COME SI DISTRUGGE – O SI SALVA – UNA DELLE PIU’ IMPORTANTI AGRICOLTURE EUROPEE

“Todo pasa y todo queda, …pero lo nuestro es pasar, pasar haciendo caminos, …. caminante, no hay camino se hace camino al andar. …se oy la voz de un poeta gritar” (Antonio Machado)

L’industria agroalimentare è il secondo settore manifatturiero nazionale: produce il 13% dell’intero fatturato del settore manifatturiero italiano, per un ammontare di 132 miliardi di euro nel 2013, occupa 405.000 addetti, e ha esportato nel 2013 per un valore di 27,4 miliardi di euro. In Italia il processo di produzione e distribuzione di prodotti agroalimentari coinvolge il 13,2% degli occupati della nostra economia. Il settore agroalimentare italiano 4 (composto da aziende agricole, imprese di trasformazione alimentare, grossisti, grandi superfici distributive, piccoli negozi al dettaglio ed operatori della ristorazione) rappresenta l’8,7% del PIL (ossia 119 miliardi di euro). 4 agroalimentare, sistema. L’insieme delle attività di produzione agricola, trasformazione industriale, distribuzione e consumo di prodotti alimentari. A sua volta, tale insieme fa parte di un sistema più esteso, denominato agroindustriale, in cui a valle della produzione agricola si situano le attività di trasformazione dei prodotti agricoli, mentre a monte operano le industrie che forniscono mezzi tecnici (macchine agricole, prodotti chimici ecc.) e le istituzioni che erogano servizi. L’insieme di questi processi viene indicato anche con l’espressione “agribusiness” Nel sistema agroalimentare tende a decrescere la componente agricola, mentre assume un peso sempre maggiore il settore distributivo. http://www.treccani.it/enciclopedia/sistema-agroalimentare/ 10 | P a g e Se si considera anche l’indotto generato (vale a dire servizi essenziali quali trasporto, packaging, logistica, energia, mezzi strumentali, servizi di comunicazione e promozione), il settore agroalimentare arriva a rappresentare fino al 13,9% del PIL italiano, in tendenziale crescita dal 2008 ad oggi. Il settore agroalimentare ha un rilevanza socio-economica tale da essere considerato un asset strategico per l’economia del nostro Paese. (fonte: Business Analysis- UBI Banca). “…Le dimensioni aziendali del settore in Italia sono minori di quelle rilevate nei principali Paesi europei. La debolezza strutturale derivante da dimensioni molto ridotte trova riflesso nel fatto che le imprese dell’industria alimentare si appropriano di una quota bassa del valore aggiunto prodotto dall’intera filiera agroalimentare. Nel 2011 (ultimo dato disponibile) fatto 100 il valore totale del valore aggiunto prodotto dall’intera filiera agroalimentare, la quota relativa all’industria alimentare era pari solo al 10,3%. Inoltre questa quota è diminuita nel 2011 (ultimo dato disponibile) rispetto al livello registrato nel 2008 ed è molto probabile che si sia verificato un calo ulteriore nel corso degli ultimi tre anni…” (Fonte: Settore Alimentari & Bevande Business Analysis) Le analisi presentate dalle industrie alimentari, mescolando quelle artigianali di piccolissima dimensione con le grandissime, fanno continuo riferimento allo strapotere della GDO. Sarebbe interessante vedere se le grandi industrie alimentari subiscono lo stesso taglio del valore a favore della GDO.

