USA. Tra Hillary e Donald la (finta) partita è aperta
Nella sostanza, tutti i presidenti degli Stati Uniti hanno sempre dovuto obbedire ai grandi capitalisti. Solo Franklin Delano Roosvelt fu in grado di imporre una politica di distribuzione della ricchezza, ma poté farlo grazie alle circostanze, perché dopo il crollo di borsa del ‘29 il capitale era stato messo con le spalle al muro, incapace di risollevare da sè le condizioni economiche.
Alcuni ricercatori sostengono vi furono complotti per eliminare Roosvelt, che vennero abbandonati a causa della sua enorme popolarità, testimoniata da ben quattro elezioni alla presidenza.
Tuttavia, anche Roosvelt dovette edere, alla fine, alla logia della guerra imperialista come fase risolutiva della crisi capitalista, poiché rimanendo entro il confine della valorizzazione e del modello di crescita continua tale è l’esito che prima o poi si produce.
Dopo di lui, J..F. Kennedy provò ad intraprendere nuovamente la strada di una politica economica redistributiva, ma fu eliminato appena cominciò ad intaccare gli enormi interessi della Fed (ordine 10001 per la emissione di biglietti di stato da parte del tesoro).
Una nuova circostanza nella quale il mondo politico statunitense avrebbe potuto mettere sotto controllo il grande capitale si era presentata nel 2007, quando il grande crollo bancario faceva dipendere l’intero sistema dalle decisioni politiche, e non viceversa: il sistema avrebbe potuto essere salvato dal governo imponendo in cambio condizioni di regolamentazione (a cominciare dal ripristino della separazione tra istituti di investimento e creditizi, come ai tempi della Glass-Steagall, che, abolita da Clinton, era stata introdotta proprio con Roosvelt) .
Ma il presidente e la politica non hanno voluto cogliere l’occasione propizia, preferendo un salvataggio senza condizioni, che ha posto il grande capitale nelle condizioni di riprendere a giocare d’azzardo senza doveri verso la società, e persino ancora più sfrontatamente, essendo aumentata la consapevolezza della propria impunità: too big to fail ha funzionato, quindi potrà funzionare ancora, questo in sintesi il ragionamento.
Obama si era presentato inizialmente come il regolatore che avrebbe messo sotto controllo lo strapotere finanziario, ed una volta eletto ha dovuto o voluto rinunciare.
Tutto questo ripropone il problema di sempre: la prossima scelta tra Trump e Clinton assomiglia a quella ipotetica tra Hitler ed Himmler, senza nulla che faccia presagire cambiamenti davvero significativi nella politica del paese.
A meno che 300 milioni di americani decidano davvero di affrontare una radicale cambiamento di cultura e priorità politiche ed economiche, producendo qualcosa di meglio di quella che Noam homsky definise “una poliarchia plutocratica”, e John Perkins “corporatocrazia”.
Noi possiamo stimolarli, ma solo loro possono decidersi a costruire il proprio cambiamento evolutivo.
Altrimenti vi saranno costretti, tardi e male, dalla forza degli eventi, con il procedere, lento ma inesorabile, del loro declino planetario, che farà progressivamente venir meno in modo sempre più evidente le falle irrisolvibili di una economia fondata sul dominio esterno.
Tutti gli imperi, prima o dopo, si trovano di fronte a questo schiacciante problema.
Vincenzo Zamboni
Articolo connesso: Hillary o Donald. Dalla padella alla brace – http://paolodarpini.blogspot.it/2016/02/usa-dalla-padella-trump-alla-brace.html
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Mio commentino: “Qualcuno ha paragonato questa tenzone elettorale, tra i due vecchi amici Hillary e Donald, al “gioco dei pupi” siciliani. I pupi si bastonano nel teatrino ma chi li muove già sa… come va a finire” (P.D’A.)