Rapportarsi con il cibo e la “cucina meditata” di Franca Oberti
Caro Paolo, ti mando un testo che ho spedito l’estate scorsa ad un concorso a Bologna. Si tratta del “Gruppo di lettura San Vitale”, magaari lo conosci o lo conosce Caterina. So che sono principalmente donne e già alcuni anni or sono mi avevano premiata.
Il tema era “Le donne nella storia del cibo”. Anche quest’anno sono stata premiata con l’inserimento del testo in un’antologia che sarà consegnata giovedì 18 dicembre 2014 alle 16 alla Sala Cappella Farnese di Palazzo d’Accursio, in piazza Maggiore 6 a Bologna.
Purtroppo ho già dovuto comunicare che non ci sarò. Speravo in qualche amica della zona, una in particolare, ma non mi ha ancora risposto e so che doveva subire un piccolo intervento. Se avete conoscenze in loco, andate pure a mio nome, sarei felice che qualcuno potesse ascoltare i vari interventi che mi sembrano corposi e interessanti… Questo il programma: Bologna. Donne e cibo – Scrive Maria Rosa Damiani: “Giovedì 18 dicembre 2014, ore 16:00. Antologia e premiazione: Le donne nella storia del cibo. Sala Cappella Farnese Palazzo d’Accursio Piazza Maggiore, 6 – Bologna. Info. 339.2048416″
F.O.
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IL CIBO, UN RAPPORTO SINGOLARE
Una decina d’anni fa, iniziai un percorso di consapevolezza sul cibo.
Ero già sulla via – più o meno come quella di Damasco… – perché da tempo mi interessavo di medicina complementare, ma l’impatto con la realtà alimentare fu l’ultimo ad arrivare. Dopo tante informazioni acquisite, dopo esperimenti su me stessa, dopo letture di ogni genere, su diete di ogni tipo, pubblicai un libro sulla “cucina meditata”, più per imprimere ciò che avevo imparato, che per la gioia degli altri che mi avrebbero letto; il libro aveva questo incipit:
“Ci fu un tempo in cui vivevo per mangiare; compravo riviste di cucina, sperimentavo nuove ricette e riportavo su un quaderno ogni ‘ricetta della nonna’ sulla quale potevo mettere le mani. Non badavo agli ingredienti, al fatto che fossero grassi o magri, alle possibili conseguenze sul fisico; mi piacevano i piatti elaborati, ricchi di grassi; mi cimentavo in portate a lunga cottura; utilizzavo pentole di coccio e, quando ne avevo l’occasione, il forno a legna. Acquistavo carni ricche di calorie, usavo burro e altri grassi condimenti; mi piaceva il sapore del dado nei brasati, negli arrosti e in aggiunta alle minestre. Cucinavo per la famiglia e per gli amici; proponevo piatti delle nostre tradizioni, ma anche esperimenti culinari nei quali mi lanciavo con grande fantasia. Riutilizzavo gli avanzi, ne facevo polpette, intingoli e tortini salati, paste al forno con aggiunte di besciamelle, prosciutto, formaggio. Compravo pezzi enormi di parmigiano reggiano e formaggette intere che sparivano in pochi giorni. Quando andavo in montagna cercavo di rifornirmi di salamini nostrani, coppe, lardo… “
Il fulmine sulla via di Damasco arrivò quando mi resi conto che tutto quel bendidio si accumulava sui fianchi, sulle cosce, sulla pancia di mio marito, sui miei figli, sul colesterolo e sulla pressione arteriosa. Non ero ancora consapevole, provenivo da altra cultura, quella del benessere conquistato nel dopoguerra, dell’ostentazione del grasso, perché era indice di ricchezza. Quando ero bambina non si conosceva la parola “anoressia” ; non avevo ancora assimilato frasi ippocratiche che mi potessero segnalare l’errore.
Credevo fosse normale abbuffarsi; il rutto dopo il pasto abbondante era una costante tra i nostri vecchi, una sorta di ringraziamento alla cuoca; il mangiare era una normale azione quotidiana, a orari stabiliti, dettata da convenzioni o cercata per necessità.