E’ ipotizzabile che la grande industria – che indica comunque nel calo della domanda il suo maggior problema – e la GDO abbiano reagito esattamente alla stessa maniere: tagliando i prezzi pagati al cancello delle aziende agricole per compensare il calo dei consumi alimentari. Comunque, nell’analisi di UBI Bank sopra citata si sostiene che “… La quota di valore aggiunto delle imprese italiane dell’industria alimentare e delle bevande è molto inferiore a quella delle imprese tedesche e francesi…” Sempre nei documenti “Settore Alimentari & Bevande – Business Analysis” citato si sostiene che “…per le imprese del settore di dimensioni maggiori la finanza non costituisce in genere un ostacolo per lo sviluppo dei piani aziendali. Esse dispongono di risorse sufficienti per finanziare sia i programmi di investimento per l’internazionalizzazione che per l’eventuale crescita per linee esterne. In molti casi, infatti, le imprese maggiori del settore godono di un’elevata capacità di generazione di liquidità che potrebbe consentire di aumentare i livelli di indebitamento rispetto a quelli correnti, sempre allo scopo di finanziare i programmi di espansione, sia organici che per linee esterne…”. Sono queste imprese che vedono la loro espansione proiettata sui mercati internazionali, espansione limitata solo dagli alti costi d’ingresso (marketing, standard dei prodotti, etc) nei mercati globali (cfr. Dichiarazione di M. Renzi per il sostegno all’export agroalimentare) mentre le imprese di piccole dimensioni, “che hanno nel mercato interno il loro mercato di ferimento”, debbono lottare per mantenere le quote di mercato di cui possono godere. La tabella che segue illustra la situazione di quello che statisticamente è considerato il settore agroalimentare. 11 | P a g e Fonte: Roberto Gismondi – Marcello D’Orazio – Alfredo Cirianni (ISTAT, 2015) 12 | P a g e Fonte: Roberto Gismondi – Marcello D’Orazio – Alfredo Cirianni (ISTAT, 2015) Non confondere capre e cavoli. L’enorme eterogeneità delle industrie alimentare e, ancor più, dell’insieme delle attività industriali compresi in questo settore non rende facile la comprensione delle strategie dell’industria agroalimentare poiché il peso specifico delle singole impresa determina il loro potere di mercato, compreso il mercato delle politiche pubbliche. Metteremo in evidenza le imprese di grade dimensione, quelle con oltre 250 addetti, perché queste hanno un dominio sul comparto e strategie specifiche. Distribuzione delle imprese agroalimentari con più di 250 addetti. Come si vede nella mappa che segue queste sono concentrate solo in alcune regioni italiane. Ed anche la concentrazione delle Unità Locali di lavoro segue lo stesso tipo di concentrazione. 13 | P a g e Fonte: ISTAT, Elaborazioni: Territori Digitali. NB: la localizzazione in queste mappe è georeferenziata 14 | P a g e Fonte: ISTAT, Elaborazioni: Territori Digitali 15 | P a g e Fonte: ISTAT, Elaborazioni: Territori Digitali 16 | P a g e Non sorprende di certo, come ben mostrato dalle mappa precedenti, che anche gli addetti siano concentrati in pochissime regioni. Sorprende la totale assenza di imprese con oltre 250 addetti in grandi regioni agricole come la Puglia, la Sicilia, la Calabria. Imprese con oltre 250 addetti REGIONI UNITA’ ADDETTI PIEMONTE 11 6.777 LOMBARDIA 54 12.761 VENETO 16 5.572 EMILIA ROMAGNA 47 8.984 Le schematiche grafiche presentate poco sopra confermano (fonte: ISTAT, censimento industria 2011) l’ enorme concentrazione delle imprese agroalimentari di grande dimensione in due regioni , Lombardia ed Emilia Romagna, dove inoltre si sono concentrati i premi PAC negli ultimi 50 anni. Il legame diretto tra PAC e sostegno allo sviluppo dell’agrobussiness non ha certo bisogno di altre prove. Entrando nel dettaglio dei singoli comparti più rilevanti di questo settore industriale.

