La Storia non si celebra, si studia!
Ogni anno con l’approssimarsi del 25 aprile, si susseguono a ritmo incalzante le rievocazioni della guerra di liberazione. E’ un crescendo di manifestazioni, convegni e interventi per celebrare degnamente il sacrificio dei partigiani e di quanti si immolarono per riportare in Italia libertà e democrazia. Le piazze si tingono di rosso e i ricordi della barbarie nazifascista riaffiorano alla mente.
Tutto bene tranne che…
Dei crimini fascisti oramai sappiamo tutto o quasi, ma cosa sappiamo del lato oscuro della resistenza, quello fatto di processi sommari, fucilazioni, fosse comuni e soldati uccisi sui letti di ospedale o prelevati dalle prigioni e freddati con un colpo alla nuca, di violenze e stupri ai danni delle ausiliarie e delle donne fasciste? Poco, molto poco.
E delle motivazioni, non sempre nobili, che hanno portato i partigiani a coprirsi il volto e a imbracciare il fucile cosa ci è fatto sapere? Praticamente nulla.
Conosciamo tutti la triste vicenda dei 7 fratelli Cervi uccisi dai fascisti (è stato perfino tratto un film), ma quanti conoscono l’altrettanto dolorosa storia dei 7 fratelli Govoni, tra cui una donna, assassinati dai partigiani perché uno di essi vestiva la camicia nera?
Si ricordano giustamente le 365 vittime della strage nazista delle Fosse Ardeatine, mentre è stata rimossa dalla storia un’altra orribile strage, quella di Oderzo dove, a guerra finita, 598 tra allievi ufficiali e soldati della Guardia Nazionale Repubblicana furono fucilati dai partigiani e gettati nel Piave dopo la loro resa. Si celebra la strage nazista di Marzabotto, ma si dimentica la strage partigiana di Schio….Di vicende come queste la storia, quella vera, ne è piena.
Non è mia intenzione fare la macabra contabilità dei morti o stabilire chi maggiormente si macchiò le mani di sangue innocente, ma solo contribuire a sollevare quel velo di omertà che copre le malefatte dei vincitori e questo non per spirito di rivalsa, ma solo per amore di verità, perché solo riconoscendo gli errori del passato possiamo evitare di ripeterli in futuro(1).
Messi con le spalle al muro i sostenitori della mitologia partigiana, dopo aver negato per sessant’anni i crimini della loro parte, ora ammettono, a bassa voce e con evidente imbarazzo, che
“in effetti qualche errore e qualche eccesso effettivamente ci furono….però”
e qui incomincia la solita stucchevole tesi di comodo secondo cui da una parte, quella partigiana, c’era chi combatteva per la libertà, mentre dall’altra parte c’erano i sostenitori della tirannide nazifascista. Quindi, secondo loro, quei crimini sono pienamente giustificati dal presunto nobile fine.
Se dovesse prevalere questa logica qualunque crimine, anche il più efferato, sarebbe giustificato, basta inventarsi una motivazione più o meno plausibile, tanto a renderla credibile ci pensa la “libera stampa” e l’autocensura degli “storici” che per puro conformismo tacciono.
Per motivi anagrafici non ho conosciuto il Fascismo e anch’io, come la maggior parte degli italiani, sono cresciuto a pane e resistenza avendo appreso la storia in maniera superficiale dai libri di testo, dai programmi televisivi e attraverso la cinematografia imperniata sui soliti luoghi comuni che vede i cattivi da una parte e i buoni dall’altra.
Solo che non mi sono accontentato della verità ufficiale e ho voluto approfondire le mie conoscenze.
Il risultato è stato che mentre colmavo i miei vuoti i dubbi aumentavano. Dubbi che a tutt’oggi nessuno è stato in grado di sciogliermi.
Il primo dubbio riguarda la definizione dei partigiani quali
”patrioti e combattenti per la libertà”
Il movimento partigiano pur essendo estremamente variegato(2) – e al suo interno profondamente diviso(3) – era militarmente e, soprattutto, politicamente egemonizzato dal Partito Comunista Italiano, all’epoca diretta emanazione della Russia Sovietica da cui prendeva ordine (e denari) tramite Togliatti, stretto collaboratore di Stalin, che infatti viveva in Russia.
Obiettivo dichiarato di questi partigiani era quello di instaurare la dittatura del proletariato e fare dell’Italia, una volta sconfitto il fascismo, uno stato comunista satellite dell’Unione Sovietica.
Non si capisce quindi su quale base logica e storica i partigiani si possano definire tout court patrioti e combattenti per la libertà.
