Guerra come business e la privatizzazione dei conflitti
…probabilmente molti avranno già ricevuto questo messaggio dalle liste che si occupano di Palestina, ma lo ripropongo in lista perché mi pare si suscitino in questo articolo alcuni elementi importanti che cambiano il modo stesso di essere della guerra; sicurezza e automazione sono sicuramente aspetti importanti in atto da anni. Quel che mi pare non appaia chiaramente in questa presentazione (non ho ancora letto il libro) è l’aspetto della privatizzazione della guerra, cioè il fatto che spesso anche il combattimento, ma soprattutto la logistica, sono delegate ad enormi compagnie private che gestiscono bilanci colossali. Sono dieci anni che ho l’impressione che il caos non abbia cose solo unico scopo quello di controllare meglio territori e popolazioni, ma anche di garantire business a questi colossi economici.
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Le guerre tra stati con armi convenzionali, sostiene lo scrittore israeliano, sono in gran parte roba del passato. Ciò che serve ora sono le competenze che Israele ha sviluppato dopo un secolo di ‘contro-insurrezione’ contro i palestinesi, attraverso una forma subliminale di guerra infinita, che alimenta la paura tra la popolazione, in questo modo giustificando la militarizzazione nella vita quotidiana
Nena News – L’ondata di attentati terroristici di queste settimane fa da tragica cornice alla tesi sostenuta da un imperdibile libro dell’israeliano Jeff Halper, “War Against the People” : questa è una “guerra contro la gente”, contro tutti noi.
Proprio quando il primo ministro israeliano Netanyahu è in seria difficoltà di fronte alla incalzante “Intifada dei Coltelli”, e soprattutto quando i direttori delle quattro principali compagnie israeliane di armamenti lo avvertono della ‘grave crisi’ di quella che è la principale industria nazionale, ecco che un’ondata terroristica globale senza precedenti gli offre opportunità imperdibili.
Parigi: un tragico spot pubblicitario
Una prima mossa che Netanyahu non si lascia sfuggire è alimentare la tensione internazionale presentando anche il suo paese come vittima, spacciando così come fondamentalismo islamico la resistenza palestinese contro un regime oppressivo, coloniale e di apartheid.
Una seconda occasione colta al volo dall’intellighenzia militare israeliana è tentare di convincere l’occidente a riscrivere il diritto internazionale, alla stregua di quello israeliano che consente di incarcerare minorenni, torturare e detenere persone sospette per tempi indefiniti senza un’accusa formale. Già lo aveva fatto G.W. Bush dopo l’11/09 con il Patriot Act. Ora è Hollande che si candida con solerzia a fedele esecutore proponendo la modifica della Costituzione francese. E non soltanto come una manovra temporanea.
Se i funzionari israeliani possono mostrare tanta indifferenza di fronte a centinaia di bambini massacrati a Gaza o alla violenza sproporzionata delle forze di sicurezza è grazie al lavoro infaticabile di avvocati specializzati nello sviluppare nuovi principi giuridici che diano una parvenza di legalità a quelle che sono violazioni del diritto internazionale. Think-thank e accademici israeliani hanno coniato il termine di “lawfare” per descrivere come i “terroristi” che si annidano nelle organizzazioni per i diritti umani usino il diritto internazionale come arma per ostacolare il potere degli stati e in particolare come una minaccia per lo stato di Israele. In questo modo cambiando completamente le carte in tavola e portando a un paradosso giuridico che Perugini e Gordon analizzano in dettaglio nel libro “The Human Right to Dominate”.
Un altro assist a Israele arriva dall’Unione Europea che concede alla Francia e agli altri paesi europei di escludere le spese per la sicurezza dal patto di stabilità, aprendo così un vero e proprio eldorado all’industria delle armi e della sicurezza. In “War against the People” Jeff Halper analizza nei dettagli più minuziosi lo stupefacente e inquietante armamentario, militare, tecnologico e giuridico, con cui Israele è pronto a rispondere alla domanda di sicurezza generata dalla situazione critica che l’occidente sta vivendo.
Visti attraverso questa lente, i fatti di Parigi rappresentano indubbiamente un tragico spot pubblicitario di Israele come supermarket della “guerra al terrorismo”.
Israele: lupo o agnello?
Ebreo americano emigrato in Israele nel 1973 e co-fondatore nel 1997 del Comitato israeliano contro la demolizione delle case (ICAHD), Jeff Halper è da diciotto anni in prima linea nel conflitto israelo-palestinese. Ex-professore di antropologia, è stato candidato dall’American Friends Service Committee, assieme all’intellettuale e attivista palestinese Ghassan Andoni, al premio Nobel per la Pace.
Halper inizia il suo libro chiedendosi come può Israele continuare a farla franca e rimanere impunito nonostante stia illegalmente occupando da quasi cinquanta anni la Palestina, abbia violato dozzine di risoluzioni delle Nazioni Unite e sia oggetto della condanna di tribunali internazionali. Come fa Israele a godere di tale autorità e autorevolezza, non solo negli Stati Uniti e in Europa, ma, più sorprendentemente, nei paesi del Sud del mondo? Al di là delle solite spiegazioni (l’Olocausto, il potere delle lobby, ecc.), la ragione individuata da Halper sta nella “nicchia” cruciale che Israele è riuscito a occupare nella “guerra al terrorismo” attraverso non un semplice aumento della produzione di armi, ma una sua riorganizzazione qualitativa.