Chi sono le grandi imprese agroalimentari italiane? Il fatturato delle principali 20 imprese alimentari presenti in Italia. Anno 2011 (Fonte: elaborazioni su dati Mediobanca, da : http://www.biotekengineering.com/company/il-fatturato-delleprincipali-imprese-alimentari-in-italia-anno-2011/ Le principali imprese alimentari presenti in Italia – 2011 Fatturato (milioni di euro) Var. % 2011/10 Occupati Attività prevalente 1 Veronesi Holding* 1 2. 579 11,2 7 043 mangimi e carni 2 Ferrero Spa(gruppo Ferrero) 2. 502 7,0 5 938 dolciario 3 Barilla G. e R. Fratelli Spa (gruppo Barilla Holding) 2. 301 2,4 4 210 pasta 4 Gesco Consorzio Cooperativo Scarl (gruppo Amadori) 1. 269 12,5 545 carni 5 Nestlè Italiana Spa (gruppo Nestlè Italiana) 1 .237 10,4 3 407 dolciario 6 Coca Cola Hbc Italia Srl 1. 148 0,2 3 098 bevande analcoliche 7 BIG Srl (Gruppo Lactalis Italia) 1. 094 4,9 1 115 lattiero-caseario 8 Luigi Lavazza Spa (gruppo Luigi Lavazza) 1. 078 9,5 1 606 caffè 22 | P a g e 9 Kraft Foods Italia Spa (gruppo Kraft Foods Italia Intellectual Property) 970 21,7 392 lattiero -caseario 10 Egidio Galbani Spa (gruppo Lactalis Italia) 895 7,2 1 841 lattiero -caseario 11 Parmalat Spa (gruppo Parmalat) 821 0,1 1 630 lattiero -caseario 12 Granarolo Spa (gruppo Granarolo) 787 3,3 1 179 lattiero -caseario 13 SanPellegrino Spa 2 (gruppo SanPellegrino) 707 1,9 1 547 bevande analcoliche 14 Conserve Italia Scrl (gruppo Conserve Italia) 652 -0,9 1 984 conserve vegetali 15 Heineken Italia Spa 638 3,1 926 birra 16 Acqua Minerale San Benedetto Spa (gruppo Zoppas Finanziaria) 615 8,5 1 070 acque minerali 17 Carapelli Firenze Spa 588 -3,1 314 oli e grassi 18 Bolton Alimentari Spa (gruppo Bolton Alimentari; ex Trinity) 558 5,4 625 conserve ittiche 19 Davide Campari Milano Spa (gruppo Davide Campari) 545 10,4 637 bevande alcoliche 23 | P a g e 20 Bunge Italia – Spa 530 -21,7 190 oli e grassi L’industria alimentare europea Le grandi “imprese italiane” esistono in un contesto particolare, quello europeo.

Vale la pena di ricordare ancora una volta che “..il mercato interno dell’Unione europea, rappresenta la più grande area commerciale di prodotti alimentari al mondo, con circa 500 milioni di persone e una spesa per consumi alimentari delle famiglie che superano i 1.000 miliardi di euro, in cui molti paesi hanno ancora livelli di consumi alimentari delle famiglie superiori al 20% del totale. I processi di crescita demografica e l’urbanizzazione, ancora in atto in molti paesi, alimentano e sostengono la domanda alimentare europea, in cui un ruolo rilevante è giocato dai prodotti trasformati…” (AAVV) Scrive il prof. R. Fanfani, (5 Febbraio 2015): “Il sistema agroalimentare italiano è integrato e gioca un ruolo importante a livello europeo, dove lo accomunano da decenni un Mercato comune agricolo, attuato attraverso la Politica agricola comune (PAC) e più recentemente, a partire dal 1992, la realizzazione del Mercato unico, …” . Il complesso di queste componenti, che a livello europeo viene considerato l’ambito della “bioeconomia”, viene stimato (2011) in poco meno di 400 miliardi dell’agricoltura (compresa pesca e foreste) e oltre 1.000 miliardi per l’industria alimentare, mentre la distribuzione nel complesso supera i 2.200 miliardi di euro. L’importanza in termini di valore aggiunto, delle diverse componenti della catena alimentare cambia sostanzialmente di poco inferiore a 660 miliardi di euro, di cui poco più di 200 miliardi, sia per l’agricoltura che per l’industria alimentare, mentre la distribuzione al dettaglio supera i 150 miliardi, contro poco più di 90 miliardi della distribuzione all’ingrosso. I livelli occupazionali raggiungono i 24 milioni di attivi, in cui predominano i quasi 12 milioni del settore agricolo, contro i 4,2 milioni dell’industria alimentare ed i 6 milioni della distribuzione al dettaglio. ..” Il prof Fanfani mette in evidenza un elemento molto rilevante, “ … I livelli di produttività delle diverse componenti della bioeconomia risultano però profondamente diversi in termini di valore aggiunto per addetto, ma anche per i livelli di fatturato per impresa….”, emerge quindi la polarizzazione tra giganti dell’agroalimentare “le grandi imprese (oltre 250 addetti) caratterizza l’industria alimentare europea, con oltre il 50% del valore aggiunto ed il 35% dell’occupazione totale e la presenza di multinazionali…”, e miriadi di PMI. Elemento questo non trascurabile perché potrebbe favorire una riconversione verso il basso attraverso una strategia di collaborazione tra movimento contadino, sindacato operaio e PMI che, di norma hanno un carattere non accentrato. Infatti, scrive sempre il prof. Fanfani “…A livello europeo l’industria alimentare e delle bevande si caratterizza per la presenza rilevante delle piccole e medie imprese che contribuiscono a oltre il 51% del fatturato e quasi il 65% dell’occupazione totale. La struttura delle PIM europee si caratterizza per una grande frammentazione per quanto riguarda le diverse tipologie presenti, ma anche per un diverso grado di produttività e contributo alla realtà l’industria alimentare e delle bevande europea. Infatti, in termini numerici prevalgono le “micro imprese” (con meno di 10 occupati, pari al 79% del totale ), ma la cui rilevanza in termini economici scende a poco più dell’8% del fatturato e valore aggiunto, anche se rappresentato il 16% dell’occupazione…”. Resto convinto che questa struttura delle imprese agroalimentari europee, ma anche italiane, possa essere un’opportunità’ per l’economia contadina.