Se l’Italia è oggi una Repubblica “democratica” (sul concetto di democrazia, altro grande equivoco, torneremo) non è certo per merito dei partigiani, ma in virtù della divisione del mondo in due blocchi contrapposti decretata a Yalta nel ’45, da cui scaturì la nostra collocazione nel campo occidentale e la conseguente dipendenza americana.
Il contributo dei partigiani alla sconfitta tedesca fu, infatti, del tutto marginale se lo rapportiamo all’enorme potenziale bellico messo in campo dagli alleati. Le fila partigiane s’ingrossavano man mano che l’esercito tedesco si ritirava sotto l’incalzare degli angloamericani.
Gli stessi americani avevano di loro una scarsa considerazione e li tolleravano solo perché facevano per loro il lavoro sporco come assassinare i gerarchi fascisti e fare attentati dinamitardi per suscitare la rappresaglia tedesca che fu quasi sempre spietata e spropositata(4).
Cosa ci sia poi di nobile e di coraggioso nell’uccidere alle spalle un uomo in divisa e poi scappare a gambe levate, come facevano i partigiani di cui ancora oggi si vantano, non lo capirò mai.
Il 25 aprile del ‘45 Mussolini era a Milano e solo dopo la sua partenza per trovare la morte a Dongo il capoluogo lombardo fu “liberato” dai partigiani che, con le spalle coperte dalle truppe americane, si abbandonarono ad una vera e propria orgia di sangue contro i fascisti o presunti tali, compresi i loro familiari.
Come testimoniano le lapidi al Campo 10 del Cimitero Maggiore di Milano che raccoglie le spoglie dei fascisti (di quelle che si riuscì a recuperare, oltre un migliaio) molti dei quali barbaramente assassinati o fucilati ben oltre il 25 aprile e dopo che ebbero deposto le armi.
Il canale Villoresi era rosso del sangue delle vittime
mi disse un vecchio fascista scampato alla mattanza.
Lo stesso discorso riguarda la Russia di Stalin la quale contribuì in maniera determinante alla sconfitta della Germania nazista, pagando per questo un pesante tributo di sangue, ma al solo scopo di estendere il suo dominio su tutto l’est europeo e non certo per portare in quelle sciagurate terre democrazia e libertà.
Non dimentichiamoci poi che l’Unione Sovietica fu alleata della Germania nazista fino al 1941(5) con la quale si spartì la Polonia due anni prima.
Particolare importante che la storiografia ufficiale nasconde – perché farebbe smontare in un sol colpo la tesi di comodo della “lotta della democrazia contro la tirannide” – riguarda la dichiarazione di guerra di Francia e Inghilterra all’indomani dell’invasione tedesca della Polonia: fu dichiarata alla Germania, ma non alla Russia pur avendo anch’essa attaccato la Polonia alcuni giorni dopo alle spalle, da est. Perché? Evidentemente la Polonia fu solo un pretesto per muovere guerra alla Germania, mentre Stalin, che dopo la Polonia si apprestava ad invadere la Finlandia e ad annettersi le deboli Repubbliche Baltiche con l’assenso occidentale, era considerato già da allora un prezioso alleato, ben sapendo che questi era uno spietato dittatore, che con le sue “purghe” aveva massacrato, deportato nella gelida Siberia e ridotto alla fame milioni di russi, molti dei quali ebrei, definiti “nemici della rivoluzione” (ma questo evidentemente alle democrazie occidentali, America in testa, poco importava).
Il secondo dubbio riguarda la definizione di
“guerra di liberazione”
quando invece fu una classica e tragica guerra civile. I fascisti non venivano da Marte, erano italiani come italiani erano i partigiani. In quei lunghissimi 18 mesi la guerra non risparmiò nessuno, attraversò le famiglie e divise i fratelli.
La guerra è una realtà tragica e quella civile lo è ancor di più, in queste circostanze gli uomini tendono a perdere la loro dimensione umana per accostarsi a quella bestiale, per cui o stendiamo un pietoso velo e consideriamo tutti i morti uguali e rispettiamo gli ideali che animarono le loro azioni giusti o sbagliati che possano apparire, oppure la storia la raccontiamo tutta e per intero, senza reticenze e convenienze politiche.
Altro grande equivoco riguarda la presunta invasione nazista dell’Italia: tedeschi non invasero l’Italia, c’erano già.
Dopo la caduta di Mussolini, avvenuta il 25 luglio 1943, il governo Badoglio chiese aiuto all’alleato tedesco per contrastare gli anglo americani che nel frattempo erano sbarcati in Sicilia(6).
