UE. Un autunno lungo lungo in attesa dell’estremo addio all’euro….
La crisi terminale dell’euro è come l’autunno meteorologico: si sa che arriva, ma è difficile stimarne con precisione l’inizio. Diciotto mesi di allentamento quantitativo da parte della BCE non hanno sanato il problema strutturale dell’eurozona: l’impossibilità per le economie periferiche di reggere un cambio fisso con la Germania, in assenza di un Tesoro comune che trasferisca risorse dal centro al resto dell’area monetaria. Diversi segnali indicano ora che l’Italia e la Francia si dirigono verso una nuova recessione: sarebbe l’avvio di quella dissoluzione della moneta unica a lungo paventata. Se l’implosione dell’Unione Europea sarebbe accelerata con l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, nel caso di una vittoria di Hillary Clinton il futuro dell’Europa si inquadrebbe in un più ampio scenario di ostilità con la Russia. Crisi multiple, ma si avvicina quella decisiva
Se non si hanno dubbi sull’inizio dell’autunno astronomico, l’equinozio del 22 settembre, esistono sempre incertezze sull’autunno meteorologico: è il momento in cui si tirano fuori dagli armadi maglie, impermeabili ed abiti pesanti. L’eurocrisi è simile all’autunno: si conosce l’inizio astronomico, databile secondo semestre del 2011, ma è stato finora impossibile stabilirne quello meteorologico, ossia la crisi che coinciderà con il concreto sfaldamento della moneta unica e la dissoluzione dell’Unione Europea.
Qualche anno fa sarebbe stato possibile scindere l’implosione dell’euro da quella dell’Unione Europea, ma, al termine del 2016, il quadro politico si è talmente deteriorato che è impossibile ipotizzare che le istituzioni di Bruxelles sopravvivano alla fine dell’euro: anzi, si può tranquillamente affermare che la moneta unica (“una grande e irrinunciabile conquista” secondo un europeista di ferro come Giorgio Napolitano) sia l’ultimo collante che lega un’Unione dove le forze centrifughe sono ogni giorno più forti. Dissoltasi l’area monetaria, i vincoli che subordinano le varie cancellerie alle direttive di Bruxelles si allenterebbero fino a scomparire e la tendenza a rimpatriare quote sempre crescenti di sovranità, in materia di immigrazione come di economia, farebbe il balzo in avanti decisivo.
Sebbene si corra il rischio di scrivere un banale necrologio, è bene, infatti, passare velocemente in rivista le molteplici crisi di natura politica che stanno corrodendo l’Unione Europea, giorno dopo giorno: si può tranquillamente restringere l’analisi al solo campo politico perché è nelle urne che, con un disallineamento di due o tre anni, si riversa tutto il malessere dell’elettorato,qualsiasi sia la sua origine, sotto forma di astensionismo o di voti per i cosiddetti “partiti populisti” (che, ça va sans rien dire, intercettano gli umori del popolo):
Portogallo: nonostante i tentativi dell’ex-presidente della repubblica Aníbal Cavaco Silva di ribaltare l’esito delle elezioni, si è installato un governo di centro-sinistra che sta progressivamente smantellando le riforme incentrate sull’austerità che hanno martoriato la società lusitana. “L’anello debole dell’euro è a Lisbona: Portogallo rischia un secondo salvataggio” scrive Repubblica il 15 settembre;
Spagna: nessuna novità sul fronte iberico, dove la depressione economica ha disintegrato lo storico bipartitismo in un amorfo quadripartitismo (popolari, socialisti, Podemos, Ciudadanos) che rende impossibile la formazione di un esecutivo. È probabile che a dicembre si voti per la terza volta in un anno, senza alcuna garanzia che si esca dall’impasse.