Il mito dell’ export come motore dell’ agricoltura italiana Organizzazioni professionali e di produttori, politici e responsabili governativi, istituti specializzati hanno costruito nel tempo, in particolare in periodo di crisi dei consumi alimentari interni, un immaginario unanime per sostenere il “made in italy” e le fortune salvifiche dell’export agroalimentare come via di uscita dalla crisi agricola e non solo. Si legge sul Rapporto “AgrOsserva” dell’ Osservatorio Ismea-Unioncamere sulla congiuntura dell’agroalimentare italiano (2015, II trimestre) : “…Dall’export ancora una spinta decisiva per l’agroalimentare italiano. Ma i consumi delle famiglie, dopo un avvio d’anno positivo, cedono il passo (-0,2%)… la debolezza della domanda interna sta avendo marcati riflessi sull’industria alimentare, le cui vendite dipendono per tre quarti ancora dal mercato domestico….Ancora sostenute dal deprezzamento dell’euro, le esportazioni dei prodotti agroalimentari italiani migliorano invece la perfomance già positiva dei mesi precedenti, con un solido più 7,1% nei primi 5 mesi dell’anno….

Da segnalare il contributo particolarmente positivo dell’agricoltura che avanza all’estero dell’11,8% a fronte di un incremento più contenuto dell’industria alimentare (+6%)…” Questi dati sono riferiti, però, al confronto con il 2014 che si era chiuso con un meno 1,65% sul 2013 per l’export del settore primario (in cui il settore primario per uso alimentare riportava un meno 1,54 %) e con un più 0,69 per le importazioni ma con un più 1,63% per l’importazione di prodotti per uso alimentare del settore primario. Per l’industria agroalimentare, il 2014 si era chiuso con un più 2,89% sul 2013 per l’export, mentre le importazione avevano realizzato una crescita del 4,38% sul 2013 (Federalimentare Servizi srl )

L’industria agroalimentare italiana ha molte caratteristiche, decantate dalla mitologia del made in Italy, tra cui quella di essere effettivamente poco “italiana”. Sulle 114 grandi Industrie alimentari, delle bevande e del tabacco (con oltre 250 addetti, cfr. mappe presentate precedentemente) nel nostro paese (ISTAT, 2015), 27 sono a controllo estero (“multinazionali”) e 87 sono a controllo nazionale. Le multinazionali nell’agroalimentare, pur rappresentando solo lo 0,3% dell’imprese (183 in totale, comprese quelle di dimensione più ridotta), realizzano il 14 % del fatturato totale, il 14,2% del valore, il 17,3 % degli investimenti in ricerca ed innovazione ed occupano 30.600 addetti (ISTAT, 2013), pari al 7,1% degli addetti. Nel 2013 hanno fatturato circa 18 miliardi di euro. I loro scambi all’interno dello stesso gruppo rappresentano il 71,8% dell’export totale delle Industrie alimentari, delle bevande e del tabacco “italiane” (ISTAT, anno 2013). Forse qui è celata la performance delle esportazioni agroalimentari italiane? Sostenere l’export agroalimentare rafforzerà le multinazionali del settore presumibilmente a scapito della PMI italiana ancora esistente. Vediamo, allora, quali sono le multinazionali estere nell’agroalimentare italiano. Le multinazionali estere in Italia Fonte: ISTAT – Rilevazione sulle attività delle imprese a controllo estero residenti in Italia; Rilevazione sul sistema dei conti delle imprese; Frame SBS integrato con la rilevazione sulle piccole e medie imprese e sull’esercizio di arti e professioni; Indagine sulla ricerca scientifica e lo sviluppo sperimentale, Cessioni e acquisti di beni nell’ambito dei paesi Ue; Commercio speciale export/import extra Ue. 30 | P a g e Questo e’il quadro attuale della presenza delle multinazionali estere nelle imprese in Italia, secondo i paesi di residenza dell’ultimo controllante e in ordine di quota di valore aggiunto.

