La meditazione Ch’an (o Zen) non offre poteri miracolosi
Se una qualunque persona volesse farvi credere di dover praticare la meditazione per ottenere un certo potere e per riuscire a cambiare le cose che vanno male nella vostra vita, sicuramente voi vi attacchereste a questa convinzione. Ebbene, sì, con una pratica meditativa mirata voi potreste anche riuscire ad ottenere un occasionale e temporaneo cambiamento dei vostri problemi. Ma, se intendete farlo con questo unico scopo, non sarete in grado di modificare il soggetto che soffrirà ancora, alla prossima occasione. Ecco perché il Ch’an non offre un metodo per cambiare i vostri problemi, né vi promette “quel tipo” di poteri, bensì vi offre lo strumento per cambiare voi stessi! Perché modificando l’innata idea di un soggetto egoico, anziché promettere di regalarvi il potere per eliminare i problemi e le sofferenze, fa diventare VOI il VERO POTERE!
In questo modo sarete voi stessi in grado di trovare l’antidoto ai vostri problemi e, successivamente, anche a tutti gli altri che potrebbero presentarsi quando avrete finito la cura meditativa. Il Ch’an insegna a rendere mansueto l’Ego, a conoscerlo, ad educarlo ed a ridimensionarlo. Quando sarete maestri nell’arte di dominare il vostro Io, non sarete più con le spalle al muro: sarà la vostra Coscienza che avrà messo nell’angolo quell’Io che vi provoca tanti problemi. La Coscienza profonda farà sentire la sua voce ancor più forte di quella dell’Io, permettendovi di avere forza e volontà a sufficienza per dominare gli istinti irrefrenabili della mente egoica protesa a salvaguardare la sua entità individuale.
Parliamo un attimo delle paure ancestrali che questa nostra entità individuale si porta dietro da infinite rinascite. L’Io non è sempre lo stesso, tanto è vero che noi non siamo mai la stessa persona delle vite precedenti. Però, l’energia difensiva dell’Io e la caratteristica volontà di conservare la sua spiccata individualità sono sempre le stesse. Esse sono le naturali conseguenze tendenziali di ciò che ognuno di noi alimenta e sperimenta durante la sua attuale vita. Le paure della sofferenza e della morte vengono trascinate con sé dall’Io vita dopo vita: esse sono infatti come una memoria storica che, all’atto di una nuova rinascita, fissa e stabilisce in noi le paure derivate dall’esperienza precedente.
La sofferenza è il male profondo dell’animo umano, ed è la conseguenza della convinzione di una illusoria esistenza separata e individuale. Non è assolutamente possibile sfuggirle, almeno non con la mente ignorante che gli esseri viventi si ritrovano karmicamente. Purtroppo, l’unico antidoto effettivo alla sofferenza è l’emancipazione coscienziale della mente, la conoscenza metafisica della vera Realtà dei fenomeni. E questa, non è un farmaco che può essere assunto subito e da tutti, proprio perché una delle prerogative della sofferenza, strettamente derivata dall’Ignoranza avidyà, è quella di rifiutare e far respingere dalla mente comune i profondi insegnamenti trascendenti della Conoscenza della Verità.
C’è anche da chiarire un altro punto importante, sul tema della sofferenza: molti praticanti di vecchia data, avendo ascoltato gli insegnamenti Buddisti, ritengono che la vera eliminazione della sofferenza nella mente passi attraverso la pratica della Compassione, cioè il desiderio di non vedere più soffrire gli altri esseri viventi. Per cui la propria sofferenza viene fatta passare in secondo piano, con l’applicazione di apposite pratiche, quali lo sviluppo di una mente tollerante e paziente che riesca a comprendere la Vacuità, la legge dell’impermanenza dei fenomeni. Questa mente colma di Saggezza che si dedica alla pazienza ed alla sopportazione dei difetti di sé e del mondo, in Sanscrito è chiamata anupattika-dharmakshanti e, solitamente, una volta che si è manifestata, determina la prova testimoniale della raggiunta Illuminazione.