Francia: Hollande è un cadavere politico che si aggira tra i corridoi dell’Eliseo. Lo stragismo di Stato che ha mietuto più di 200 vittime in meno di due anni, non ha stretto la nazione attorno al suo capo supremo, la cui popolarità rimbalza come un gatto morto dopo ogni attentato, per poi precipitare nuovamente verso il 10-15% di giudizi favorevoli1. La probabile affermazione di Nicolas Sarkozy come candidato della destra repubblicana, apre lo scenario di una vittoria di Marine Le Pen al ballottaggio delle presidenziali del maggio 2017;
Italia: non potendo cancellare il referendum costituzionale che rischia di travolgere Matteo Renzi e quel che rimane dell’establishment italiano in avanzato stato di decomposizione, si è scelto di posticiparlo il più possibile. Il 4 dicembre gli elettori saranno finalmente chiamati ad esprimersi sulla “riforma Boschi”, imprimendo un potente slancio al processo di dissoluzione della UE nel caso in cui la revisione della Costituzione benedetta dalla Troika fosse bocciata;
Austria: le presidenziali che assegnarono la vittoria all’europeista Van der Vellen sono state annullate per palesi brogli elettorali; si sarebbe dovuto rivotare il 2 ottobre, ma la connatura tendenza delle poste austriache ad aprire le buste del voto postale hanno obbligato a rinviare il ballottaggio al 4 dicembre. Il favorito è, ovviamente, il “populista e xenofobo”Norbert Hofer, la cui vittoria sarebbe spalancherebbe le porte ad un esecutivo di destra che traghetterebbe l’Austria fuori dall’area di Schengen e, un domani, dall’eurozona;
Germania: continua inesorabile il declino di Angela Merkel, bruciata dalle politica delle porte aperte agli immigrati impostale dai poteri atlantici per destabilizzare il Paese. Il “cazzaro di Rignano” insiste col farsi fotografare a suo fianco, oggi a Ventontene domani a Maranello, senza capire che la cancelliera è la pallida ombra di quella che fu nel lontano 2012: la CDU, sotto la sua presidenza, si sta liquefacendo, rendendo necessaria, in vista delle elezioni federali dell’autunno 2017, la formazione di una Grosse Koalition che includa pressoché tutte le forze politiche (cristiano-democratici, socialisti, verdi), tranne i populisti di Alternativa per la Germania. Solo il 44% dei tedeschi la vorrebbe ancora candidata per un quarto mandato2, rendendo sempre più incerto il futuro per la Kanzlerin che, nel bene e nel male, ha sinora garantito l’integrità dell’euro;
Olanda: il Partito della Libertà guidato da Geert Wilders, già reduce della vittoria referendaria con cui è stato affossato l’accordo di associazione tra Ucraine ed Unione Europea, è sempre più deciso a chiedere un referendum sulla permanenza della UE e ne ha fatto un cavallo di battaglia in vista delle legislative del 2017. Come nel caso dell’Austria, l’addio alla UE implicherebbe anche l’uscita dalla moneta unica, sancendo la reversibilità dell’euro;
Regno Unito: qui si è già votato e gli elettori si sono espressi per l’addio all’Unione Europea. Il colpo inflitto alla UE sotto il profilo politico e d’immagine è stato drammatico, palesando che il sentimento degli elettori è diametralmente opposto alla retorica europeista con cui Washington e Bruxelles hanno camuffato l’interesse geopolitico ad allargare l’Unione. La UE non solo ha perso propulsione verso i suoi confini esterni, ma perde addirittura ad ovest un pilastro come Londra;
Europa dell’est o gruppo di Visegrad: gli imperi, è risaputo, cominciano a dissolversi dall’estrema periferia. Al vertice di Bratislava, uno degli innumerevoli “vertici decisivi” che stanno scandendo il collasso della UE, il gruppo di Visegrad non solo si è opposto a qualsiasi ipotesi di ripartizione degli immigrati, ma ha anche avanzato la proposta un tempo impensabile di riappropriarsi di una fetta consistente della sovranità ceduta a Bruxelles;
L’equilibrio dell’Unione Europea, come si sarà intuito da questa breve carrellata, è fragilissimo: qualsiasi ulteriore crisi ha alte probabilità di causare il crollo della struttura, specie se ad essere intaccato fossero le fondamenta del progetto europeo, ossia la moneta unica.