Anche la Coldiretti se ne occupa e scrive: “..I grandi gruppi multinazionali ….investono invece nell’agroalimentare nazionale perché, nonostante il crollo storico dei consumi interni, fa segnare il record nelle esportazioni grazie – conclude la Coldiretti – all’immagine conquistata con i primati nella sicurezza, nella tipicità e nella qualità…” (CCDD. 25 marzo 2015) Allora le povere imprese italiane si fanno mangiare dalle cattive multinazionali? Che cosa è il “made in Italy” fatto da imprese che debbono produrre secondo “private standard” adeguati al mercato globale? Qual è la differenza fra un “falso” prosciutto italiano fabbricato in Canada e un “vero” prosciutto dal nome italiano fabbricato da una multinazionale per il mercato globale? In questo panorama a mio giudizio sembra ancor più grave della “non italianità” di un’impresa o di un prosciutto made in Italy l’arrivo importante dei fondi d’investimento nel capitali delle industrie agroalimentari del nostro paese. Vale la pena di riportare brani e tabelle di un ben documentato articolo dal titolo “Le aziende vendono o si aprono alla finanza per crescere ed esportare. Ecco tutte le operazioni” di Fabrizio Patti (24 Febbraio 2015 – 13:45 – http://www.linkiesta.it/it/article/2015/02/24/la-finanza-ora-si-mangia-il-cibo-italiano/24813/) “.. Tra il 2012 ed il 2015 sono 24 ingressi di fondi di investimento (italiani e stranieri) e 20 acquisizioni da parte di operatori stranieri. Tra le prime la più nota è l’acquisizione del 20% della catena di negozi di “alti cibi” Eataly (fondata da Oscar Farinetti) da parte di “Clubitaly S.r.l.”, un fondo guidato da Tamburi Investment Partners. …. Ma c’è anche l’investimento nel capitale di Inalca (l’azienda del gruppo Cremonini che lavora le carni) da parte di IQ Made in Italy Investment Company, una joint venture tra il Fondo Strategico Italiano (di Cassa depositi e prestiti) e Qatar Holding, ….

Ha fatto parlare anche l’acquisizione, in questo caso per l’80% del capitale, di Nuova Castelli, uno dei primi operatori del Parmigiano Reggiano, da parte dell’inglese Charterhouse Capital Partners: con 300 milioni è stato l’intervento maggiore degli ultimi anni nel comparto. …, gli investimenti della famiglia Benetton nel vino (attraverso 21 Investimenti), quelli della famiglia Marzotto nella celebre gastronomia milanese Peck. …Tra gli operatori industriali stranieri, tra le acquisizioni basta fare tre nomi: Riso Scotti (dove però la quota si ferma al 25%), Pernigotti e la Pasta Garofalo di Gragnano. … «I numeri delle acquisizioni sono importanti e sono destinati a mantenersi su livelli elevati anche in futuro – dice Manuela Geranio, ricercatrice del Dipartimento di Finanza dell’Università in Bocconi -. …”…., un’altra è Nuova Castelli, acquisita da un private equity internazionale…” Secondo alcuni «Il settore agroalimentare non è compatibile con i tempi dei fondi di investimento intesi all’anglosassone, che hanno rendimenti attesi a due cifre, se non al 30% – commenta Carlo Piana, head of corporate credit risks presso Crédit Agricole, la banca che in Italia controlla Cariparma, nel cuore della “food valley” italiana, Friuladria e Carispezia -. Noi come Crédit Agricole pensiamo di restare nelle aziende target nel medio-lungo termine, circa 8-10 anni. Io, che vengo da una famiglia di agricoltori, non credo nei ritorni rapidi, anche perché le aziende agroalimentari in cui entrano i fondi sono spesso mature. In questo caso più che private equity bisognerebbe chiamarlo capitale di sviluppo».

