Guerra di Libia. All’Italia conviene astenersi…
Premetto di non essere un pacifista. Sono un uomo pacifico, cosa completamente diversa. E penso che, quando sia necessario, le guerre vadano fatte, senza tentennamenti e senza inutili piagnistei.
Ciò premesso, il mio modesto parere è che questa nuova guerra libica non vada fatta. O, meglio, che vada fatta da altri, non dall’Italia. Mi rendo conto che tale posizione potrebbe apparire contraddittoria, ma così non è. E cercherò di spiegarlo.
Senza voler andare troppo indietro nel tempo, bisogna risalire almeno ai fatti che sono stati la causa diretta degli eventi odierni, e cioè a quella stupida guerra d’aggressione condotta contro la Libia di Gheddafi nel 2011. Una guerra voluta dal marito di Carla Bruni per cercare di soffiare all’Italia il ruolo di interlocutore privilegiato e di principale partner economico della Libia, a cominciare – naturalmente – dai commerci petroliferi. L’iniziativa del personaggino francese – va detto – non era isolata, ma andava a saldarsi con due vaste operazioni (più o meno sotterranee) che erano in atto sullo scacchiere internazionale: l’offensiva politica del fondamentalismo islamico sunnita contro i regimi arabi laici o sciiti, sostenuta dall’Arabia Saudita, dal Qatar e da altri potentati petroliferi del Medio Oriente; e l’agitazione delle “primavere arabe” che ufficialmente mirava a democratizzare i paesi dell’area, sostenuta dagli Stati Uniti e dai sodali inglesi e israeliani. In tale contesto, la megalomania del piccolo francese servì a cementare tutti quegli interessi. A spese, naturalmente, degli interessi italiani, che il Presidente del Consiglio del tempo – Silvio Berlusconi – non seppe difendere con adeguata energia; forse perché prigioniero di una certa cultura “occidentale” che vede negli americani i “buoni” e i “liberatori”. Certo, se al posto di Berlusconi ci fosse stato Bettino Craxi – il Craxi di Sigonella – le cose sarebbero andate diversamente; e almeno l’Italia non sarebbe stata compartecipe di una guerra contro i suoi stessi interessi. Altri tempi, comunque, e soprattutto altri uomini!
Va anche detto che, oltre a Sarkozy, l’infame guerra del 2011 ebbe un altro padrino, anzi un’altra madrina: Ilary Clinton, al tempo Segretario di Stato (cioè Ministro degli Esteri) degli USA. Fu lei – anche contro il parere del Pentagono – ad insistere con l’amletico Obama perché l’America intervenisse nel conflitto, oscurando l’iniziativa francese che – altrimenti – rischiava di precostituire una situazione penalizzante per gli interessi americani. Interessi petroliferi, certo. Ma anche interessi finanziari, legati alla gestione degli utili miliardari della vendita del petrolio.
Sembra adesso che l’imprevisto arrivo dell’ISIS (dovuto al precipitare della situazione in Siria a sèguito dell’intervento russo) abbia messo in discussione i piani per la divisione delle spoglie libiche, che – si sussurra negli ambienti “bene informati” – prevedevano in origine la spartizione del paese in almeno due tronconi politici (la Tripolitania agli amici di turchi e sauditi, e la Cirenaica a mezzadria fra anglo-francesi ed egiziani) e in tre settori economici: le finanze agli americani, il gas agli stessi americani e ai cugini inglesi, il petrolio ai francesi della Total. Niente – naturalmente – per l’Italia; cui, per di più, sarebbe spettato di sopportare il peso del flusso migratorio basato in Libia.
Tutto ciò – lo ripeto – fino all’arrivo in Libia dell’ISIS. Arrivo che ha sparigliato le carte della prevista spartizione e – sembra – certe aspettative di alcune grosse banche d’affari americane; prima fra tutte la Goldman Sachs. Goldman Sachs che ha un rapporto molto stretto con Ilary Clinton (rieccola!) promotrice dell’intervento del 2011 e – stando alle ultime primarie – possibile futura Presidente degli USA.
Da quel momento, tutto è cambiato; anche per l’Italia. Prima ci si lasciava cuocere nel nostro brodo, si sorrideva quando il Califfo minacciava di issare la bandiera nera sul Colosseo, si scrollavano le spalle quando un milione di “rifugiati” si preparavano ad invadere il nostro paese. La NATO, così pronta e solerte nel bombardare Gheddafi e “le milizie del regime”, volgeva pudicamente lo sguardo altrove, dalle parti dell’Ukraina, con un’occhiatina vogliosa anche sulla Siria; mentre il suo Segretario generale Rasmussen, appena lasciato l’incarico, veniva assunto con compensi da capogiro proprio dalla Goldman Sachs.