I soldati italiani e tedeschi si ritrovarono, quindi, a combattere spalla a spalla contro l’invasore americano fino all’8 settembre ’43, quando il Re e Badoglio, con estrema disinvoltura e lasciando allo sbando il nostro esercito, passarono armi e bagagli dalla parte del nemico, scatenando l’ira di Hitler.
Solo la nascita della Repubblica Sociale Italiana e la ricostituzione di un esercito lealista cui aderirono, secondo uno studio di Silvio Bertoldi(7) e confermati dai libri matricola, in seicentomila (quanti fossero i partigiani è invece ancora oggi un mistero), frenò i propositi vendicativi di Hitler che aveva previsto il totale smantellamento e trasferimento in Germania del nostro apparato industriale, la deportazione nei campi di lavoro e nelle fabbriche tedesche di tutti gli uomini che si fossero rifiutati di arruolarsi nella Wehrmacht e chissà cos’altro.
Le motivazione che spinsero tanti giovani ad entrare nel neo costituito Esercito Fascista Repubblicano furono diverse e non sempre nobili (come spesso accade in questi casi): il rischio di fucilazione per i renitenti alla leva, l’intento di molti militari deportati nei campi di concentramento in Germania di tornare in Italia per poi disertare, la paga e la voglia di protagonismo.
Vi aderirono anche fior di criminali(8), ma la stragrande maggioranza di essi lo fece per riscattare l’onore perduto e per sottrarre l’Italia alla vendetta hitleriana.
Questi giovani, uomini e donne, potevano al pari di molti loro coetanei, aspettare in qualche luogo sicuro che la tempesta passasse, oppure andare con i partigiani le cui fila s’ingrossavano man mano che i tedeschi si ritiravano e la vittoria alleata si approssimava. Potevano, ma non lo fecero.
Preferirono continuare a combattere, in divisa e a volto scoperto, per quel senso dell’onore che oggi, in epoca di consumismo e individualismo, si fatica a comprendere, consapevoli che le sorti del conflitto erano segnate e che difficilmente ne sarebbero usciti indenni.
Furono migliaia e migliaia in tutta Italia i soldati fascisti fucilati dopo la loro resa o condannati a morte dopo processi sommari, come ampiamente documentato nei libri di Gianpaolo Pansa, di Giorgio Pisanò e di Lodovico Ellena (solo per citarne alcuni).
Un capitolo a parte lo meritano le ausiliarie, giovani e giovanissimi donne, tutte volontarie. Il loro tributo di sangue fu altissimo, catturate dai partigiani venivano spesso stuprate e uccise.
A guerra finita molte di loro, rapate a zero e spesso denudate, furono costrette a passare su carri bestiame tra ali di folla aizzata, sottoposte a insulti e angherie di ogni genere(9).
Il terzo dubbio riguarda la
“Modalità di lotta dei partigiani”
Mentre i fascisti come abbiamo visto combattevano in divisa e a volto scoperto, inquadrati nelle divisioni dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana o nelle varie milizie volontarie i partigiani, invece, pur potendo anch’essi vestire una divisa – essendo armati e finanziati dagli americani(10) – e pur potendo combattere nell’esercito italiano di Badoglio secondo le regole di guerra, preferirono il passamontagna, i soprannomi e la tecnica del mordi e fuggi a base di attentati, sabotaggi e omicidi alle spalle. Tecnica sicuramente meno rischiosa per loro, ma devastante negli effetti.
Il fine era infatti quello di scatenare la rappresaglia tedesca e creare i presupposti per quella guerra civile, poi eufemisticamente definita di “liberazione”, le cui ferite sono ancora oggi aperte e mai si rimargineranno fino a quando la storia, quella vera, non sarà finalmente alla portata di tutti.
Germania e Giappone, anch’esse devastate dal conflitto, non subirono il dramma della guerra civile perché, spiace dirlo, non vi furono quei fenomeni di opportunismo e di asservimento al vincitore che in Italia diedero origine al movimento partigiano.
Rispetto profondamente quegli antifascisti che furono tali durante il regime e pagarono in prima persona per le loro idee, meno, molto meno coloro che cambiarono casacca il giorno dopo la caduta del Duce dopo averlo osannato per anni.
Sono questi i dubbi su cui mi piacerebbe si sviluppasse un sereno dibattito, scevro da pregiudizi ideologici e senza reticenze, finalizzato a capire la storia e non solo a celebrarla, come purtroppo avviene da settant’anni.
Gianfredo Ruggiero, presidente del Circolo Culturale Excalibur – Varese