Il vispo renzie ed il PIL gonfiato (ad arte)
I numeri, per la prima volta, sembrano sorridere al Vispo Tereso, ma è un sorriso sdentato, grifagno, come quello della strega delle favole. Perché? Perché l’aumento del PIL non è dovuto ad un miglioramento oggettivo della nostra situazione economica, ma quasi esclusivamente a fattori esterni; primo fra tutti, la discesa a picco del prezzo del petrolio, usata come un’arma impropria dagli USA e dai loro alleati arabi per mettere in crisi l’economia russa.
Ma dove la “statistica amica” da semplice arte si è sublimata in vero e proprio capolavoro, è stato nel campo dell’occupazione. In verità, c’era stato un piccolo incidente iniziale, quando il ministro del lavoro Poletti – un altro dei Ragazzi della Via Pal – aveva fornito numeri doppi rispetto a quelli dell’ISTAT. Ma, rimediato in qualche modo a questa figuraccia, il Piccolo Imbonitore Fiorentino ha ripreso con nuova lena a sciorinare numeri su numeri, affermando che il novero dei “posti fissi” cresceva, anzi galoppava, e ciò per merito delle “riforme”, in primis del Job Act.
In realtà, le cose non stanno proprio così. C’è un vizio d’origine, concepito in strettissima coincidenza con il varo del Job Act; un vizio che avrebbe permesso di ottenere dati iniziali fortemente positivi, tali da consentire al Vispo Tereso di poter dire che l’occupazione era aumentata. E se poi – diciamo fra circa tre anni – i numeri cominceranno improvvisamente a decrescere, se tanti giovani che oggi credono di essersi “sistemati” si ritroveranno improvvisamente in mezzo a una strada, magari con una famiglia sulle spalle e con un mutuo da pagare, pazienza; si vedrà cos’altro inventare.
Qual’era questo meccanismo, che non poteva non produrre un aumento temporaneo dell’occupazione? Lo ha spiegato Fassina, accreditato economista di una sinistra ancòra pensante, ed assai più modestamente il sottoscritto lo ha segnalato ai lettori di “Social”. Ecco cosa scrivevo il 27 febbraio scorso: «… anche questo trucchetto – come quello degli 80 euro – è stato studiato con grande maestrìa, e funzionerà, anche se soltanto nel breve periodo. Il perché ce lo spiega Stefano Fassina, il guru della sinistra PD: “Il previsto aumento dei contratti a tempo indeterminato ci sarà non grazie alla cancellazione dell’articolo 18, bensì per effetto del taglio dei contributi per tre anni per i neoassunti nel 2015. Una misura che costa tantissimo e che, date le condizioni della nostra finanza pubblica, non sarà ripetibile”.» Fin qui la citazione di Fassina. «Nel 2015 – continuavo io – l’occupazione aumenterà. Non certo perché il Job Act sarà riuscito ad “attrarre investimenti”; ma, molto più semplicemente, perché il temporaneo abbattimento dei contributi, spingerà le imprese ad assumere. Non solo. Ma, se la congiuntura internazionale continuerà ad essere favorevole (per esempio, se il prezzo del petrolio continuerà a scendere per mettere in difficoltà Putin) ci potremmo addirittura trovare di fonte ad un aumento del PIL, che il Pifferaio dell’Arno potrà spacciare per un effetto delle sue miracolose “riforme”.»
Che importa? – potrà obiettare qualcuno – con o senza il Job Act, con o senza l’articolo 18, l’importante è che i “posti fissi” aumentino. Ma, purtroppo, non è così. Di posti fissi, nel settore privato, non ce n’è praticamente più, almeno per i nuovi assunti. E ciò per effetto dell’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che tutelava i dipendenti delle aziende medie e grandi contro i licenziamenti ingiusti. Adesso, in forza delle “riforme” renziane, le aziende possono licenziare ingiustamente chiunque, con l’unico disturbo (se il lavoratore ha maturato le “tutele crescenti” che iniziano in misura ridotta solo dopo tre anni di lavoro) con l’unico disturbo – dicevo – di elargire un modesto indennizzo, una mancetta che potrà consentire al lavoratore licenziato di tirare avanti ancòra per un paio di mesi. Quindi, al di là degli squilli di tromba della propaganda di regime e del lecchinaggio di complemento, nessuno dei contratti “trasformati” da tempo determinato a tempo indeterminato avrà dato luogo ad un solo posto di lavoro “fisso”, ma soltanto ad uno sgravio triennale dei contributi a carico delle imprese.
Dopo di che, naturalmente, quel che le imprese non avranno pagato lo dovremo pagare noi tutti, attraverso la fiscalità generale; esattamente come noi tutti abbiamo dovuto e dobbiamo tutt’ora “compensare” i famosi 80 euro mensili scontati in busta-paga a 10 milioni di lavoratori dipendenti. E quello che non pagheremo con l’IRPEF, lo pagheremo con l’aumento delle imposte locali, o con i maggiori esborsi per ovviare alla riduzione della “spesa pubblica improduttiva” (scuola, sanità, trasporti e quant’altro).
Intanto, il Pifferaio dell’Arno spinge sull’acceleratore anche di altre “riforme”, come la sostanziale cancellazione di uno dei due rami del Parlamento, il Senato. Un’altra “riforma”, l’Italicum, provvederà a snaturare il ramo superstite – la Camera dei Deputati – assicurando una maggioranza bulgara al partito (al partito, non alla coalizione) che avrà ottenuto anche soltanto una striminzita prevalenza sul secondo classificato. Malumori nei settori meno amerikani del PD, ma alla fine anche queste riforme cafone (e liberticide) troveranno in qualche modo i numeri per passare. Accetto scommesse.
Intanto, l’agenzia di valutazione finanziaria Moody’s – la più importante tra le società private che danno le pagelle agli Stati un tempo sovrani – è entrata a gamba tesa nel dibattito politico italiano, prendendo apertamente posizione in favore delle riforme, dell’Italicum e della virtuale cancellazione del Senato. Quando si dice le coincidenze…
Michele Rallo