Voucher: sfruttamento avanzato del lavoratore
Bastano 10 euro lordi per comprare un’ora di prestazione. Niente controlli né verifiche. Il buono occupazionale è l’ultima frontiera dell’attacco al salario e ai diritti dei lavoratori.
In Italia il lavoro sempre più povero e meno tutelato ha un nome inglese: si chiama voucher. Con un voucher, cioè un buono, si “compra” la prestazione oraria di un lavoratore: 10 euro, comprensivi di assicurazione e versamento previdenziale. Basta un click: non ci sono controlli né limiti settoriali. E neanche, di fatto, limiti orari: giacché è impossibile verificare che il tempo lavorato sia effettivamente quello. Si compra, semplicemente, un’ora di lavoro, scardinando, così, l’idea complessa di regolazione dei rapporti tra datore di lavoro e lavoratore che si manifesta in un contratto, anche il più precario e instabile. Insomma: il voucher rappresenta la frontiera ultima dell’attacco al contratto di lavoro.
E questo aspetto, oltre a quello economico, spiega evidentemente il successo di questo strumento. Introdotto, ma di fatto mai utilizzato nel 2003, ha iniziato ad assumere una certa consistenza nel 2008: e dal 2008 è stata una corsa senza ostacoli. La prima impennata, non è un caso, si registra nel 2008-2009, anno di inizio della crisi, quando i buoni lavoro acquistati passano da 500.000 a 2,7 milioni. Da allora non si sono più fermati più. Da quell’anno sono stati venduti quasi 300 milioni di voucher per oltre 3 miliardi di euro. Solo dal 2013 al 2015 la percentuale di utilizzo è cresciuta del 311% e nel 2015 oltre 1 miliardo di euro sono stati pagati ai lavoratori in voucher per un totale di 115 milioni di buoni e con un incremento rispetto all’anno scorso del 66%. I primi dati del 2016 confermano il trend: a gennaio +36% rispetto allo stesso mese del 2015.
La crescita dei voucher non è frutto del caso, ma è stata possibile – e qui sta la grande responsabilità della politica – da una serie di leggi che lo hanno via via totalmente liberalizzato. Il buono nacque, infatti, nel 2003 per cercare di contenere il lavoro nero in casi davvero marginali e accessori (come vendemmie degli studenti, ripetizioni, lavoro domestico occasionale, piccoli lavori di giardinaggio, collaborazioni con associazioni di volontariato) e per un ristretto numero di prestatori d’opera (casalinghe, pensionati, studenti). Ma la sperimentazione partì solo nel 2008 durante il governo Berlusconi, che ampliò sia i comparti sia i destinatari (anche i percettori di prestazioni integrative del salario o con sostegno al reddito). “Un altro momento di svolta è la riforma Fornero del 2012 – come scrive Marta Fana su Rassegna Sindacale, che sancì la definitiva liberalizzazione dello strumento, estendendone l’applicazione a tutti i settori, anche se introdusse alcune restrizioni: il valore nominale dei buoni (pari a 10 euro) venne ancorato alla retribuzione oraria (fatto salvo per il settore agricolo) e venne introdotto il limite di 2.000 euro quale reddito annuo percepibile dal lavoratore da ogni singolo committente, se commerciante o professionista”. Infine, naturalmente, il Jobs Act, che ha alzato il tetto massimo di reddito annuo percepibile, che passa da 5.000 a 7.000 euro e ha confermato l’impossibilità di accedere, per chi viene pagato a voucher, alle misure di sostegno al reddito in caso di disoccupazione, malattia e maternità proprio perché il voucher non è, appunto, un contratto di lavoro. Adesso Poletti, di fronte a questa clamorosa evidenza, dice che il governo si appresta a mettere dei paletti: resta da vedere “se” e “come”.
Un colpo alla contrattazione
“Il voucher – conferma Gianluca De Angelis, ricercatore dell’Ires Emilia-Romagna – rappresenta la punta più avanzata di quella che possiamo considerare la crisi profonda del contratto di lavoro. Il datore di lavoro acquista un’ora di tempo del lavoratore, e in quell’ora quest’ultimo non può fare altro se non quello che gli dice il primo. I controlli sono difficilissimi, se non impossibili. Il gestore di un bar, ad esempio, potrebbe acquistare la prestazione per un’ora e far fare a quella persona qualsiasi cosa, al limite anche pulirgli casa”. Un altro aspetto interessante del voucher è che, di fatto, rappresenta la fissazione di una sorta di salario minimo legale non contrattato con i sindacati. “E questo, insieme ai mini jobs, – aggiunge il ricercatore – rientra in tutta quelle forme di attivazione sul mercato del lavoro che vediamo sperimentate nell’intero occidente economico e che ormai tanti studi, sia al di qua che al di là dell’oceano Atlantico, considerano come uno dei principali fattori di moltiplicazione della diseguaglianza tra i lavoratori”.
Storia di Riccardo, cassiere a voucher
Secondo l’Inps, i lavoratori pagati con i voucher lo scorso anno sono stati 1,4 milioni, mentre la Uil ne stima 1,7 milioni. L’importo medio annuo guadagnato da un lavoratore sarebbe – si tratta sempre di stime – di 633 euro.
di Stefano Iucci
Fonte: http://www.rassegna.it/articoli/voucher-il-lavoro-fatto-a-pezzi