Siria. Perché l’ISIS non è stato definitivamente sconfitto?
Partiamo dalle notizie dal fronte. Per la prima volta dalla ritirata del maggio 2015, l’esercito siriano è tornato a soli 2500 metri dalle rovine di Palmyra.
Appena affluiti i rinforzi per la 18a divisione corazzata, l’offensiva verso est ripartirà su larga scala con l’appoggio dei Liwa Suqour al-Sahra (i paramilitari dei Falchi del deserto) e delle Forze di Difesa Nazionale (addestrate dall’Iran). Fonti militari confermano che aerei russi continuano a martellare le auotocisterne che dall’area, carica di petrolio, fanno la spola con Raqqa.
A nord continua l’offensiva per ripulire Aleppo, dove tra l’altro è tornata l’erogazione dell’acqua dopo quasi tre mesi. Nel giro di un mese sono 50 i villaggi liberati dalle truppe di Damasco, ormai alle porte del Governatorato di Raqqa. I curdi dell’YPG intanto continuano a mettere in sicurezza il confine con la Turchia, di cui ormai solo il 10% sarebbe in mano a gruppi islamisti.
Da settembre lo Stato Islamico ha perso il 20% del territorio controllato. Da quando è iniziato l’appoggio aereo russo il bilancio del Califfato sui campi di battaglia è in rosso, con ritirare e fughe da un po’ tutti i fronti.
Ciononostante, come segnaliamo da settimane, l’ISIS mostra ancora una buona vitalità sia sul piano “amministrativo” che su quello militare.
Le ragioni di questa capacità, nonostante sulla carta tutto il mondo gli faccia la guerra, sono essenzialmente tre:
Innanzitutto, come scriviamo da mesi, il rifornimento di uomini e materiali dall’estero procede indisturbato. Da quando nel 2011 qualcuno decise di distribuire le armi degli ex arsenali di Gheddafi ai cosiddetti ”ribelli moderati” siriani, l’afflusso è continuato senza sosta per due vie: attraverso il confine turco-siriano ancora controllato dai “ribelli” e dal deserto iracheno a ovest di Ramadi, in mano allo Stato Islamico e vicino alla frontiera saudita. Il confine siro-giordano regge, ma è evidente che finché la continuità territoriale del Califfato fra Iraq e Siria e fra Siria e Turchia non sarà interrotta, la guerra non avrà fine. La nostra valutazione è prettamente logistica. È elementare supporre che un semplice ordine politico chiuderebbe la partita con lo Stato Islamico nel giro di un mese.
Un secondo fattore di grande aiuto per i terroristi è l’”aspetto umanitario” della guerra. Le città occupate dall’ISIS diventano automaticamente ostaggio dei miliziani, rallentando i raid aerei e la bonifica dei governativi. Vale soprattutto per i grandi centri urbani, come l’area metropolitana a sud di Damasco e i sobborghi della “Grande Aleppo”. L’azione delle organizzazioni umanitarie in Siria, sulla cui buona fede ci sarebbe molto da dire, minimizzano questo dato sbrigandosi viceversa a sottolineare ogni colpo di fionda tirato dalle forze lealiste. Oggi in Siria milioni di persone sono di fatto scudi umani di fondamentalisti islamici. Nessuno ne parla.
Ultimo ma non meno importante dato è la preparazione dei miliziani del Califfato, spesso veterani di grande esperienza. Oltre ai foreign fighters prestati da altre jihad (i ceceni per esempio), ci riferiamo in particolare ai combattenti iracheni, frutto dell’invasione del 2003. Tra i tanti errori commessi nella campagna d’Iraq (oltre alla campagna stessa…) va evidenziata la dissoluzione delle Forze Armate irachene, della polizia e soprattutto del partito Baath, spina dorsale dell’amministrazione di Saddam Hussein. Il potere a Baghdad, in un clima tribal-patriottico-socialista, si era retto per un quarto di secolo sulla supremazia sunnita del clan di Tikrit, in un Paese però a maggioranza sciita. Il conflitto tra il regime baathista e le due altre principali anime del Paese, curdi e arabi sciiti, è stato strisciante per tutta la parabola di Saddam. L’invasione del 2003 ha rotto gli equilibri scatenando un regolamento di conti generale.
Con le dovute differenze, in Siria per anni le cose sono andate in modo speculare. Il cuore del potere baathista è sempre stato sciita-alauita con un delicato gioco di pesi politici fra minoranze etniche e confessionali.
Il soqquadro iracheno ha generato l’unificazione del conflitto interislamico e interarabo: in soccorso dei fratelli sciiti sono arrivati i libanesi di Hezbollah e gli iraniani; ai sunniti della jihaddel Califfato si sono aggiunti gli ex baathisti iracheni sunniti, senza più bandiera ma con un’ottima preparazione militare. Molti di loro sono ufficiali delle ex forze armate di Baghdad con almeno due guerre alle spalle.
In sostanza oggi in Siria si sparano contro le due ali distinte del partito Baath (una siriana e una irachena) con i curdi, nemici storici dei sunniti di Baghdad, dalla parte del governo fino a prova contraria legittimo di Damasco.
Il papocchio è frutto di un disegno più o meno deliberato di “riassetto” dell’intero Medio Oriente. Due realtà statuali storiche come Siria e Iraq sono state scardinate e i pezzi dei loro sistemi di potere si trovano oggi in guerra.
Sotto questo profilo l’intervento russo non era previsto e consentendo a Damasco di sopravvivere, ha cambiato le carte in tavola: il processo di dissoluzione della Siria, parallelo allo smembramento di fatto dell’Iraq, si è interrotto. O almeno così sarà se l’andamento della guerra continuasse come negli ultimi mesi.
In attesa del riversamento di molti fondamentalisti in altri scenari (Libia su tutti), chi ha armato e tollerato lo Stato Islamico fra Iraq e Siria, dovrà rivedere in ogni caso i suoi piani per il Medio Oriente.
di Giampiero Venturi
Difesaonline – 5 marzo 2016