Unità d’Italia – Giuseppe Garibaldi non fu quel che la storia dice…

Il 5 maggio del 1860, un’accozzaglia di 1162 straccioni, al comando di Giuseppe Garibaldi, che Cavour aveva coinvolto al solo scopo di disfarsene, s’imbarca, senza munizioni né polvere da sparo, sui vapori Piemonte e Lombardo alla volta di Marsala, dove sbarcano l’11 di maggio. All’alba di questo infausto giorno, sarebbero bastate due “palle” di cannone e, noi non saremmo qui a discutere, mentre i Savoia avrebbero “pianto” i 1089 straccioni in rosso (se ne erano persi alcuni strada facendo). Mercé i tradimenti e le inettitudini dell’esercito borbonico e dei suoi ufficiali, senza tirarla per le lunghe, il futuro eroe dei due mondi, il giorno 7 settembre 1861 fa il suo “trionfale” ingresso in Napoli. Mette conto, vista la solennità dell’evento, lasciare la parola a ben più erudite e geniali menti:
Era la sera del 27 giugno del 1860, Don Liborio mi fece uscire dal gabbio e mi disse: – Tore, fra giorni qui a Napoli arriverà Giuseppe Galibardo, deve trovare una città pulita ed ordinata. Io vi metto a libertà e vi nomino responsabile della pubblica sicurezza. Voi dovete ripulire la città dai delinquenti. Ve la sentite? – Io risposi di si, mi misi una coccarda tricolore sul cappello e cominciai il mio nuovo lavoro. Con Iossa, Capuano e Mele facemmo piazza pulita. Facemmo fuori, a pugnalate, Peppe Aversano, quello era un fetentone, un infame spia del direttore della polizia Michele Ajossa, si meritava quello e pure altro. Quindi ce facettemo all’ ispettore della Polizia Perrelli. Veramente non fui io, ma Ferdinando Mele che gli tirò qualche coltellate mentre l’ispettore si trovava semi svenuto su una carretta. Infine, facemmo ‘na bella mazziata all’ ispettore Cioffi, che a stento salvò la pelle. La cosa più bella, però, fu la mazziata che si buscò l’ambasciatore francese, un certo Anatole Brenier. Neh, quello si atteggiò pure: sono l’ambasciatore francese. Ah, si e tiè. Due colpi di bastone in testa e la mmommora si aprì in due parti. Se non era per Ciccio Carfora, ‘o cucchiere, che lo portò in salvo, faceva ‘na brutta fine. Poi conquistammo tutti i commissariati e la gente ci dava tanti soldi, ci pagava. Ci dovevano pagare, se no significava che erano nemici della patria italiana, quindi mazzate e poi in galera. Il 7 settembre di quell’anno, zi’ Peppe entrò in Napoli, me lo ricordo come se fosse adesso, erano più o meno l’una. Ci fu una carovana di carrozze. Il corteo era guidato da Michele <>, che era uno che ritirava le tangenti dagli ambulanti della piazza e da <>. Galibardo stava sulla prima carrozza con Demetrio Salazaro, il frate francescano Giovanni Pantaleo, Agostino Bertani e il conte Giuseppe Ricciardi; sulla seconda c’eravamo io, il commissario Iossa, Capuano e Mele; sulla terza mia cugina Marianna, detta ‘a Sangiuvannara, tutta agghindata come un albero di Natale, … e poi c’erano <>, <> e <> . Si può dire che abbiamo tenuto a battesimo l’Italia, o no?.
Questo eccezionale cronista era “nientepopodimenoche” Salvatore De Crescenzo, detto Tore ‘e Criscienzo, il più grande e sanguinario camorrista dell’epoca, che un governo frettoloso ed irresponsabile aveva posto, quale responsabile, nei palazzi della Pubblica Sicurezza di Napoli. Fautore di cotante scelte fu tale Liborio Romano da Patù. Il suo curriculum: nel 1820 destituito dall’insegnamento di Diritto Civile e Commerciale all’Università Federico II; sempre nel 1820 in esilio all’estero; nel 1848 tornò a Napoli e lottò per la concessione della costituzione da parte del re Ferdinando II di Borbone; poi arrestato e rispedito al confino; nel 1860 venne nominato dal re Francesco II prefetto di Polizia; nel luglio dello stesso anno venne nominato ministro di polizia ma, nel frattempo, era anche collaboratore di Cavour; nel 1861 ministro degli interni nel provvisorio regno di Napoli perché aveva dato aiuto a Garibaldi e, quindi, il suo contributo allo sterminio di migliaia di cittadini napoletani; fu deputato del Regno d’Italia dal 1861 al 1865. Quando si dice la coerenza!