Improvvisamente, tutto è cambiato. E – aggiungo – per fortuna. Adesso gli Stati Uniti vogliono debellare l’ISIS in Libia, e la cosa non può che farmi piacere. Ciò che non mi fa piacere, invece, è che gli americani vogliano – come diciamo noi – “vedersela dal lastrico”. Vogliano, cioè, limitarsi a sganciare bombe e missili da prudente distanza, mandando a combattere sul serio, con truppe di terra, gli europei: in particolare – ma quanto sono generosi! – gli italiani. Tanto, gli italiani sono i primi a dire yes quando i padroni schioccano le dita, arrivando al punto – lo ricordavo prima – di fare una guerra praticamente contro se stessi. Il nostro “si” è dato per scontato, forse facendo affidamento anche sul carattere rodomontesco del nostro Presidente del Consiglio, il cui egocentrismo è stato sapientemente solleticato dall’offerta di fare – lui – il capo della coalizione di guerra.
Il Vispo Tereso – si vede a occhio nudo – non sta più nella pelle al pensiero di fare lo Schwarzkopf della situazione, sfoggia la mimetica e si muove a perfetto agio fra generali e blindati. Sembra una caricatura di Bush junior alla vigilia dell’invasione dell’Iraq.
L’impressione è che tutto sia già stato deciso. E, ad ogni buon conto, l’ambasciatore americano si incarica di ricordarcelo con la solita intervista al solito Corriere della Sera: l’Italia deve prendere “la guida dell’azione internazionale”, deve mandare 5.000 soldati in Libia, e deve schierarli nel settore di Tripoli (dove ha sede il governo dei fondamentalisti “moderati”). Sono sostanzialmente degli ordini, appena appena velati dal bon ton diplomatico.
Nei fatti, una trappola. Una trappola, perché gli americani butteranno le bombe e saranno liberi di andarsene quando meglio crederanno; mentre noi resteremo insabbiati nel deserto, nella parte del paese più ostica (e più povera di petrolio), facile bersaglio di una propaganda jihadista che ci additerà come i biechi colonialisti che sono tornati in Libia per continuare l’occupazione di cento e più anni fa. Una trappola, perché offriremo il destro all’ISIS per reagire, organizzando sul nostro territorio sanguinosi attentati in stile Bataclan.
Messo alle corde e conscio che questa volta non gli basteranno i voti di Verdini per decretare lo stato di guerra, il prode Renzi ha fatto mezzo passo indietro, dichiarando che l’Italia entrerà in guerra solo se a chiedercelo sarà il governo di unità nazionale che l’ONU sta tentando di far nascere dalla fusione di due governi fra loro nemici.
Ma è chiaramente un espediente per prendere tempo. Il famoso governo di unità nazionale in Libia non lo vuole nessuno, a iniziare proprio dai due governi di Tripoli e di Tobruck che dovrebbero fondersi, e continuando con le altre entità amministrate da vari e contrapposti clan militarizzati: i Dawn, i Toubou, i Tuareg, la miriade di tribù minori (un centinaio circa) e, naturalmente, l’ISIS e i suoi diversi concorrenti della galassia jihadista (Ansar al-Sharia, eccetera).
Il governo di unità nazionale, quindi, non si farà. E, se si farà, sarà a rischio di rapida implosione, e comunque sarà visto dai libici come un’imposizione arrogante degli stranieri. Qualora l’Italia dovesse intervenire su invito di un siffatto governo, non v’è dubbio che incontrerà sul posto un’ostilità ancora più forte e generalizzata.
Stando così le cose, non vedo perché ad intervenire sul terreno dovremmo essere proprio noi, e cioè coloro contro i cui interessi fu organizzata la sporca guerra del 2011. Quella guerra (causa diretta del caos odierno) l’hanno prodotta americani, inglesi e francesi. E a rimediare, oggi, devono essere loro; anche perché loro si spartiranno soldi e petrolio. Non si può chiedere a noi, proprio a noi, di andare a togliere le castagne dal fuoco per lor signori, e magari anche per un’acida signora che vuol fare la presidentessa.
Michele Rallo – ralmiche@gmail.com