivi sopravvivono ancora oggi con un minijob bloccato a 450 euro al mese.(11) La Germania ha trasformato i suoi disoccupati in persone bisognose.

I figli convocati al Jobcenter
Hartz IV funziona come un servizio obbligatorio di lavoro precario. La minaccia di sanzioni che pesa sui “clienti”, li tiene costantemente in balia di una trappola. Jürgen Köhler, un berlinese di 63 anni, lavora da libero professionista come grafico. A causa della concorrenza delle grosse agenzie, che offrono prezzi più bassi, non riesce più a ottenere nuove commesse di lavoro sufficienti per sopravvivere e si è quindi iscritto al Jobcenter: “un giorno”, racconta davanti a un caffè, “ho ricevuto una lettera che mi annunciava che mi sarei dovuto presentare il lunedì e il martedì successivi alle 4 del mattino, presso un’agenzia di lavoro interinale, per essere assegnato a un cantiere ed essere pagato la sera stessa; inoltre avrei dovuto procurarmi un paio di scarpe antinfortunistiche, ma ovviamente non possedevo questo tipo di attrezzatura e non avevo mai lavorato nell’edilizia; iniziare alla mia età non mi pareva una buona idea”. Poiché era troppo tardi per tentare un ricorso, Köhler non aveva altra scelta che fare una denuncia in tribunale, sperando che la sentenza arrivasse prima della mannaia della sanzione, che rischia di tagliare il sussidio del 10, 30 o anche 100%. Nulla è al riparo dal tritacarne delle sanzioni, nemmeno i figli dei beneficiari dei sussidi Hartz IV in età compresa tra i 15 e i 18 anni. In cambio dei 311 euro mensili versati alla famiglia, e anche se frequentano ancora la scuola, il Jobcenter può convocarli in qualsiasi momento per “consigliare loro” di orientarsi verso specifici settori e tagliare loro i fondi se mancano all’appuntamento: l’effetto pedagogico sull’adolescente, che ha già “Hartz IV” tatuato sulla fronte, è garantito.
Membro del gruppo di disoccupati Ver.di, il sindacato unificato del settore dei servizi, Köhler ha potuto avvalersi gratuitamente di un avvocato e ottenere nei tempi dovuti una sentenza favorevole. Ma non tutti hanno questa fortuna: nel 2016 sono state comminate circa un milione di sanzioni con una trattenuta media di 108 euro a testa, un guadagno non indifferente per l’Agenzia federale del lavoro, l’autorità di controllo dei Jobcenter. Nello stesso anno, questi ultimi sono stati oggetto di 121.000 reclami, respinti nel 60% dei casi. “Le sanzioni ci cadono addosso per motivi così assurdi che c’è una certa probabilità di vincere un ricorso se fatto adeguatamente”, spiega Köhler. “Ma la maggioranza dei disoccupati non è informata dei propri diritti e perciò si difende male; la maggior parte dei disoccupati non si difende affatto”.
Ma non è sempre stato così. Nel 2003 e nel 2004, decine di migliaia di disoccupati e lavoratori hanno manifestato spontaneamente ogni lunedì in parecchie città della Germania per bloccare le riforme Schröder. Affermatosi soprattutto nell’est della Germania, dove gli slogan facevano apertamente riferimento alle “manifestazioni del lunedì” dell’autunno 1989 contro il potere nella Repubblica Democratica Tedesca, il movimento si era rapidamente diffuso anche nell’ovest, prendendo alla sprovvista gli apparati sindacali, poco inclini a seguirlo. “I sindacati hanno tergiversato molto”, ammette Ralf Krämer, segretario federale di Ver.di e responsabile delle questioni economiche. “La loro posizione era talmente ambigua che due loro rappresentanti hanno partecipato alla commissione Hartz, uno era della DGB (Confederazione tedesca dei sindacati) e l’altro era uno dei nostri”. Oltre che dai due sindacalisti, la commissione era composta da due deputati, due universitari, un alto funzionario e sette “top manager” della Deutsche Bank, del gruppo chimico BASF e della società di consulenza McKinsey. !Il movimento sindacale in Germania è tradizionalmente vicino alla SPD”, prosegue Krämer, “con tutta evidenza è stato possibile imporre le riforme Schröder solo perché il governo era socialdemocratico, altrimenti la resistenza sarebbe stata molto più forte”.