Purtroppo, però, per il nostro Tore, a Napoli arrivò Silvio Spaventa e per la camorra furono giorni duri che culminarono in uno sciopero generale dei camorristi, esattamente il 26 aprile del 1861. A Silvio Spaventa subentrò Filippo De Blasio, un avvocato di Guardia Sanframondi. Divenne anche direttore del ministero degli interni di Cialdini. Sotto Farini era già stato prefetto di polizia. Già il governo Farini – Minghetti aveva dichiarato guerra aperta alla camorra e, tramite Aveta, furono arrestati più di trecento camorristi. Sulla base di questi arresti, il generale La Marmora, scrisse una lettera al governo, nella quale sollecitava l’adozione di misure speciali per combattere la piaga della camorra. Tra le altre cose, chiedeva la creazione di carceri speciali e possibilmente lontano dalla città, in Sardegna. Precedendo, in questo, di oltre un secolo la norma del 41 bis. Un anno dopo, il 15 agosto del 1863 fu approvata la legge Pica. Di fatto, con i nove articoli di questa legge, venne introdotto il criterio del sospetto ed il libero arbitrio, in base al quale bastava una semplice delazione, semmai dovuta a rancori personali, per provocare un arresto. Infatti la legge, all’articolo 5, così recitava
<>
Comunque, nel gennaio del 1861 l’Italia, parafrasando Cavouri, era “fatta”. Ma era stata cosa buona e giusta? Garibaldi così si confida, in una sua lettera ad Adelaide Cairoli, nel 1868:
“Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio”.
Ne’l libro “L’ordine nuovo” di Antonio Gramsci, del 1920, si legge che : ” Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti.” Potremmo liquidarla così. Ma non sarebbe giusto. La cosa è un tantino più complessa. Non voglio elencare qui le lodi o le infamie che, tanti storici, si sono scomodati a tessere ora a favore dell’uno, ora dell’altro schieramento. Briganti contro piemontesi e viceversa. Dov’è la tragedia? La tragedia è nel mezzo. Il popolo del Sud. Gli agricoltori, i coloni, i piccoli artigiani ed i diseredati. Ecco la tragedia. Un popolo che era incudine del martello piemontese se aiutava i briganti e incudine del martello dei briganti se aiutava i piemontesi. Ecco il bollettino di guerra:
8.964 fucilati, 10.604 feriti, 6.112 prigionieri, 64 sacerdoti uccisi, 22 frati uccisi, 60 ragazzi uccisi, 50 donne uccise, 13.529 arrestati, 918 case incendiate, 6 paesi dati a fuoco, 3.000 famiglie perquisite, 12 chiese saccheggiate e 1.428 comuni sollevati. Giova ricordare che il brigantaggio non era un fenomeno post unitario, ma trovava le sue radici già nel periodo napoleonico, all’epoca di Murat e delle repressioni del colonnello francese Manhès. Seguirono, poi, quelle di Ferdinando I, per mano del generale inglese Church, all’indomani della restaurazione e che videro la cattura, e la conseguente eliminazione, di Ciro Annichiarico, detto Papa Ciro o Papa Ggiru, fucilato il 7 febbraio del 1817 a Francavilla d’Otranto. Chi erano veramente Carmine Crocco, Vincenzo Petruzziello, Pasquale Romano, Michele Caruso e tantissimi altri? Patrioti o squallidi delinquenti? Senza scomodare illustri studiosi e storici, io taglio corto e dico: squallidi delinquenti che approfittando di sentimenti patriottici, miravano al potere ed all’arricchimento personale, incuranti delle migliaia di vittime, tra contadini e popolani che si lasciavano alle spalle. Questa povera gente, da secoli asservita ai ricchi proprietari terrieri, periva in modo esponenziale o perché amici delle truppe del generale Cialdini, e quindi trucidati dai briganti, o perché amici di Crocco e quindi massacrati da Enrico Cialdini. Vale la pena, però soffermarci un attimo su uno di questi personaggi: Carmine Crocco, detto Donatelli. Per descrivere fisicamente il Crocco, ci affidiamo allo studio del professore Pasquale Penta dell’Università di Napoli che, nelle riviste mensili di psichiatria forense (numeri 8 e 9 dell’agosto e settembre 1901), disse ciò sul brigante:

” Alto della persona 1,75 cm, robusto, svelto, con occhio indagatore, sospettoso, attento. Non vi è nel suo corpo di straordinario che la grandezza e la sporgenza dei seni frontali e delle arcate orbitali, e un cranio rispetto alla statura non molto grande (55 cm di circonferenza massima). La circonferenza toracica è di 92 cm, la persona è ancora dritta e resistente, dopo una vita agitata, piena di stenti, di sofferenze, di timori e di pericoli; è una intelligenza non ricca al certo, nè libera da superstizioni (porta il rosario al collo, amuleti), ma chiara, ordinata e sicura. Non è andato a scuola, ma nella sua vita di pastore, un po’ da sé, un po’ aiutato, imparò a leggere e scrivere, in tal modo da poter esprimere i suoi pensieri sulla carta e facendosi comprendere molto bene ”
Carmine Crocco, detto Donatelli, nacque il 5 giugno 1830 a Rionero in Vulture. Dalla sua attività di bracciante, in brevissimo tempo divenne il capo e comandante incontrastato di un esercito che contava oltre duemila uomini. Il suo valore e la sua spregiudicatezza gli avvalsero il titolo di Generale dei briganti. Combattè, dapprima al fianco di Giuseppe Galibardi e poi contro l’esercito sabaudo ed al fianco della resistenza borbonica ed alla fine per se stesso. Le sue azioni di guerriglia e scorribande durarono per oltre quarant’anni. Nell’agosto 1862, il delegato di Pubblica Sicurezza di Rionero, Vespasiano De Luca, volle aprire una trattativa di resa con Crocco e Caruso. De Luca promise ai briganti di evitare la condanna a morte se giudicati da un tribunale civile, mentre per Crocco si prospettava il confino in un’isola stabilita dal governo sabaudo. L’esito dell’accordo si rivelò negativo. Nel marzo 1863 le sue bande (tra cui quelle di Ninco Nanco, Caruso, Caporal Teodoro, Sacchetiello e Malacarne), attaccarono un gruppo di cavalleggeri di Saluzzo, guidato dal capitano Bianchi, e 15 di loro furono picchiati ed uccisi. Crocco fu sconfitto sull’Ofanto dall’esercito e dalla Guardia Nazionale inviati dal governo regio. Nei giorno successivi tutti i paesi insorti e occupati furono riconquistati, ristabilendo l’autorità sabauda. Crocco e la sua banda vissero nei boschi sperando in un provvedimento di clemenza. La sua egemonia era ormai svanita e del suo vasto esercito ne rimase solo una manciata di uomini. Con l’arresto di Crocco, molti uomini sotto il suo comando come Caporal Teodoro, Donato “Tortora” Fortuna, Vincenzo “Totaro” Di Gianni e Michele “Il Guercio” Volonnino furono giustiziati o costretti ad arrendersi, decretando la fine del brigantaggio nel Vulture-Melfese. Carmine fu trasferito in galera a Marsiglia, poi spostato a Paliano, a Caserta, a Avellino per poi finire a Potenza. La sua fama era tale che, durante i suoi passaggi da una prigione all’altra, numerose persone accorrevano per poter vederlo di persona. Durante il processo tenuto presso la Corte d’Assise di Potenza, il Procuratore generale Camillo Borelli accusò Crocco dei seguenti reati: 62 omicidi consumati, 13 tentati omicidi, 1.200.000 lire di danni bellici e altri crimini come grassazioni ed estorsioni. Carmine Crocco venne condannato a morte l’11 settembre 1872 ma la pena fu poi commutata nei lavori forzati a vita. Venne prima assegnato al bagno penale di Santo Stefano, ove iniziò a scrivere le sue memorie il 27 marzo 1889 (raccolte in seguito nel libro “Come Divenni Brigante”) e poi nel carcere di Portoferraio, in provincia di Livorno, ove passò il resto della sua vita fino al 18 giugno 1905, data della sua morte. E qui ritorna prepotente il coinvolgimento, in positivo ed in negativo del popolo meridionale. Ecco, il popolo, quel popolo che va rivalutato, quel povero popolo che ancora una volta pagava sua misera condizione di povertà ed ignoranza. Gramsci, Salvemini, Pisacane e lo stesso Cattaneo, hanno sprecato fiumi d’inchiostro sulla non partecipazione delle masse al processo unitario. Tutto quello che è accaduto si è svolto nella quasi totale