Però, benché la propria sofferenza passi in secondo piano, per il processo liberato-rio è importante anche attivarsi per promuovere l’eliminazione della sofferenza tout-court, nostra ed altrui. La visione del “Bodhisattva” che si dedica alla cura della liberazione degli altri esseri, al fine di eliminare la loro sofferenza, è sempre accompagnata da uno sviluppo mentale in grado di conoscere le varie leggi del karma e di causa-effetto. Pur essendo innegabilmente vero che non si potrà raggiungere l’Illuminazione se nel nostro cuore non si è impiantato il seme della Karuna (la profonda Compassione), nel Ch’an le cose vengono viste in un modo più pratico. Esso riconosce comunque, che il fine ultimo del Bodhisattva è quello di sacrificare la sua personale fruizione del Nirvana, a scapito di un’intensa attività salvatrice nei confronti degli esseri ignoranti. Ma l’aspirante non potrà far nulla per nessun altro se prima egli stesso non ha appreso il metodo per eliminare la propria sofferenza.
Per risolvere questo iniziale problema, il Ch’an sposta il piano di livello della mente dei meditanti da quello del mondo fenomenico a quello esistenziale-metafisico. Se Io non esistessi, potrei forse avere esperienza della sofferenza mia o altrui? Certamente no. Cos’è che attiva la mia sofferenza e la mia coscienza della sofferenza altrui? La risposta, inevitabile, è che colui che sperimenta la sofferenza VUOLE esistere sul piano della mente fenomenica. Cioè, egli crede di esistere soltanto su questo piano manifesto e credendo a questa realtà illusoria, vi sperimenta la sofferenza. Perciò, se si giunge alla mente della Vacuità, in cui tutto quanto ci circonda, compresi noi stessi, viene visto come apparente e illusorio, dove mai potrà allignare e attecchire l’idea della sofferenza? Ecco perché il Ch’an, anziché lavorare materialmente per eliminare la sofferenza propria ed altrui in maniera dualistica (come avviene nelle Religioni teistiche), va direttamente all’origine del problema della sofferenza.
Esso ci spinge ad indagare a fondo nella mente, in quanto è la nostra mente karmica che conserva e prolunga nel tempo l’idea della sofferenza, sia la nostra che quella degli altri. È evidente che poiché le parole non servono ad eliminare le sofferenze in atto, che per cause karmiche le menti degli esseri stanno sperimentando, tutto il processo deve essere visto come stimolo per arrivare al dominio ed alla trasformazione della nostra mente attuale. E, il vero aiuto che il Bodhisattva del Ch’an può dare agli altri esseri umani, è l’insegnamento del metodo, affinché ognuno possa curarsi da sé e guarire da solo dal problema mentale della sofferenza.
Pertanto si deve arrivare al superamento della nostra radicata ostinazione egoica, prima causa di sofferenza, e dell’idea di essere persone fisiche sottoposte a problemi mentali. L’idea di essere persone umane va accettata solo come ruolo temporaneo in un sogno fatto ad occhi aperti e che dura lo spazio di una vita. Allo stesso modo come il sogno notturno, che dura lo spazio di una notte e che, all’alba, svanisce portando con sé l’idea della sofferenza sperimentata durante il sogno. Una cosa è sicura, dando più realtà al mondo fenomenico della sofferenza fisicamente sperimentata, non c’è scampo né salvezza, nulla che ci possa aiutare a farla cessare. Solo la morte potrà interrompere, per un breve lasso di tempo, il problema della sofferenza che, però, dopo si ripresenterà allorché si rientra nell’esistenza con un altro corpo fisico.