L’eurozona, come abbiamo sempre detto, è un banale sistema a cambi fissi, concepito per generare nel volgere di pochi anni l’attuale, drammatica, crisi (vedi ciclo di Frenkel3) con cui strappare l’unione fiscale ed i massonici Stati Uniti d’Europa. Non può sopravvivere senza il trasferimento di risorse dal centro alla periferia: occorre cioè un Tesoro europeo che dirotti risorse dalla Germania, che inanella export e gettiti fiscali record anno dopo anno, verso la periferia, tra cui si annovera anche la Francia in rapido declino (l’esplosione dei debiti pubblici dal 2002 ad oggi, quello francese in primis, è dovuto al tentativo di frenare l’incessante impoverimento della popolazione).
La Germania però, sottoposta come il resto d’Europa alle ricette neo-malthusiane del precariato e dei mini-job, rifiuta di aprire i cordoni della borsa (nein alla “trasnfer-union”4) e di mutare lapropria economia mercantilista, lasciando crescere i salari a ritmo sostenuto così da ridurre l’export ed alleviare la svalutazione interna negli altri Paesi dell’eurozona. Così facendo, l’establishment tedesco (la Merkel è un discorso a sé stante) si attira le ire di Washington, per cui l’Unione Europea è il risvolto economico e politico della NATO, studiata, come disse il suo primo segretario generale, il barone Hastings Ismay, “per tenere fuori i russi, dentro gli americani e sotto i tedeschi”.
Prima lo scandalo Volkswagen e poi l’assalto speculativo a Deutsche Bank, seguito dalla recente richiesta del Dipartimento della Giustizia americana di sborsare 14 $mld per le vicende dei mutui spazzatura, sono tentativi statunitensi di riportare sotto controllo la Germania che, nonostante la guida Angela Merkel, si sta dimostrando sempre più assertiva.
Ferma restando l’ostilità tedesca alla “transfer union”, l’unica possibilità per rimandare il triste epilogo dell’euro, è l’allentamento quantitativo della BCE, lanciato nel marzo 2015 dall’ex-Goldman Sachs Mario Draghi e via via potenziato, grazie anche al sullodato scandalo Volkswagen che ha reso più malleabili i tedeschi, strenui oppositori di una politica monetaria troppo accomodante.
L’effetto dell’allentamento quantitativo, come facilmente prevedibile, è però quello di un pannicello caldo: l’euro si svaluta un po’ sul dollaro e sullo yuan, consentendo all’export europeo di rifiatare, ed i governi risparmiano un paio di miliardi annui pagati in interessi sul debito.
I problemi di competitività interni al sistema di cambi fissi, ossia la Germania verso tutti gli altri, non sono però risolti: non solo, la politica dei bassi tassi d’interesse erode nel medio termine la redditività delle banche europee (tra le principali preoccupazioni che assillano le casse di risparmio tedesche) che, a differenza delle concorrenti angloamericane, fanno ancora del prestare il denaro il nocciolo delle loro attività.
L’allentamento quantitativo della BCE non fa quindi che prolungare l’agonia dell’eurozona, ritardando, per riprendere la metafora con cui abbiamo aperto, l’arrivo dell’autunno meteorologico dell’eurocrisi, ossia il concreto sfaldarsi della moneta unica.
Ebbene, diversi segnali indicano che l’epilogo dell’eurocrisi è ormai imminente: esaurito il metadone di Mario Draghi, incombe ormai la dissoluzione dell’aria monetaria. Quali sono questi segnali? La quasi certezza che la seconda e la terza economia dell’eurozona, Francia ed Italia, si stiano dirigendo verso una nuova recessione, in condizioni fiscali e sociali così precarie da rendere inevitabile l’addio all’euro.
