M5S – Il partito non-partito della politica non-politica…

Malgrado la mia simpatia per i Cinque Stelle (“Grillo è contro l’Europa, ecco perché mi piace” su Social del 15 marzo 2013), ne avevo pronosticato da subito l’inadeguatezza rispetto al quadro complessivo della politica italiana (“Il fenomeno Grillo, una protesta che non riesce a diventare adulta” su Social del 19 aprile 2013). Perché? Perché – era la mia tesi di fondo – si trattava di una simpatica fazzolettata di amici, privi però di quello strumento – essenziale per chi voglia far politica – che si chiama “partito”.

Certo, gli inventori del “grillismo” avrebbero dovuto fare i salti mortali per creare un partito dall’oggi al domani, così di botto, praticamente dal nulla, con “dirigenti” la cui esperienza – in molti casi – si esauriva in qualche chiacchierata al Bar dello Sport; ed avrebbero avuto il loro bel daffare a far convivere sotto lo stesso tetto gli adepti provenienti dalla sinistra (talora la più estrema) e quelli (più numerosi di quanto non si pensi) provenienti dalla destra.

Per tutto questo (e forse anche per altro) le due levatrici del M5S – Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio – pensarono bene di evitare l’avventura del partito (o del gruppo istituzionalmente organizzato) e di ripiegare invece sull’invenzione della “democrazia del web”. Qualcuno negli ambienti “solitamente bene informati” ha imputato la genialata principalmente al compianto Casaleggio, che – per caso – era un abilissimo imprenditore informatico. Taluno ha anche ironizzato sul fatto che Casaleggio avesse il dente avvelenato con la politica “normale”, stante l’unica sua esperienza elettorale: sei voti di preferenza, nel 2004, alle elezioni amministrative del comune di Settimo Vittone. Taluno ha addirittura ipotizzato un suo concreto conflitto d’interessi, dal momento che il Casaleggio – imprenditore con cospicui interessi nel campo della comunicazione web – era venuto a trovarsi al vertice di un’influente forza politica.

Sia stato come sia stato, comunque, Grillo e Casaleggio diedero al Movimento Cinque Stelle – all’atto della sua fondazione nel 2009 – una precisa connotazione: quella di un partito non-partito, quella di un soggetto politico che aveva come unica bandiera l’anti-politica. Niente sezioni, congressi, primarie o comitati centrali, ma solamente uno spazio enorme che si voleva espressione di democrazia autentica: quello della “rete”, dove tutti avevano parità di diritti e dove tutti potevano liberamente esprimere la propria volontà con un semplice clic del mouse.

Sembrava l’uovo di Colombo: le liste si facevano in internet, le designazioni presidenziali idem; e così, anche, gli indirizzi sulle materie più importanti (per esempio, sull’immigrazione) venivano stabiliti con un casereccio plebiscito a colpi di mouse.

Teoricamente: la forma di democrazia più avanzata che si potesse concepire. Nei fatti: una palestra frequentata prevalentemente da giovincelli smanettoni e da peripatetici informatici, con esclusione dei nove decimi della popolazione. Ci fu chi divenne deputato o senatore soltanto mobilitando la parentela e facendola votare sul web, ci fu chi si ritrovò catapultato in parlamento senza sapere neanche dove stesse di casa la politica. E ci fu, naturalmente, l’inverso: gente seria, preparata; ma – fatalmente – per puro caso, per aver respirato aria di politica nella casa paterna (è il caso di un Di Battista), o anche soltanto per avere seguìto qualche telegiornale in più. Già, perché – per paura di ritrovarsi dentro qualche riciclato della venticinquesima ora – tutti i candidati dovevano essere rigorosamente “vergini”: la qualcosa, se ha evitato d’imbarcare profittatori e riciclati, ha impedito anche di acquisire personale politico con un minimo d’esperienza, fosse anche soltanto quella di semplice consigliere di quartiere.

La cosa aveva una sua logica: essendo gli spazi politici occupati bene o male da altri soggetti, il similpartito doveva puntare ad occupare uno spazio non presidiato, quello dell’anti-politica, del “non vado a votare perché sono tutti ladri”, del “fare politica è un mestiere per disonesti”, eccetera. Tutte cose che hanno un fondo di verità, ma solamente un fondo. Non è vero che sono tutti ladri, così come non è vero che sono tutti incompetenti. Si può semmai discutere sul perché molti elementi onesti e competenti vengano rigorosamente tenuti lontano dai gangli decisionali dei partiti; ma questa è un’altra storia.

Una formazione politica non può rifugiarsi nell’anti-politica: è una contraddizione in termini. D’altro canto, se è stata la politica a cacciarci in questi guai (l’Europa, la macelleria sociale, l’invasione migratoria), piaccia o non piaccia è soltanto la politica che può tirarcene fuori. Non può farlo certo l’anti-politica.

Grillo e compagni avrebbero dovuto puntare non sull’anti, ma piuttosto su una politica nuova (non solamente buona, cioè onesta). Dove il “nuova” non stia ad indicare soltanto qualcosa che viene dopo – alla Renzi – come se da ciò potesse automaticamente derivare il fatto di essere migliore della precedente. Ma dove il “nuova” indichi qualcosa di profondamente, di radicalmente diverso, di contrapposto alla rassegnazione, al buonismo masochista, al conformismo del “politicamente corretto” che ci hanno portati a questo punto.
L’anti-politica non serve a questo scopo, non serve a niente, serve soltanto al mugugno, al “piove, governo ladro”. Ciò che serve – mi ripeto – è la politica, nel senso più alto del termine. E serve un partito che sappia darle voce, non un non-partito.

Altrimenti, ci ritroveremo ancòra con qualche vaga fanciulla che si candida a Sindaco sol perché non ha rubato, o con qualche ragazzino che si candida alla Presidenza del Consiglio sol perché ha una faccia pulita e si esprime in corretto italiano. Un po’ poco per guidare l’Italia fuori dalla crisi più grave della sua storia.

Michele Rallo – ralmiche@gmail.com

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