Trump? No, è Sion che impera alla Casa Bianca – Perché the donald ha preferito inchinarsi ai poteri forti…
La sua campagna elettorale si era svolta tutta all’insegna dell’isolazionismo pacifista contro i venti di guerra che facevano aureola a “Killary”, l’amazzone delle primavere arabe, la triste profetessa dello scontro frontale con la Russia.
Quando venne eletto, furono in molti a mettere il lutto; e, fra costoro, in primo luogo i becchini della guerra, all’interno come all’estero. Si consolarono profondendo fiumi di milioni nelle dimostrazioni “spontanee” in ogni angolo degli States, finanziando avvocati che difendevano “gratuitamente” gli immigrati clandestini minacciati di espulsione, mettendo la loro stampa a disposizione di ogni pur ridicola iniziativa antitrumpista, da quella che invocava una riforma del sistema elettorale con effetto retroattivo a quella che voleva la ripetizione delle consultazioni presidenziali.
Il panico dei poteri forti era grande, ed era giustificato. Se Trump e Putin si fossero messi d’accordo, la storia del mondo sarebbe cambiata da così a così. E a lor signori una tale prospettiva non era assolutamente gradita.
Cominciarono allora a lavorare il Presidente ai fianchi, impedendogli sostanzialmente di governare. La chiave di volta era il suo stesso partito, detentore della maggioranza sia al Senato che alla Camera dei Rappresentanti.
Fu un giochetto chiamare a raccolta la minoranza interna, l’estrema destra neocon che voleva la crociata anti-Putin e il trionfo di quello che Eisenhower chiamava “il complesso militar-industriale”. La saldatura fra questa componente reazionaria e gli eletti democratici si è manifestata in tutta la sua potenza in più occasioni, ultima delle quali il voto che ha bloccato la riforma trumpista dell’Obamacare, il fallimentare sistema sanitario che ingrassava le assicurazioni private a spese delle casse pubbliche.
A quel punto, Trump aveva ben chiara l’alternativa: o rassegnarsi a una guerra permanente con il Congresso almeno per i prossimi due anni (fino alle “elezioni di medio termine”), o inchinarsi ai poteri forti. E Trump ha preferito inchinarsi. D’altro canto – diceva Manzoni parlando di Don Abbondio – il coraggio se uno non ce l’ha non se lo può dare. E Trump, evidentemente, non ha potuto darselo.
Questa mancanza di coraggio, tuttavia, non si è manifestata improvvisamente, con le bombe sulla Siria.
C’erano state numerose avvisaglie, fin dai giorni immediatamente successivi all’insediamento del nuovo Presidente. I primi segnali si erano avuti con gli inchini a Israele e all’Arabia Saudita, due potenze che nell’attuale caos mediorientale hanno responsabilità forse superiori a quelle degli Stati Uniti; e con le contemporanee manifestazioni d’ostilità verso l’Iran sciita, accusato di essere veicolo di terrorismo, mentre invece – lo sanno anche le pietre – è l’avversario numero uno dell’ISIS e dei suoi finanziatori. Era come se Trump-Abbondio si scusasse con i Don Rodrigo di Ryad e di Tel-Aviv per avere battuto la loro candidata, dichiarando fin da subito che l’annunziata politica di distensione con la Russia non si sarebbe spinta fino a mettere in discussione il disegno strategico dei poteri forti sion-petroliferi.
E, anche a prescindere dal Medio Oriente, le promesse pacifiste di Donald Trump sembravano perdere colpi: nulla di nuovo in Ukraina, la nazione che potrebbe fungere da ariete per la spinta finale alla terza guerra mondiale; e nulla di nuovo neanche negli stessi States, con l’incredibile rifiuto a far piazza pulita nei servizi segreti ancòra dominati dagli elementi obamiani, a costo di continuare a subire il ricatto di una campagna sulle sue presunte amicizie pericolose moscovite.
Gli strateghi e i consiglieri nazionalisti dell’America First sono stati messi da parte uno ad uno, o abbandonati non appena qualche aspirante bombarolo ne metteva in dubbio la volontà di scatenare l’apocalisse sul mondo intero. Fino all’episodio più clamoroso: quello – recentissimo – della rimozione dell’ideologo e coordinatore della campagna elettorale trumpista, Steve Bannon, dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Il fatto – oltre ad essere avvilente sul piano umano e personale – è probabilmente la spia della svolta bellicista del Presidente. La giubilazione del suo più fidato consigliere, infatti, sembra procedere di pari passo con l’irresistibile ascesa del marito della figlia Ivanka, Jarod Kushner, nominato “Alto Consigliere” del Presidente. Kushner è un uomo d’affari ebreo-americano, legato agli ambienti israeliani che sostengono Netanyahu ed avversano la distensione con i palestinesi: «Egli guida una fondazione – leggo su Wikipedia – che finanzia una “yeshiva” ultra-ortodossa della colonia di Beit El, nota per la sua radicale opposizione al processo di pace tra Israele e Palestina.»
Ma le sorprese non finiscono qui. Perché – come rivela il giornalista investigativo Maurizio Blondet – sembrerebbe che il generissimo sia in stretti rapporti d’affari con il “filantropo” Georges Soros, altro miliardario del medesimo context ebraico-americano. La famiglia Kushner ha smentito, ma la notizia non sembra di quelle facili da inventare di sana pianta, perché – continua Blondet – ruoterebbe attorno a un prestito colossale (259 milioni di dollari). Soros – per la cronaca – è stato un munifico sponsor della campagna elettorale di Hillary Clinton e, in epoca più recente, uno dei maggiori finanziatori delle manifestazioni “spontanee” contro Trump. Inoltre, è tra i massimi teorizzatori della “crociata” contro la Russia di Putin. Ecco che il cerchio si chiude. Speriamo, non sulle nostre teste.
Michele Rallo