ignoranza dei contadini, i quali erano, artatamente, mossi ora dagli intellettuali del Risorgimento, ora dai brigati ed in ultimo, ma non ultimo, l’intimo convincimento che l’unità avrebbe apportato ricchezza e benessere e non già lacrime e sangue. Il popolo del Sud, popolo di un Dio minore che fece di tutte le pene, del martoriato Meridione, un sol fardello che, ancora oggi, porta sulle spalle a guisa di soma. E non è detto che questa soma debba essere sinonimo di somaro. Ma tali ci ritengono gli “italiani”. Ma quali italiani? Quelli del regno di Sardegna, del regno sabaudo di Toscana, Emilia e Romagna? Forse quelli che Cavour diceva di voler fare? Quali? Quale coscienza etnica? Forse quella che fu enunciata nella dichiarazione Universale dei Diritti Collettivi dei Popoli tenuta a Barcellona, il 27 maggio del 1990, nella quale si affermava che ” Ogni collettività umana avente un riferimento comune ad una propria cultura e una propria tradizione storica, sviluppate su un territorio geograficamente determinato [...] costituisce un popolo. Ogni popolo ha il diritto di identificarsi in quanto tale. Ogni popolo ha il diritto ad affermarsi come nazione. “? No, questa coscienza la nostra Italia non l’ha mai avuta. Gli eccidi dei piemontesi, le scorribande di Carmine Crocco, gli studi antropologici di Cesare Lombroso (ridicola la sua perizia sul brigante Vilella), non fecero altro che alimentare odio da una parte e disprezzo dall’altra. L’antropologo e criminologo veronese ma di origini ebraiche, Marco Ezechia Lombroso detto Cesare, era assertore dela tesi dell’uomo delinquente nato o atavico. Influenzato dalla fisiognomica (disciplina pseudoscientifica che pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto) e da Darwin, era convinto che tutti i delinquenti presentavano caratteristiche fisiche vicine ai primati infraumani (scimmie). Sezionò e studiò molti corpi di briganti del Sud e moltissimi crani sono conservati nel museo, a lui intitolato, a Torino. Se ne deduce che per il dottor Cesare gran parte dei meridionali sarebbero stati più a loro agio nelle savane africane piuttosto che nella civilissima ed erudita pianura padana. Molti la pensavano così, infatti, il macellaio di stato, il generale Enrico Cialdini, parlando del meridione e dei suoi abitanti, così si esprimeva:
” Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele. ”

I vari governi che si succedettero provvidero, con solerzia e diligenza, al saccheggio ed all’esproprio coatto di tutte le ricchezze del defunto Regno borbonico. Basti pensare che all’indomani dell’unità, l’erario del Regno delle due Sicilie contava un saldo attivo di oltre 443 milioni, il resto d’Italia (Roma compresa) appena 225 milioni. Il nuovo governo provvide, tempestivamente, all’unificazione del debito pubblico. Riguardo a ciò, Francesco Saverio Nitti osservò che, mentre il Regno delle Due Sicilie presentò un debito di circa 35 milioni, il Piemonte, molto più piccolo per superficie e per popolazione, sia per le spese di guerra che per gli investimenti pubblici del Cavour, ne aveva circa 61 milioni di lire, ovvero aveva un debito che, calcolato pro-capite, era circa quattro volte maggiore di quello del Regno delle Due Sicilie; inoltre, il 65% di tutta la moneta circolante in Italia era del Sud. Questa gran massa di danaro, naturalmente, sotto forma di cartolarizzazioni e nuove imposte si trasferì al nord, con conseguente impoverimento del Sud. Cosa restava a questo popolo martorizzato se non l’emigrazione verso lontani lidi? Gran parte dei giovani tra i meridionali, tra i 21 ed i 50 anni, dopo essere stati deportati al nord, vennero coscritti per lungo tempo dall’esercito piemontese, ai contadini furono negate perfino le sementi. La fame, la miseria e l’indigenza regnavano sovrane in quelle terre che erano state l’orgoglio di un Regno. Scappare, emigrare, fuggire lontano, questo era il Verbo, abbandonare la terra natia, la patria, la nazione.
