Quei bambini che soffrono e muoiono per le “nostre” guerre
Questo che che segue è un articolo di qualche tempo fa che si sofferma parecchio sui bambini nelle guerre Nato e dintorni, con anche casi precisi incontrati. Davvero i bambini non sono tutti uguali. Ma dobbiamo essere più che avvertiti sulla strumentalizzazione in corso sui bambini (in seguito alle “nostre” guerre)…
I bambini non sono tutti uguali. Amina è nata in Niger pochi anni fa e pesa cento e più volte meno di Daniel, suo coetaneo del Lazio, Italia. Nel senso che un abitante nigerino in media ha una responsabilità di gas serra pari a 0,06 tonnellate, un italiano, invece, di oltre otto tonnellate (dati Onu a questo link). Le emissioni pro capite sono il riflesso di un’enorme sproporzione nel consumo collettivo e individuale di materiali, risorse naturali, energia, derrate. Per mantenere Amina non c’è bisogno di alcuna guerra per le risorse. Per mantenere Daniel – perfino in tempo di crisi – sì.
I bambini non sono tutti uguali. Ad esempio le poche volte che la Nato accetta di risarcire una famiglia afgana per congiunti periti nei bombardamenti, si arriva al massimo a 2.000 dollari a morto. Quanto “vale” un pupo statunitense?
I bambini non sono tutti uguali. Soprattutto nelle guerre occidentali condotte con l’alcaselzer delle ragioni umanitarie. Utilissimi, gli amati children, quando si tratta di denunciare le minacce mortali e le violenze del nemico politico di turno.
Ignorati, però, i children, quando sono dalla parte sbagliata rispetto alla lama. La parte che riceve i colpi dell’intervento umanitario. In quel caso sono assimilati ai nemici. O al più, sono tollerabili danni collaterali.
Strumentalizzati a fini bellici
Nel 1990, alla vigilia della guerra contro l’Iraq, fu utilissima la “testimonianza” al Congresso Usa della quindicenne Nayrah, “volontaria all’ospedale di Kuwait City”: singhiozzando disse che i soldati iracheni, arrivando da invasori, avevano strappato i neonati dalle incubatrici lasciando che morissero per terra. Quest’atrocità assoluta ma falsa ebbe grande eco e fu ripetuta molte volte. A guerra felicemente innescata, risultò la ragazza era la figlia dell’ambasciatore del Kuwait negli Usa e che la frottola era stata ideata dall’agenzia di public relations Hill and Knowlton la quale per curare l’immagine dell’emirato aveva strappato il contratto più alto fino ad allora nella storia delle relazioni pubbliche. Soldi ben spesi; il mondo corse a proteggere il povero emiro degli Al Sabah e la dinastia petromonarchica fu liberata e salvata. (Come spiega il giornalista investigativo Michel Collon nel libro Libye, Otan et médiamensonges (sett. 2011), la Nato sul “fronte mediatico libico” ha avuto i consigli di due agenzie statunitensi di Pr molto valide: la Harbour e la Patton Boggs).
Altre incubatrici hanno coronato venti anni di strumentalizzazione bellica dei bambini. Stavolta è la Siria: le “milizie di Assad” avrebbero distrutto il generatore dell’ospedale di Hama con otto bebè prematuri morti nelle incubatrici. Si è presto visto che le immagini di neonati ammucchiati e apparentemente rossi di asfissia si riferivano a un ospedale di Alessandria d’Egitto e che per fortuna i bebè – benché in sovraffollamento – erano vivi.
In mezzo, fra le prime incubatrici e le ultime, gli occidentali e i loro alleati hanno sbandierato la protezione a mano armata di: bambini del Kosovo vittime dei cattivi serbi, bambini afghani vittime dei talebani, bambini libici vittime dei “mercenari di Gheddafi” (per citare dei bambini palestinesi).
Piccole vittime ignorate a milioni
Iraq, guerra del 1991 e successivo embargo e successiva guerra del 2003.
Un’ecatombe. Chi morì nel rifugio di Al Almerya e in una delle tante fosse comuni (le case di civili azzerate dalle bombe). Chi diventò orfano (decine di migliaia i soldati iracheni uccisi anche mentre si ritiravano). Chi nacque deforme e/o morì per l’inquinamento da uranio impoverito.
Chi morì per le durissime sanzioni internazionali. Grazie alla “comunità internazionale”, la mortalità infantile in Iraq era infatti balzata dal 56 per mille del 1990 al 131 per mille nel 1999 ; un bambino su cinque era malnutrito (dati Unicef). Nel 1996 il programma Sixty Minutes intervistò l’ambasciatrice Usa all’Onu Madeleine Albright: “Pare che siano morti di embargo 500mila bambini iracheni. E’ più di Hiroshima. E’ un prezzo giusto da pagare?”; risposta della Madeleine:“E’ una scelta davvero dura ma sì, pensiamo di sì”. E a proposito di neonati: molti ne morirono per mancanza di ossigeno, la cui importazione era vietata dall’Onu per il possibile uso bellico.
Nel 1999 si tacque il fatto che i bambini kosovari e le loro famiglie erano scappati in massa proprio all’arrivo delle bombe Nato a loro difesa (che fecero vittime fra serbi e kosovari senza discriminazioni).
Nel 2001 iniziò la guerra in Afghanistan che da dieci anni annienta interi villaggi (anche in Pakistan) e i suoi abitanti, finora decine di migliaia secondo i tristi body counts. Senza pace è impossibile ogni minimo miglioramento delle condizioni di vita di un paese miserrimo (ed ecco le morti per stenti e malattie).