I dati statistici attestano che nel secondo trimestre del 2016 l’economia francese e quella italiane sono crescite (o meglio sarebbe dire “decresciute”) dello -0,1% e dello 0%: nessuno cambiamento macroeconomico è occorso negli ultimi mesi e diversi indicatori che anticipano l’andamento economico, come il Pmi manifatturiero (ad agosto in contrazione sia in Italia che in Francia) lasciano presagire un ulteriore peggioramento della situazione, tanto più che il contesto macroeconomico si sta annuvolando a livello globale e la sullodata Deutsche Bank stima che gli stessi Stati Uniti stiano già viaggiando verso una nuova recessione5.
Abituati all’immagine dell’Italia come pecora nera d’Europa, si potrebbe pensare che sia il nostro Paese, con un debito pubblico al 140% del PIL, una disoccupazione oltre l’11% e sofferenza bancarie record, a non poter reggere un’ulteriore contrazione dell’attività economica. In realtà, la Francia è persino in condizioni peggiori: la traiettoria del debito pubblico (vicino al 97% del PIL) è più allarmante di quella italiana, il deficit più alto (3,5% del PIL nel 2016), la bilancia commerciale, a differenza dell’Italia, in cronico e drammatico disavanzo (attorno ai 70 €mld annui), e la disoccupazione, nonostante i soliti maneggi statistici, si attesta anch’essa a livelli allarmanti, con 3,5 mln di persone in cerca di lavoro.
Le probabilità che Francia ed Italia resistano ad un’ennesima contrazione dell’economia rasentano la zero: non appena sarà la fase recessiva sarà conclamata, preverrà l’urgenza diabbondare l‘eurozona e riappropriarsi della leva monetaria, così da poter svalutare rispetto all’euro-marco, generare occupazione ed alimentare l’inflazione indispensabile per i profitti delle imprese e l’erosione dei debiti accumulati.
Non è un caso se la moneta unica sia sempre più spesso definita come “un esperimento fallito”, anche dai media e da blasonati premier Nobel: nei circoli che contano, la sua dissoluzione è ormai nell’ordine delle cose.
Resta da fare un ultimo sforzo analitico: come conciliare l’ormai imminente collasso dell’Unione Europea con le presidenziali americane?
Non c’è alcun dubbio che la vittoria di Donald Trump, il candidato “populista” che si è schierato ed ha esultato per la Brexit, accelererebbe il processo di disintegrazione dell’Unione Europea, propaggine di quell’ormai insostenibile impero americano che Trump vuole parzialmente smantellare, così da dirottare le risorse risparmiate verso l’economia interna.
Il discorso è, ovviamente, opposto con Hillary Clinton, esponente di quell’establishment anglofono, liberal e bancocentrico (vedi Council on Foreign Relations e Chatham House) che finanzia e supervisiona il progetto di integrazione europea sin dai tempi del conte Coudenhove-Kalergi: quest’establishment è congenitamente russofobo (l’antagonismo verso la Russia risale al Grande Gioco del XIX secolo) ed aborrisce qualsiasi integrazione tra Russia e l’Europa, considerata come una minaccia esiziale per gli interessi angloamericani.
Per personaggi come la Clinton l’Unione Europea è stata concepita, proprio come la NATO, “per tenere fuori i russi, dentro gli americani e sotto i tedeschi”. Nel caso di una vittoria della Clinton, quindi, la dissoluzione dell’Unione Europea ed il conseguente rischio di un avvicinamento tra Mosca ed una o più capitali europee, si inquadrerebbero nel più ampio muro contro muro con la Russia, di cui la candidata democratica è una convinta fautrice: uno scenario molto, molto, pericoloso.
Federico Dezzani
Twitter: @FedericoDezzani