Nell’orto degli ulivi, con Ibrahim
Incontri “Extra-comunitari” sotto l’ulivo.
Domenica scorsa ho cominciato a raccogliere le olive per portare un po’
d’olio a casa. Pattuito il compenso con il proprietario (6 Kg d’olio a
quintale d’olive raccolte) mi sono messo all’opera. Era una giornata
plumbea, e un sottile velo di malinconia mi aveva preso. Unica nota positiva
è stato il pranzetto al sacco con i miei amori, mio figlio e la mia compagna
che mi avevano raggiunto. La mattina seguente ero quasi sgomento
nell’affrontare quella fatica da solo. Mi sono messo pregare cantando un
mantra che faceva pendant col movimento ritmico per strappare le olive dal
ramo.
Poco dopo un ragazzo di colore si è avvicinato timidamente, con la
parola “lavoro” sulle labbra. Ho cercato di fargli capire che le olive non
erano mie e non potevo farlo lavorare. Gli ho indicato un grande podere
sulla collina, dove, forse, avrebbe trovato un po’ di lavoro. Nello stesso
istante ho capito che Ibrahim era la risposta alla mia preghiera per quella
solitudine. Gli ho detto che potevo dargli poco come compenso, e lui ha
accettato col sorriso sulle labbra. Davanti ad un pezzo di pane e formaggio
mi ha raccontato un po’ della sua storia. Ibrahim aveva 24 anni e arrivava
dalla Guinea Bissau.
Aveva attraversato Mali, Burkina Faso, Niger, sino ad arrivare a Tripoli. Mi ha raccontato della sua paura nel deserto, dove bande armate depredano e molto spesso uccidono i migranti su quelle rotte verso la Libia. Molti corpi senza vita ha incontrato in quel viaggio. La sua paura a Tripoli davanti alla canna di una pistola impugnata da un bambino. Mi ha detto che ha pregato tanto Allah perché lo salvasse. In quei due giorni
trascorsi assieme, l’ho visto lavarsi, togliersi le scarpe e pregare, alle due e alle cinque del pomeriggio.
Ibrahim voleva andare in Canada e pensava di arrivarci a piedi. Non sono riuscito a capire le motivazioni di quella scelta, ma lo ripeteva in continuazione. Su un foglietto ho abbozzato i cinque continenti (non sapeva quanti fossero) e mostrato dove si trovava il Canada. La sua faccia triste per aver capito che solo in nave o in aereo ci sarebbe potuto arrivare, non me la scorderò tanto facilmente.
Mi ha detto che non avrebbe fatto come suo padre, che aveva preso due donne per spose e messo al mondo dieci figli. Lui sarebbe tornato al suo paese solo quando avrebbe avuto i soldi per una vita migliore.
Avrebbe costruito una casa, sposato una sola donna al prezzo di tre mucche, e messo al mondo due soli figli perché il pane non basta per troppe bocche. Mi ha chiesto il nome delle montagne che si trovano a nord “a Milano” diceva lui e sul cellulare ha scritto “Alpi”. Quando l’ho salutato per l’ultima volta mettendogli in mano il doppio di quello che gli avevo promesso, mi ha ringraziato con una dignità che stento a ritrovare negli occhi di un qualsiasi giovane italiano.
Ora penso spesso a lui, a come farà ad arrivare in Canada.
Buona fortuna Ibrahim.
Ettore Stella