Se non si giunge a questa conclusione, ogni sforzo fatto dalla persona umana per liberarsi dalla sua angoscia risulterà vano. L’essere ancorati all’idea di “persona umana” porta con sé l’inevitabile sofferenza e l’inevitabile morte e, pur essendo entrambe terribilmente temute dalla mente, in realtà una soppianta l’altra. Perciò è solo competenza della nostra mente saper comprendere e decidere se attaccarci alla natura umana, e quindi caricarci sulle spalle la sofferenza, oppure scegliere la Via spirituale facendo in modo che la morte sia una Via senza ritorno. Anche la morte, di cui abbiamo parlato spesso, va rivista con una nuova ottica di interesse. Non è certo, il mio, un invito a farvi precipitare tra le nere braccia del ferale Yama, Dio della morte, almeno non prima che abbiate il potere e l’abilità di passarci attraverso, restando indenni da paura e da angosce. Le paure e le angosce della mente ignorante, che poi sarebbero le cause karmiche per un vostro inevitabile ritorno al mondo della sofferenza, devono venire sconfitte in anticipo, prima ancora della morte.
Questa parola, MORTE, così minacciosa e così spaventosa per la nostra mente manasica, esprime un significato finale, esclusivo, che sa quasi da fine del mondo, fine di tutto. Ma in realtà, la morte è solo la fine della mente cogitante (Manas)! Durante la vita non possiamo avere esperienza di questa condizione, come invece accade per le sofferenze, quindi quando si parla di esperienza della morte, CHI E’ che la sperimenta? Questa è l’unica esperienza che non possiamo riferire, né trasmettere, e né raccontare, da cui si desume che non siamo noi che la sperimentiamo, ma QUALCOSA che non può testimoniarla. Qualcosa che, quasi certamente, non la ritiene una FINE, qualcosa che, in definitiva, non può essere che la mente Chitta. Per la Coscienza, la morte come la vita, NON ESISTE!
Perciò, per un momento, proviamo ad immaginare di essere soltanto una Pura Coscienza, che è presente a tutti gli avvenimenti del mondo, ma che non esprime valutazioni né alcun tipo di volontà su questi stessi eventi. Priva di un centro egoico, liberata dalle funzioni del Manas che è obbligato ad interpretare e valo-rizzare nel bene e nel male tutto ciò che sperimenta, la Pura Coscienza (Chitta) non etichetta né subisce nessun rapporto emotivo con questi avvenimenti. Cosa mai potrà sperimentare questa pura Energia Inqualificata della Coscienza, stando in mezzo a tutte le angosce e le paure che tormentano la mente umana? Già il termine “sperimentare” non è prettamente adeguato se riferito alla pura Coscienza, perché richiama il concetto di uno SPERIMENTATORE, ben delimitato e individualizzato.
Vedete in che campo ci stiamo muovendo, la Metafisica è come una lastra di ghiaccio intrisa di olio scivoloso in cui è impossibile avere un appiglio e mantenere una presa. Eppure, all’inizio del nostro ingresso in questo mondo del Manas, nonché alla fine quando con la parola MORTE ne dovremo uscire, quella meta-fisica lastra di ghiaccio scivoloso sarà la nostra sola esperienza. Quindi, è proprio così tanto stupido ed inutile prepararci ad essa? Credete che questa Energia Superiore, da sempre presente e eternamente stabilita nel ‘Sé’, possa venir limitata dalle nostre piccole preoccupazioni umane, anche se queste avvengono nel suo sterminato campo d’azione? Quale evento, quale tragedia potrebbe mai scuotere CIO’ che è al di sopra perfino della morte?
Nel nostro corpo fisico, per tutta la durata della sua esistenza vivente, avvengono continuamente eventi mortali: milioni di batteri e miliardi di cellule muoiono e si riformano costantemente. Eppure noi quasi non ce ne accorgiamo, avvinti come siamo all’idea di un corpo unico e della nostra costituzione tutta di un pezzo. Solo se noi proviamo ad identificarci col batterio o con la cellula, allora la loro morte ci impedirebbe di vedere la continuità di esistenza dell’intero corpo. Questo è solo un esempio, ma può servire da paragone. Quindi, se ora noi riusciamo a cogliere la nostra identità con la Totalità dell’Essere, anziché col nostro piccolo Io manasico, la sofferenza e la morte di una semplice cellula, non ci tocca né ci sconvolge.