Nel novembre 2003, tra lo stupore generale, una manifestazione organizzata al di fuori degli apparati sindacali ha raccolto 100.000 persone a Berlino: “Erano presenti molti sindacalisti, e c’ero anch’io, poiché la base di Ver.di aveva capito che queste riforme miravano solo a favorire l’abbassamento dei salari sul mercato”, prosegue Krämer, “ma la direzione della DGB si è mostrata molto riluttante”. Cinque mesi più tardi, nuove manifestazioni a Berlino, Stoccarda e Colonia hanno portato in piazza mezzo milione di oppositori alle riforme, cosa mai vista nel paese dal dopo guerra. Quella volta le direzioni sindacali hanno sfilato in testa al corteo: “Avremmo forse potuto vincere se la dinamica del movimento fosse proseguita”, si rammarica Krämer, “ma la DGB ha avuto paura di perdere il controllo e si è astenuta dall’organizzare altre mobilitazioni, le “manifestazioni del lunedì” si sono trovate isolate e il movimento si è esaurito; abbiamo perso un’occasione storica. Bisogna dire che lo scontro non fa parte della cultura sindacale tedesca. Contestare le decisioni di un governo democraticamente eletto non è nei nostri costumi, anche se a titolo personale me ne rammarico”.
Curiosamente, questo fallimento non ha indotto i sindacati a valutare un cambiamento di strategia. Né i dirigenti di Ver.di, né tantomeno quelli della DGB – di cui Verdi fa parte, ma all’interno della quale i sindacati metallurgici e chimici hanno una posizione di forza – hanno ritenuto utile aprire un dibattito sull’illegalità degli scioperi “politici”: la legislazione tedesca, infatti, vieta ai sindacati di indire uno sciopero contro le leggi ritenute contrarie agli interessi dei lavoratori salariati. “Sciopero generale”? L’espressione fa aggrottare le sopracciglia a Mehrdad Payandeh, membro del comitato direttivo federale della DGB. “Per noi uno sciopero ha senso solo se fallisce il negoziato per gli aumenti di salario nei settori dove siamo rappresentati e questo avviene raramente. La nostra legittimazione è rappresentata dai nostri iscritti, non dalla piazza. Non siamo come quei paesi del Sud dove si sciopera anche per delle noccioline!”.
Con il suo atteggiamento volubile e cordiale, Payandeh incarna piuttosto bene la cultura sindacale illustrata da Krämer: il funzionario tipo della DGB presta più attenzione ai dirigenti aziendali, che conosce e di cui apprezza la “capacità di cooperare con i sindacati”, piuttosto che ai disoccupati Hartz IV o ai forzati del lavoro precario, relegati al di fuori del suo ambito. “Certo che sono contro le sanzioni Hartz IV e la precarietà”, esclama, “ma le leggi votate dal Bundestag (il Parlamento federale tedesco, N.d.T.) non sono di nostra competenza: il nostro obiettivo è quello di difendere i nostri lavoratori all’interno degli accordi di settore”. Soltanto che accordi di questo tipo esistono solo nei settori metallurgico e chimico, all’ombra dei quali l’onnipotente industria dei servizi assorbe una mano d’opera sempre più asservita e sempre meno tutelata.
Le lotte contro le leggi Hartz hanno comunque lasciato una traccia profonda nel paese: hanno considerevolmente indebolito la SPD, sempre vacillante dopo il dissanguamento rappresentato da circa 200.000 iscritti che hanno preso il largo a partire dal 2003. Ma le lotte hanno anche rimodellato lo scenario politico, spingendo una parte dei dissidenti del partito di Schröder a fondersi nel 2005 con i neocomunisti del Partito del Socialismo Democratico (PDS) per creare Die Linke (La sinistra), oggi unica formazione politica rappresentata nel Bundestag a perorare l’abrogazione delle leggi Hartz. Le lotte hanno anche fatto nascere una vasta rete di gruppi di disoccupati decisi a far sentire le proprie ragioni attraverso la mutua assistenza e l’autodifesa – sul modello del collettivo Basta, radicato nel quartiere popolare di Wedding, a Berlino, che organizza regolarmente delle irruzioni nei Jobcenter della capitale.