Sentivo parlare di “fame”, che poteva durare giorni e mesi, soprattutto nei racconti del nonno sulla guerra, ma non ho mai ben capito di cosa si trattasse.
Fin dalla prima infanzia, dovevo, ogni tanto, eseguire analisi mediche, per questioni di salute, perciò capivo bene cosa significasse digiunare per poche ore, ma solo per poche ore; mi disturbava, non era piacevole, ma si limitava a quel breve spazio di tempo. Gli uomini della mia famiglia non scendevano sotto i cento chili e spesso, mio nonno, inforcando l’ultimo boccone di una cena sostanziosa, soleva dire: “ciütosto che roba avansa, creppa pansa” (tr.:piuttosto che cibo avanzato, crepi la pancia). Mi è stato inculcato a proverbi il rispetto per il cibo e, di conseguenza, era proibito fare avanzi nel piatto; mio padre mi ammoniva dicendo: “Anche Gesù è sceso da cavallo per una briciola di pane che gli era caduta”; per anni ho cercato questo brano del Vangelo, ma non l’ho mai trovato, forse era una sua interpretazione, ma sono cresciuta con questa frase che mi risuonava ogni volta che avanzavo un boccone e ancora oggi non l’ho dimenticata.
Ora ho imparato a mettere nel piatto porzioni minori, ma una volta c’era soddisfazione persino nel riempire i piatti fino all’orlo… chissà! Una sorta di rivalsa.
Ho manipolato cibo per tutta la vita, in ruoli diversi, dal produttore al consumatore.
Mio padre non si era mai rassegnato alla vita di città, dove svolgevamo l’attività di famiglia: un bar, latteria, pasticceria, e per un breve periodo, anche una panetteria e salumeria; non voleva staccarsi dalle sue radici contadine. Spesso cercava di trasportare gli usi agricoli nel nostro giardino, creando non poco imbarazzo tra i professionisti che abitavano ai piani superiori.
Galline, conigli, piccioni, un’oca, tortore dal collare, non si risparmiava nulla, salvo poi regalarli perché, dopo essere diventato loro amico, non aveva il coraggio di ucciderli per mangiarli. Quando gli orari del suo lavoro si fecero più umani, cominciò a trasferire le sue velleità contadine nella casa di montagna, suo paese d’origine. Lì si sbizzarriva a concimare, zappare, seminare tutto quello che reperiva sui cataloghi di agricoltura, e quando, in primavera, gli si chiedeva cosa avesse seminato quella domenica, lui tagliava corto, rispondendo: “minestrone”.
In quegli anni arrivavano a casa, la sera della domenica, cassette di verdure raccolte all’ultimo minuto, che si dovevano ripulire, lavare e conservare per la settimana. A fine stagione arrivavano le mele, la frutta dell’autunno, le castagne da pelare e far bollire, le nocciole da rompere, le noci e qualche volta comparivano le nespole che si dovevano sistemare nelle cassette con la paglia o fieno, per lasciarle maturare; arrivavano erbette, verze, cicoria.
Ovviamente oltre la mamma ero arruolata anch’io, poi dopo la sua dipartita, toccò sempre e solo a me curare la produzione perché se ne facesse buon uso.
Mio fratello, più giovane, uomo, era naturalmente esentato. La donna di casa ero rimasta io e da allora ho sempre avuto questo ruolo. Allora mi pesava, ora è un compito automatico; il lavoro quasi meccanico mi consente di pensare, di comporre racconti e poesie; in fondo è sempre un contatto con la natura, una natura generosa che ci consente di vivere dignitosamente.
Nel locale che gestiva la mia famiglia, si dovevano recuperare pacchi di biscotti in scadenza, latte del giorno prima, formaggini che sarebbero andati a male se non usati in quei giorni; facevamo colazione con le brioche rafferme. Difficilmente sceglievamo il cibo che volevamo; era, piuttosto, un’attenta selezione di ciò che gli altri avevano lasciato.