L’autore ritiene ormai obsoleto l’avvertimento lanciato nel 1961 dal presidente americano Eisenhower che il “complesso militare-industriale” sarebbe diventato il vero potere dietro una facciata di democrazia popolare. È pur vero che:
– Israele spende circa l’8% del suo PIL annuale per la “difesa”, circa il doppio della spesa pro capite degli Stati Uniti;
– Nonostante le sue dimensioni, ha più aerei militari di qualsiasi paese europeo;
– Annovera al suo interno quattro dei 100 principali produttori di armi al mondo;
– Il Global Militarization Index lo ha incoronato ogni anno dal 2007 come la nazione più militarizzata del pianeta;
– Nel maggio scorso ha ottenuto il riconoscimento di “superpotenza informatica”, con compagnie che vendono circa un decimo dei computer e della tecnologia della rete di sicurezza al mondo.
Tuttavia il valore aggiunto di Israele, sostiene Halper, è di potersi presentare come il bengodi della sicurezza, “securityland”, il paese a cui rivolgersi per quella che viene chiamata la “guerra securocratica”.
Le guerre tra stati con armi convenzionali sono in gran parte roba del passato. Ciò che serve ora sono le competenze che Israele ha sviluppato dopo un secolo di ‘contro-insurrezione’ contro i palestinesi, attraverso una forma subliminale di guerra infinita, che alimenta la paura tra la popolazione, in questo modo giustificando la militarizzazione nella vita quotidiana. I territori palestinesi occupati, sostiene Halper, sono un vero e proprio laboratorio di questo approccio.
Come viene ampiamente discusso nel libro, le guerre tra stati hanno tradizionalmente coinvolto tre fasi: la preparazione, l’attacco vero e proprio, e infine il risultato finale. Tuttavia, quella che il presidente Bush, dopo l’attacco all’Iraq, aveva frettolosamente annunciato come “mission accomplished”, si è rivelata un’illusione. L’Iraq, così come l’Afghanistan prima, ha mostrato l’esigenza di una quarta fase: la pacificazione, ossia la stabilizzazione e il mantenimento della “pace” dopo il cambio di regime. Anche questa fase è “guerra”, nonostante assuma aspetti disparati e utilizzi strumenti diversi contro chi osi sfidare il nuovo ordine egemonico imposto con la guerra combattuta.
L’industria della “pacificazione globale”
Israele è in grado di fornire consulenza e assistenza a forze armate, forze di polizia e agenzie di sicurezza nazionale in tutto il mondo, grazie alla sua posizione di leader nella fiorente industria della “pacificazione globale”, attraverso un modello di controllo “securocratico” che Halper identifica in quella che chiama la Matrice di Controllo di Israele. Ciò cui stiamo assistendo è la crescita dello “stato della sicurezza”, della “guerra infinita al terrore”, il mondo in uno stato permanente di emergenza. Mentre i militari dei contingenti internazionali, compresi quello italiano, assumono molti dei compiti di una forza di polizia in guerre esterne come l’Iraq e l’Afghanistan, a casa nostra la polizia diventa sempre più militarizzata. I poliziotti di Ferguson (USA) che reprimono i moti di rivolta dei neri americani sembrano indistinguibili dai loro compatrioti dell’esercito Usa in Iraq. Il fatto che quella polizia sia stata addestrata da Israele ha fatto parlare della “palestinizzazione” di Ferguson.
In pratica, Israele sviluppa, raffina e sperimenta sul campo (ossia Gaza e Cisgiordania) armi convenzionali, sistemi missilistici di intercettazione, di sorveglianza, di controllo della folla, raccolta di dati biometrici e, come abbiamo visto, nuove interpretazioni del diritto internazionale, usando i palestinesi come cavie. Il tutto rivenduto sul mercato globale.
Leggendo “War against the People” si viene iniziati a diavolerie come “soldati cibernetici, sistemi radar che vedono attraverso i muri, carri armati di nome Crudeltà, droni di 20 grammi a forma di farfalla, imbarcazioni invisibili chiamate Squalo di Morte, armi che prendono il nome di insetti o fenomeni naturali (calabroni bionici, polvere intelligente, droni libellula e robot intelligenti di rugiada), insetti cibernetici, un quartiere cittadino simulato con 600 edifici per l’addestramento alla “guerriglia urbana” soprannominato Chicago e una bomba da un megaton a impulsi elettromagnetici con effetti devastanti.”
Questo ruolo unico nel teatro globale ha portato Israele a relazioni militari ufficiali con oltre un centinaio di paesi, molti dei quali feroci dittature note per le loro violazioni dei diritti umani. Recentemente, ad esempio, le Nazioni Unite hanno rivelato che Israele stava trasgredendo l’embargo sulla vendita di armi nella guerra civile in Sudan meridionale. A Israele non interessa con chi fa affari; il suo comportamento è in questo senso “amorale”, sostiene Halper. È disposto a trattare e vendere qualsiasi cosa a chiunque senza curarsi troppo del contesto.
