Scienza fisica e “Teoria della percezione predittiva”
L’intera scienza fisica potrebbe essere ridenominata “Teoria della percezione predittiva”, e la relatività, prima geometrica (cioè solo spaziale), poi galileiana, infine einsteniana, “teoria delle percezioni comparate”.
Infatti nel loro lavoro i fisici (soggetto più reale e pregnante del comodo astratto convenzionale, ma logicamente poco consistente, “la fisica”), non descrivono alcun fenomeno “così com’è” (espressione in ultima analisi priva di senso) bensì così come lo percepiamo, unendo la percezione diretta a quella intermediata da strumenti materiali esterni, che svolgono la funzione di mediatori ed amplificatori di qualche facoltà percettiva umana. Mediatore è anche l’attività di riflessione mentale che elabora le informazioni, naturalmente.
Lo scopo che discrimina questa attività tra “scienza fisica” e no è la capacità predittiva, sicchè il lavoro del fisico alla fin fine si riduce a individuare gli errori pregressi, suoi e altrui, senza raggiungere altra certezza che “questa teoria è sbagliata poichè predice male, quest’altra va mantenuta, poichè fino ad oggi non vi abbiamo trovato discordanze tra le previsioni e le osservazioni svolte”, sempre sapendo che le discordanze potrebbero emergere domani o dopodomani, naturalmente.
Ma ogni teoria va confrontata con la nostra osservazione, ovvero percezione, dei fenomeni, che è fondamentalmente di genere elettromagnetico, e tale rimane anche attraverso l’impiego di estensioni esterne nella forma di strumenti ausiliari materiali (le apparecchiature).
Quindi noi percepiamo, in modo diretto e indiretto, e prevediamo, confrontando poi le previsioni con le percezioni successive, come filtro galileiano per mantenere o scartare le idee sviluppate.
L’intera relatività, invece, a partire da quella geometrica proiettiva, ci insegna a confrontare la percezione in coincidenza spaziale e temporale con quella che non lo è, imparando a confrontare cosa percepiamo dalla nostra posizione con ciò che percepiremmo se fossimo solidali, spazialmente e/o temporalmente, con l’osservato.
Ritengo, absit iniuria verbis, dunque ciò dicendo senza alcuna malevolenza, che i filosofi e gli appassionati di filosofia della scienza dovrebbero smettere di chiedersi quale realtà sia l’oggetto della fisica, poiché in ultima analisi quella realtà siamo noi stessi: che cosa percepiamo nella nostra esperienza e quanto i metodi della scienza fisica ci mettano in grado, attraverso forme di ordine logico, di prevedere riguardo le nostre percezioni future.
La “cosa in sé” di cui ci occupiamo è “noi stessi e la nostra percezione dell’esperienza, con speranza predittiva”.
Vincenzo Zamboni