“Per noi la Francia era un esempio”
Nel momento in cui in Francia ci si interroga sulla possibilità di frenare gli ardori riformatori di Macron, numerosi sindacalisti tedeschi trattengono il fiato: “Le riforme Macron ci preoccupano parecchio, poiché rischiano di spingere i salari verso il basso e di diffondersi a macchia d’olio da noi”, afferma Dierk Hirschel, un dirigente di Ver.di. “Per noi la Francia era per molti aspetti un esempio”, aggiunge il suo collega Ralf Krämer, “l’evoluzione attuale ci sembra grave. Speriamo che i sindacati francesi non ripetano i nostri errori e si sappiano mostrare più determinati di quanto lo siamo stati noi”.

Beati i poveri
“Colui che può lavorare ma non vuole farlo, non ha alcun diritto alla solidarietà: non c’è il diritto all’ozio nella nostra società”.
Il cancelliere Gerhard Schröder, intervistato da Bild, 6 aprile 2001

“I costi salariali hanno raggiunto un livello che non è più sopportabile per i lavoratori e che impedisce agli imprenditori di creare nuove attività. (…) Dovremo tagliare le spese dello Stato, incoraggiare la responsabilità individuale e pretendere maggiori sforzi da parte di tutti”.
Gerhard Schröder, discorso al Bundestag, 14 marzo 2003

“La miseria non è la povertà del portafoglio, bensì la povertà della mente. Alle classi inferiori non manca il denaro, a queste manca la cultura. (…) La povertà deriva dal loro comportamento, è una conseguenza della sottocultura”.
Walter Wüllenweber, editorialista, Stern, 16 dicembre 2004

“La povertà non è solo una questione di soldi. (…) Quello che conta per una famiglia, è saper spendere bene il proprio denaro. (…) Un pasto in un fast-food non solo è nocivo per la salute, ma è anche più costoso di uno stufato di verdure di stagione”.
Renate Schmidt, ministro federale della famiglia (Partito socialdemocratico, SPD), Bild am Sonntag, 27 febbraio 2005

“Solo chi lavora ha diritto di mangiare”.
Franz Müntefering, presidente SPD, vicecancelliere e ministro federale del lavoro e degli affari sociali, di fronte al gruppo SPD al Bundestag, 9 maggio 2006

“Se vi lavate e vi fare la barba, troverete un lavoro”.
Kurt Beck, presidente SPD, rivolto a un disoccupato, Wiesbadener Tagblatt, 13 dicembre 2006

“Lo afferma un ricercatore: 132 euro al mese sono sufficienti per vivere!”.
Titolo su Bild, 6 settembre 2008

“L’aumento di Hartz IV ha dato una spinta alle industrie del tabacco e degli alcolici”.
Philipp Missfelder, deputato dell’Unione cristiano-democratica (CDU) al Bundestag, commentando in un discorso l’aumento di 4 euro del sussidio mensile Hartz IV, 15 febbraio 2009

“I dibattiti attorno a Hartz IV prendono un orientamento socialista. (…) Colui che promette al popolo una prosperità senza sforzi, apre le porte a una nuova decadenza romana”.
Guido Westerwelle, segretario generale del Partito liberaldemocratico tedesco (FDP), vicecancelliere e ministro federale degli affari esteri, Die Welt, 11 febbraio 2010

“Invece di farsi pagare come disoccupati, la gente dovrebbe fare un lavoro socialmente utile. (…) A Berlino potremmo reclutare venti disoccupati Hartz IV in ciascun quartiere per controllare se i proprietari di cani raccolgono gli escrementi dei loro animali. (…) In questo modo prenderemmo due piccioni con una fava: i disoccupati troverebbero una nuova occupazione e i berlinesi una nuova città”.
Claudia Hämmerling, deputata dei Verdi al Parlamento di Berlino, Bild, 6 aprile 2010

“Noi forniamo agli imprenditori un materiale umano a buon mercato”.
Il collaboratore di un Jobcenter berlinese citato da Die Süddeutsche Zeitung, 9 marzo 2015

NOTE
(*) Giornalista, coautore insieme a Julien Brygo di Boulots de merde! Du cireur au trader, enquête sur l’utilité et la nuisance sociales des métiers, La Découverte, Parigi, 2016.
(1) L’indennità scende a 368 euro per un soggetto che vive in coppia con un altro beneficiario di “Hartz IV”; aumenta di 237 euro per figlio da 0 a 6 anni, di 291 euro per un figlio da 7 a 14 anni e di 311 euro per un adolescente da 15 a 18 anni.
(2) Jobcenter fragt nach Sexpartnern per Fragebogen, , sul sito del collettivo d’informazione Gegen Hartz IV, .
(3) Butterwegge, Christoph – Hartz IV und die Folgen. Auf dem Weg in eine andere Republik?, Beltz Juventa, Weinheim, 2015.
(4) Macron: Je veux conforter la confiance des Français et des investisseurs, in “Ouest-France”, Rennes, 13 luglio 2017.
(5) Leparmentier Arnaud – Les cent jours de Macron seront décisifs, in “Le Monde”, 10 maggio 2017.
(6) Fay, Sophie Macron va-t-il faire du Schröder à la française ?, in “L’Obs”, Paris, 13 maggio 2017. A proposito di Pierre Cahuc, leggere Richard, Hélène – Théorème de la soumission, in “Le Monde diplomatique”, ottobre 2016.
(7) L’ancien DRH de Gerhard Schröder ne conseillera pas Hollande, , in “Le Monde”, 28 gennaio 2014.
(8) Hartz Peter: lettre à Emmanuel Macron, in “Le Point, Paris”, 21 giugno 2017.
(9) Spindler, Helga War die Hartz-Reform auch ein Bertelsmann-Projekt?, in “Jens Wernicke et Torsten Bultmann (a cura di), Netzwerk der Macht – Bertelsmann. Der medial-politische Komplex aus Gütersloh”, BdWi, Marbourg, 2007.
(10) Cfr. Schuler, Thomas – Bertelsmann Republik Deutschland. Eine Stiftung macht Politik, Campus, Francoforte, 2010.
(11) Fonte: Agenzia federale del lavoro; rapporto dell’Istituto di scienze economiche e sociali (WSI) n. 36, luglio 2017.

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