Cosa intende per nazione, signor Ministro? È una massa di infelici? Piantiamo grano ma non mangiamo pane bianco. Coltiviamo la vite, ma non beviamo il vino. Alleviamo animali, ma non mangiamo carne. Ciò nonostante voi ci consigliate di non abbandonare la nostra Patria? Ma è una Patria la terra dove non si riesce a vivere del proprio lavoro? (Anonimo del XIX sec.)
Ma, se Atene piange, Sparta non ride. Anche la città di Napoli, capitale di un Regno, culla di civiltà, teatro dell’illuminato Stupor mundi, palcoscenico di arti drammatiche, visive e musicali; terra natia di musicisti, intellettuali ed uomini di scienza. Terra nella quale si suonava il violino mentre altrove si praticava la transumanza. Le industrie del napoletano prosperavano, così come il “made in Naples”. L’alta moda era ad appannaggio dei napoletani, così come l’architettura e l’ingegneria, la tecnologia e la cantieristica. Napoli capitale delle culture divenne suburbio della coltura.
Intellighenzie somme hanno studiato la questione meridionale e le cause della sua arretratezza , ora con imparzialità ora con preconcette idee.
Giuseppe Massari e Stefano Castagnola, a capo di una commissione parlamentare istituita tra il 1862 ed il 1863 evidenziarono, come cause del brigantaggio, la povertà e l’indigenza, nonchè l’invasione piemontese fossero concause dei disordini e degli eccidi. Stefano e Leopoldo Jacini (zio e nipote) evidenziarono la necessità di creare infrastrutture e il bisogno di creare e formare una classe di picoli proprietari terrieri; Franchetti, in uno con Sonnino e Cavalieri, nel 1876 posero l’accento sull’ignoranza e la corruzione evidenziando, però, l’urgenza di una riforma agraria. Gaetano Salvemini ne attribuì le cause all’arretratezza storica; Antonio Gramsci lesse il ritardo del sud attraverso il prisma della lotta di classe. Studiò i meccanismi in corso nelle rivolte contadine dalla fine dell’Ottocento fino agli anni venti, spiegò come la classe operaia fosse stata divisa dai braccianti agricoli attraverso misure protezionistiche prese sotto il fascismo, e come lo stato avesse artificialmente inventato una classe media nel sud attraverso l’impiego pubblico. Auspicava la maturazione politica dei contadini attraverso l’abbandono della rivolta fine a se stessa per assumere una posizione rivendicativa e propositiva, e sperava una svolta più radicale da parte dei proletari urbani che dovevano includere le campagne nelle loro lotte. Giustino Fortunato effettuò vari studi in materia, e pubblicò nel 1879 il più conosciuto di essi, in cui esponeva gli svantaggi fisici e geografici del sud, i problemi legati alla proprietà della terra, e il ruolo della conquista nella nascita del brigantaggio. Era decisamente ostile ad ogni tipo di federalismo, e sebbene difendesse la necessità di redistribuire la terra e di finanziare servizi indispensabili come scuole e ospedali, fu ritenuto da alcuni interpreti pessimista per la sfiducia che mostrava nei confronti delle classi dirigenti del paese nell’affrontare la questione meridionale. Benedetto Croce rivide in chiave storiografica le vicende del Mezzogiorno dall’Unità fino al Novecento, mettendo l’accento sull’imparzialità delle fonti. Il suo pensiero divergeva parzialmente da quello del suo amico Giustino Fortunato riguardo all’importanza da attribuire alle condizioni naturali in riferimento ai problemi del Mezzogiorno. Riteneva infatti fondamentali le vicende etico-politiche che avevano condotto a quella situazione. Entrambi ritenevano fondamentale la capacità delle classi politiche ed economiche, nazionali