Nel 2003, bis di bombe occidentali sull’Iraq con un numero incalcolabile di morti bambini, e poi il vaso di Pandora della successiva occupazione anglosassone corredata di: “errori collaterali”; assedio alla città ribelle di Falluja (ottobre 2004) con armi al fosforo bianco stile Dresda, 4mila morti; stragi kamikaze che non finiscono mai.
Nel 2011, in Libia, gli otto mesi di bombe e missili hanno danneggiatopiccole vittime a centinaia di migliaia. Sì! Così tante, se si calcola tutto. Se si calcolano i morti e i feriti sotto le bombe dell’operazione “Protettore unificato” della Nato e dei suoi alleati locali; i quali ultimi hanno già fatto sapere di non avere intenzione di chiedere alla Nato si indagare, nemmeno nei casi conclamati, perché gli effetti collaterali sono normali (“Nato urged to probe civilians killed in Libya war”, Reuters, 16 dicembre 2011). Se si calcolano gli orfani dei combattenti.
Se si calcolano le vittime dell’assedio Cnt/Nato a Sirte (molto peggiore di quello governativo a Misurata). Se si calcolano le decine di migliaia di famiglie sfollate e costrette a vivere in alloggi di fortuna perché hanno avuto la casa distrutta, e tutte le case di Sirte lo sono. Se si calcolano le migliaia di famiglie di libici neri cacciati – pulizia etnica – dalla loro cittadina di Tawergha (gli armati di Misurata impediscono loro di tornare). Se si calcola la perdita di reddito per le famiglie dei moltissimi lavoratori migranti costretti alla fuga. Se si calcoleranno le vittime dell’uranio impoverito, ingrediente dei proiettili missilati dai Cruise.
In “cambio”, quali bambini ha protetto la missione libica? L’ipotetico massacro di civili era stato sventolato sulla base di notizie rivelatesi false.
E quanti dei bambini che secondo fonti non verificabili sono morti inSiria, sono il frutto delle ingerenze esterne che armando il cosiddetto esercito siriano libero allontanano le possibilità di negoziato fra le parti, previo cessate il fuoco?
Incontri: Omar, Sretchco, Najimullah, Ali, Noor
Bassora (Iraq) 1993. Omar aveva la stessa età dell’embargo, due anni e alcuni mesi. Nel piccolo viso mediorientale sgranava uno sguardo vellutato. Vivo e di normale peso, era una consolazione guardarlo dopo le immagini di scheletrini moribondi da embargo, negli ospedali. Sarà sopravvissuto all’embargo e alla successiva guerra, visti i tanti bambini morti per decreto internazionale? E sarà andato a scuola? Nei durissimi anni dell’embargo, a frequentare le aule malconce era poco più del 60% dei piccoli in età scolare; le spese per l’istruzione erano scese a un decimo in dieci anni. E avrà mangiato a sufficienza Omar? E si sarà ammalato di radioattività? Nell’area di Bassora soprattutto, i proiettili a uranio 238 usati nel 1991 hanno triplicato i casi di malattie come la leucemia, le malformazioni infantili, tumori.
Belgrado, 1999. Sretchco, o un nome così. Piccolissimo bimbo serbo, nato di sette mesi durante l’attacco Nato. A spegnerlo sarebbe bastato un soffio, l’interruzione di corrente prolungata e un guasto al generatore; succede, in guerra.
Agam (Afghanistan), 2001. Cullato dalla madre ventenne,Najimullah era nato da pochi giorni, già orfano. Una bomba “contro Bin Laden” aveva centrato dodici uomini fra i quali suo padre mentre riposandosi bevevano scin ciai, the verde (Marinella Correggia, “Gli orfani di Tora Bora”, il manifesto, 27 dicembre 2001). Nel villaggio un uomo, Durkan, sotto altre bombe aveva perso moglie e i cinque figli: “Non sappiamo più nulla di lui, era come impazzito, poi è sparito”. Come starà, peraltro, il pastorello Haninche a undici anni, nel 1999, una delegazione della Campagna italiana per la messa al bando delle mine raccolse fra Herat e Kandahar mentre correva alla ricerca di aiuto con la mano in poltiglia, appena lacerata da una granata (Marinella Correggia, reportage “Lo sminatore di Ghazni”, in Ho visto, edizioni e/o 2003)?
Baghdad 2003. Ali Ismail Eedan. Unico superstite della sua famiglia vittima di un bombardamento, le braccia ridotte a moncherini che incredulo cercava di agitare; divenuto un caso internazionale (l’unico) fu poi portato a Londra per avere almeno le protesi. Riparazione del danno.
Tripoli, fine luglio 2011. Noor, bambinetta color caffelatte dai capelli ricci, viveva nella città orientale di Tobruk con cinque fratelli, la madre e il padre poliziotto; temendo azioni da parte degli insorti, avevano fatto fagotto verso la capitale o verso Zliten, come molti altri. Da mesi Noor doveva accontentarsi di un container metallico.
Sempre a Tripoli, a una nonna non rimanevano che le foto dei suoi due nipotini, e dei loro genitori. Tutti schiacciati sotto le macerie della loro casa nella zona di Arrada Suq Al Juma. Il 19 giugno 2011.
Marinella Correggia
(Fonte: Cadoinpiedi)