Non erano anni difficili, economicamente, ma questo era parte della nostra educazione al risparmio. Nessuno si lamentava e qualche volta andavamo in altri negozi a cercare ciò che ci “stuzzicava”, come premio, invece che come necessità. Eppure, quel rispetto per il cibo, che ho imparato così bene, è diventato, nel tempo, una sorta di “prigione”. Sono ancora legata a orari e pasti, a piatti della tradizione e cene luculliane. Pur sapendo bene quali danni può causare l’eccesso di cibo, a volte si tratta semplicemente di ostentazione del piatto ricercato, della ricerca di cibo insolito e pregiato, o nel dimostrare altre abilità.
E così, nei primi anni di matrimonio, mio marito ed io, tenevamo i ritagli di giornale dei piatti insoliti, compravamo il lardo di colonnata e quando ci capitava di andare in altre regioni d’Italia, prima del mercato globale, si cercavano le specialità del luogo, da portare a casa e gustare con gli amici.
Da bambina, in vacanza dai nonni, imparai a fare il pane e ancora oggi è una mia passione: infilare le mani in chili di farina, vederla trasformarsi alle mie manipolazioni, mi da una soddisfazione che ho provato, in ugual misura, solo quando manipolavo i miei figli da piccoli, quando dipendevano solo da me; nel fasciarli e sfasciarli, preparare loro i biberon inventando mescolanze di biscotti e latte, fare il bagnetto e poi ungerli in ogni piccola parte di quel corpicino tenero che talvolta, mi veniva voglia di “mangiare”. Davo loro sonori baci sul culetto, trattenendo il desiderio di dare morsi, e loro emettevano gridolini di piacere.
Quello che abbiamo ingurgitato nel dopo guerra, credo non sia nemmeno possibile classificarlo. I nostri genitori dovevano rifarsi del lungo periodo della guerra, delle “borse nere”, della fame attanagliante nelle città e della ricerca nei campi di poche radici per chi viveva in campagna, preda dei saccheggi continui dei soldati. Il pane nero, dopo la guerra, non lo potevano più vedere, eppure era una fonte incomparabile di nutrienti integri, ma ancora non si sapeva e si preferiva il pane bianchissimo, nel quale, si seppe poi, qualcuno metteva persino polvere finissima di marmo per renderlo ancora più bianco e più pesante per la bilancia. Quali errori involontari si commisero in quegli anni di ritrovato benessere!
Negli anni della mia giovinezza era ancora presto per parlare di cibo bio, e quella terra, di cui erano piene le foglie dell’insalata, e quelle lumachine che trovavamo, erano indice di cibo sano, al contrario dell’impeccabilità di oggi nell’acquisto di cespi perfetti, pomodori che sembrano finti e non marciscono nemmeno. Le mele più commercializzate di certe valli, sono indigeste quasi a tutti, ma tant’è, il vederle belle e lucide, attira ancora e pochi hanno capito che acquistano la “mela di Biancaneve”.
Mio marito, di recente, si è riscoperto contadino.
Anche lui affonda le sue radici nella terra e il suo ritorno alla zappa non mi ha stupito più di tanto. La sua educazione, però, non si è formata tra i campi coltivati ed era consuetudine, in quegli anni, di allontanare i figli dalla terra, per consentire loro un futuro migliore. Mio suocero, finché è vissuto, nella casa di campagna, si occupava di un piccolo orto; noi lo trovavamo vangato, seminato, rigoglioso; a noi toccava la parte migliore: la raccolta di quello che ci piaceva. Ora non ha più nessuno con cui confrontarsi, nessuno che gli dia consigli, ma ci sono giornali specializzati e gli piace fare sperimentazioni. Il suo frutteto è un’allegra mescolanza di varietà e di innesti e se riusciamo a tenere a bada i caprioli, un piccolo raccolto autunnale ci consente frutta imperfetta, ma ottima e digeribile. Cerchiamo di convivere con la natura e lasciamo che si nutra di una parte del nostro lavoro, in fondo ci gratifica sempre tanto e glielo dobbiamo.
La mia preparazione in Naturopatia e poi in “cucina naturale”, mi ha consentito, di recente, di trasferire ad altri le mie conoscenze attraverso piccoli corsi che spesso mi vengono richiesti. Iniziai ben prima del “boom” culinario di questi ultimi anni e ora, lo confesso, mi sto disinteressando, perché penso che quando tutto è di tutti, la confusione tra ciò che è vero e ciò che è inventato per creare consensi, fa perdere la qualità e subentra la mediocrità.