e locali, per affrontare e risolvere la questione. La sua Storia del Regno di Napoli, del 1923, rimane il punto di riferimento essenziale per la storiografia posteriore, sia per i discepoli che per i critici. Guido Dorso rivendicò la dignità della cultura meridionale, denunciando i torti commessi dal nord ed in particolare dai partiti politici. Effettuò esaurienti studi sull’evoluzione dell’economia del Mezzogiorno dall’Unità fino agli anni trenta e difese la necessità dell’emergenza di una classe dirigente locale. Rosario Romeo si oppose alle tesi rivoluzionarie ed evidenziò le differenze esistenti, prima e dopo il Risorgimento, fra la Sicilia ed il resto del sud. Attribuì i problemi del Mezzogiorno a tratti culturali, caratterizzati dell’individualismo e lo scarso senso civico, piuttosto che a ragioni storiche o strutturali. Paolo Sylos Labini riprese tesi che vedevano nell’assenza di sviluppo civile e culturale le origini del divario economico. Considerò la corruzione e la criminalità come endemiche della società meridionale, e vide l’assistenzialismo come principale ostacolo allo sviluppo. Ma tutte queste eccelsi storici e pensatori non alleviarono le pene degli uomini del Sud. Questi uomini, figli di una terra teatro d’incontro di culture normanne, sveve, angioine ed aragonesi, andavano al massacro,a guisa di masochistici schiavi, in terre straniere, dove venivano disprezzati ed evitati come le peggiori bestie, come reietti indegni di esistere. Questo marchio indelebile è ancora tatuato sulla nostra pelle, così come avvenne un secolo dopo con la martoriata popolazione ebraica. Arbeit macht frei, questo era l’ironico messaggio che accoglieva i deportati nei campi di concentramento nazisti durante la seconda guerra mondiale ed è ancora questo vogliono incidere, col fuoco, sulla pelle della stragrande maggioranza delle popolazioni del Sud. Quelle popolazioni che col sudore del lavoro ripagano il sangue del Figlio. Uomini che, in nome di una patria che non li vuole, anzi peggio li detesta, si sono immolati alla libertà ed alla terra. Camorra, Ndrangheta, Sacra corona unita, Mafia, sono figli di uno Stato assente, anzi mai esistito. Per decenni hanno chiuso gli occhi, hanno fatto finta di non vedere. Faceva loro comodo. Ma, l’erba cattiva attecchisce velocemente, non ha bisogno né di concime né di acqua, si autoalimenta, prospera e le sue propaggini si sono estese sulle terre floride dell’inesistente padania. Ora brucia, anche se è foriera d’ulteriore ricchezza per i figli del signore di Giussano. I luoghi comuni assurgono a ruolo di dogma; sud, meridionalismo e napoletano hanno conquistato il Guinnes dei sinonimi negativi. Eè triste, ma è così. Quindi, a dispetto del conte Camillo, l’Italia sarà pure stata fatta, ma gli italiani no e, di questo passo, non si formeranno mai. Ed allora? Ok, se siamo indesiderati ospiti, andiamo via. Si, andiamo via ma restituiteci il mal tolto. Cogliamo l’occasione dei 150 anni di falsa unità per stilare un bilancio socio-economico che dia a Cesare quel che è di Cesare, dopodiché tornate pure alla transumanza, bestemmiatori dal rutto libero, adoratori di un Dio inesistente al quale ogni anno santificate ridicole ampolle d’acqua; millantatori e creatori di una terra che non esiste, voi che praticate ostracismo e disprezzo verso le genti meridionali. Voi indegni che, dopo aver prosciugato la vostra fonte di ricchezza, pretendete di cambiarne il nome da Eldorado in Postribolo.

Alessandro Pellino

(Fonte: http://www.segretidipulcinella.it/sdp33/temp_04.htm)

I commenti sono disabilitati.