Sarebbe veramente interessante se, alla fine della meditazione quando rientriamo nella nostra coscienza ordinaria, prendessimo atto delle modificazioni e degli aggiustamenti che la nostra mente produce nel processo di riadattamento all’esperienza individuale. La Coscienza, anche se sempre presente nella fase meditativa profonda, si distacca temporaneamente dalla percezione egocentrata, situandosi in piani di consapevolezza impersonale non raggiungibili dal soggetto egoico. Perciò, al rientro da questa esperienza non volontariamente indirizzata, sarebbe importante poter cogliere il riemergere della coscienza manasica umana. In questa fase è possibile vedere l’automatico ripresentarsi dell’Io con tutte le sue conseguenti problematiche.
Da parte di alcuni studiosi appartenenti alle scienze neuropsichiche è stato più volte dimostrato che la mente umana, nella fase della meditazione profonda, diventa insensibile alle sollecitazioni esterne come pure alle precedenti situazioni memorizzate. Viene riportato il caso di alcuni ammalati terminali che, pur provando indicibili sofferenze nello stato di coscienza ordinaria, quando venivano sottoposti ad una condizione ipnotica di trance, al loro risveglio dichiaravano di non aver più sentito i precedenti dolori. Questo fatto dimostra che, quando arriviamo a sperimentare una condizione “samadhica” della meditazione profonda, la Coscienza si stacca dalla condizione ordinaria e si posiziona su altri piani. Ricordate la storia dell’Abate Zen e del Samurai, in cui l’Abate perfettamente posizionato nella meditazione Samadhica, non ebbe alcuna paura delle minacce di morte da parte del Samurai?
Abbiamo già parlato delle due posizioni distinte della Coscienza Chitta e Manas, ma quello che ora ci interessa è se la Coscienza, di per sé, sia sottoposta o meno all’obbligo del karma nell’individuo che la incarna. In fin dei conti, la Coscienza sul piano manasico non può impedire all’individuo di percepire sofferenze e angosce, anche se poi lo stesso individuo può non percepirle durante le fasi di distacco dal piano manasico. Inoltre, abbiamo anche esaminato ingiunzioni che stabiliscono che il karma, in realtà, è un effetto valido solo se si genera col nostro credere ad una causa scatenante. Perciò questo ci fa pensare che, quando l’individuo esiste nella sua condizione di credersi un individuo, esso non può svincolarsi nemmeno concettualmente da conseguenti condizioni karmiche che comportano piaceri e dolori, gioie e sofferenze, in maniera più o meno alternata.
Dobbiamo quindi concludere che le sofferenze, la morte, e tutte le cose che la mente teme, esistono solo in quanto la mente le crede esistenti. Anzi, diciamo di più, tutti i problemi della mente umana esistono perché, e fino a che, la mente umana crede in se stessa come manas, come un ‘Io’ strutturato e ben delimitato. Perciò il Bodhisattva del Ch’an, se non ci fossero date le debite istruzioni sul spirituale, sarebbe costretto ad un doppio lavoro. Prima dovrebbe annullare ed allontanare da sé l’idea di esistenza inerente e poi, malgrado il suo ottenimento di uno stato di atarassia e imperturbabilità della mente, deve ripiombare nello stato illusorio per cercare di salvare le menti degli altri esseri. Una fatica titanica senza fine, una vera e propria Ruota di Sisifo rotolata all’infinito… Ecco perché sarebbe dignitoso e giusto dargli una mano nel suo inesauribile compito, cercando da soli di smontare le false credenze dell’Io e distruggendo dalla nostra mente tamasica i semi dell’Ignoranza…
Aliberth – Alberto Mengoni
(Stralcio di un discorso del 22/3/2000 tenuto al Centro Nirvana di Roma)