Controllo dell’ordine sociale
Secondo Halper, vista in una prospettiva globale, la guerra securocratica serve a garantire sicurezza al sistema capitalistico mondiale, assicurare il movimento di capitali e risorse in una direzione ben definita ed essere in grado di far fronte alla resistenza sempre più endemica che viene dal basso. Con il divario crescente tra ricchi e poveri, intensificato dalla privatizzazione neoliberista e tagli nei servizi pubblici, la protesta è in aumento. Le multinazionali hanno bisogno di canali sicuri per il flusso di capitale e lavoro. E proprio mentre la ricchezza e il potere non sono più identificabili con un singolo punto geografico avendo tessuto una rete di interessi che copre l’intero pianeta, le maggiori potenze mondiali denunciano crescenti minacce terroristiche globali.
La preoccupazione è come mantenere un ordine sociale favorevole al capitalismo mentre grandi aree del globo sono povere, in preda a guerre civili e orde di migranti cercano di sfuggire a una situazione disperata. L’obiettivo non è tanto la vittoria quanto la pacificazione di qualsiasi forza sfidi lo status quo, siano palestinesi sotto occupazione, afro-americani emarginati, senzacasa europei o una comunità valligiana in rivolta contro la distruzione del proprio habitat. In una guerra del genere, combattuta nelle aree urbane, predominano ovviamente le vittime civili: la guerra non è soltanto “tra la gente” ma “contro la gente”.
L’autore di “War against the People” si pone anche una seconda domanda: “Perché Israele continua a comportarsi in questo modo suscitando indignazione in tutto il mondo, e rifiutando qualsiasi appello alla moderazione che lo renderebbe un paese felice e tranquillo, dedito esclusivamente al miglioramento della qualità della vita della sua popolazione?”
Al tavolo con le potenze mondiali
Il fatto è, argomenta Halper, che, grazie all’industria della guerra securocratica, Israele è riuscito a trasformare il suo know-how nel campo della sicurezza in influenza politica. L’expertise acquisito con il controllo di Gaza, per esempio, è estremamente interessante per Stati che vogliono potenziare la loro sorveglianza interna potenziando le frontiere, la guerriglia urbana, o la lotta alla immigrazione. I palestinesi, in questo senso, sono una risorsa importante per Israele. Senza i territori occupati, ironizza Halper, Israele sarebbe una semplice destinazione turistica, non un’egemonia regionale.
È grazie a tutto ciò che Israele può partecipare alle esercitazioni militari della NATO, ottenere la ratifica dell’Accordo di Associazione UE-Israele e contribuire allo sviluppo di droni usufruendo dei fondi di ricerca europei Horizon 2020. Può addirittura intrattenere legami sempre più stretti anche con regimi che sono apparentemente nemici, come l’Arabia Saudita. Insomma, le quotazioni a livello internazionale del piccolo Israele vanno ben oltre il suo peso economico, politico e militare.
E soprattutto, cosa cui Israele tiene in modo particolare, quelli che inizialmente sono semplici rapporti commerciali ben presto evolvono in relazioni politiche amichevoli che avranno un peso fondamentale quando, per esempio, sarà il momento di votare pro o contro Israele alle Nazioni Unite. L’India, che ha lunga storia di sostegno ai palestinesi, al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite è stata tra i cinque paesi astenuti nella mozione di condanna di Israele per la guerra di Gaza del 2014. La Nigeria, paese dipendente dalle armi israeliane, nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dicembre 2014, ha rinnegato il suo tradizionale sostegno per i palestinesi votando contro la risoluzione palestinese per la fine dell’occupazione. E così il mese seguente, dopo i fatti di Charlie Hebdo, il presidente nigeriano si è guadagnato l’onore di essere immortalato a Parigi a braccetto di Netanyahu.
Da questo punto di vista, l’occupazione è una delle principali fonti di profitto e peso politico, che non offre a Israele nessun incentivo a cercare una soluzione con i palestinesi.
Conclusione
“War Against the People” offre una visione inquietante di come le potenze occidentali intendano la guerra oggi. Si tratta di una guerra subliminale di sorveglianza travestita da “guerra al terrorismo”, condotta attraverso apparati militari nuovi, ad alta tecnologia, progettati e in primo luogo usati in Israele e nei territori occupati contro la popolazione palestinese.
In un momento in cui queste potenze stringono la presa sull’uso delle informazioni private e mettono sempre più a rischio le libertà individuali, “War against the People” lancia un appello accorato a un attivismo che assuma proporzioni anti-egemoniche lottando per un nuovo mondo in cui il militarismo e l’ossessione securocratica non possano trovare alcuno spazio per sopravvivere. Nena News
Dal libro di Jeff Halper, “War Against the People: Israel, the Palestinians and Global Pacification”, September 2015, Pluto Books
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