CONCLUSIONI. – Le risorse e le politiche pubbliche messe a disposizione del sostegno all’esportazioni agroalimentari italiani saranno a vantaggio di imprese multinazionali, imprese di grandi dimensione e dei fondi di investimento che stanno accaparrandosi queste imprese, visto che il sistema bancario non le sostiene. Quanto è diversa una grande impresa “italiana” da una multinazionale? – L’arrivo dei fondi d’investimento nel settore agroalimentare rende le imprese più fragili, i fondi operano nel breve termine ed alla ricerca di rapidi e crescenti profitti pronti ad abbandonare l’impresa se le cose non vanno secondo le loro aspettative. Questo aumenterà la pressione verso il basso dei prezzi pagati alla produzione agricola. Va ricordato anche che i fondi di investimento possono anche speculare al ribasso; – L’industria agroalimentare italiana, non più italiana è caratterizzata da un piccolo numero di imprese di grandissima dimensione concentrate in due regioni, spesso hanno capacità finanziarie e liquidità necessarie a competere sul mercato mondiale. Perché il governo intende finanziarle? – La dispersione su tutto il territorio nazionale di una miriade di piccole e piccolissime imprese agroalimentari può essere una risorsa per l’economia dell’agricoltura contadina? – Le imprese alimentari e l’indotto occupano circa 400.000 addetti: possiamo ignorare questa realtà? Gli operai non sono solo consumatori. E’ possibile un dialogo con il movimento contadino? – Malgrado le politiche di contrasto messe in campo dal governo e dalle organizzazioni di rappresentanza, l’agricoltura contadina resiste in termini di aziende, addetti e giornate di lavoro. La necessità crescente di identificare sbocchi economici capaci di assicurare una remunerazione al lavoro che permetta una vita degna ai contadini ci obbliga a cogliere le opportunità che la crisi 38 | P a g e attuale può offrirci (riorganizzazione della GDO, crisi della rappresentanza, crisi ecologica, etc) e discuterne tra organizzazioni locali per ottenere cambiamenti radicali del quadro normativo e delle politiche, almeno a livello locale (Regioni e comuni). – La rappresentanza e la capacità di organizzarsi autonomamente del movimento contadino in Italia. Un problema non più rinviabile. “…questi uomini non vivono più per la lotta delle classi, non sentono più le stesse passioni, gli stessi desideri e le stesse speranze delle masse: tra loro e le masse si è scavato un incolmabile abisso, l’unico contatto tra loro e le masse è il registro dei conti e lo schedario dei soci. ..Questi uomini non vedono più il nemico nella borghesia, lo vedono nei comunisti; hanno paura della concorrenza, sono capi divenuti banchieri di uomini in regime di monopolio, ed il minimo accenno di una concorrenza li rende folli di terrore e di disperazione…”. (da “Funzionarismo” di Antonio Gramsci) Antonio Gramsci attacca la CGL dichiarando la propria delusione e la propria rabbia in un articolo dal titolo “funzionarismo” che analizza con spietatezza la degenerazione dei gruppi dirigenti del sindacato ed il loro distacco dalle masse.

Antonio Onorati – STRALCIO DELLA RELAZIONE ASSEMBLEA ARI – 2016

Di questi temi se ne parlerà durante il Forum del lavoro bioregionale sostenibile e successiva Festa dei Precursori che si tengono a Treia dal 23 al 25 aprile 2016: https://circolovegetarianotreia.wordpress.com/2016/02/21/invito-di-partecipazione-al-forum-sul-lavoro-bioregionale-sostenibile-previsto-a-treia-il-23-aprile-2016-con-approfondimenti-il-24-ed-il-25-aprile/

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