Non mi hanno stupito le recenti indicazioni di tanti medici, a partire da oncologi famosi, era solo una questione di tempo e ci sarebbero arrivati anche loro. Quello che mi preoccupa è l’insegnamento della medicina, che non ha cambiato una virgola sui tanti schemi preimpostati; ad oggi i nuovi medici non riescono ad accettare nuovi paradigmi ed abbandonare certe forme mentali. La chimica, senza l’alchimia della natura provoca solo danni. Ma ancora non siamo arrivati a comprendere quanto il cibo sia da considerare, proprio in termini di cura della salute; non abbiamo ancora la coscienza che, in fondo, è un complemento per la sopravvivenza. Abbiamo perso l’intuito, l’olfatto, il gusto, ci vengono propinati cibi manipolati con composti chimici che imitano questo o quel sapore e accentuano a tal punto gli aromi, da rendere poi impossibile percepire il tenero e delicato sapore o profumo naturale. Sconvolto il ciclo alimentare dai supermercati che acquistano al mercato globale, non sappiamo più a quale stagione appartengano le verdure che consumiamo ogni giorno e ci troviamo a mangiare pomodori in inverno e cavolfiori d’estate, creando, anche in questo modo, fastidiose patologie e intolleranze.
Ora fioriscono libri di cucina, trasmissioni televisive, marmellate mediatiche che mi stanno nauseando, sì, nel vero senso della parola. Quello che mi indispone di più, però, è l’aria saputella di tante persone, conoscenti, che fino a 10 o 20 anni fa mi prendevano in giro. Dovrei essere felice che anche loro abbiano raggiunto finalmente la consapevolezza, ma talvolta mi è difficile, anche perché alcuni stanno andando oltre, verso una scelta di cibo selezionata all’inverosimile, tanto da sballare tutti i criteri di evoluzione dell’uomo. Non è normale cessare di punto in bianco il consumo di carne; nel nostro DNA le modificazioni avvengono lentamente e il rischio di diventare anemici, soprattutto se donna ancora fertile, è concreto. C’è la corsa al saccheggio selvaggio in tante parti del mondo per vendere questo o quel prodotto, con l’illusione che inghiottendo velocemente una manciata di bacche secche, si possa ottenere la soluzione a tutti i mali. Salvo poi, dopo analisi e ricerche varie, si scopra che quelle bacche possono essere paragonate alle nostre umili corniole che ora marciscono nei boschi abbandonati. Inoltre, tante di quelle erbe che tentano di spacciarci come elisir di lunga vita, e che provengono da altri continenti, hanno le stesse proprietà di umili piantine che falciamo come erbacce nei nostri giardini. Si crede che il sale estratto nelle grotte ymalaiane sia puro, ma ormai cosa c’è di puro su questa Terra? Basti pensare alle acque, che si trasformano in nuvole e piogge in pochi giorni; basti ricordare come l’inquinamento di Chernobyl ha viaggiato per tutto il mondo ai primi venticelli. Sarebbe opportuno approfondire meglio la conoscenza della natura che ci circonda. I ritmi quotidiani sono sempre più veloci e feroci, questo fa sì che subentrino integralismi ed estremismi anche nella cura e nell’uso dei cibi. Basterebbe riflettere un po’ di più, senza arrivare all’altro estremismo, quello del “cibo lento” e trasformarci così in tanti Luculli. Basterebbe osservarsi mentre si mangia, masticare a lungo, “meditare” sul sapore che il nostro palato corroso può percepire, sapere quali reazioni ha provocato un alimento in noi; invece talvolta non sappiamo nemmeno cosa abbiamo ingurgitato durante il pasto precedente. In fondo siamo unici, irripetibili, forse con un po’ più di fiducia nelle nostre intuizioni potremmo trovare il giusto stile alimentare, forse anche mangiando un po’ di meno e cominciando a seguire il ciclo delle stagioni, potremmo poi evitare di trovarci con l’acidità di stomaco, la pancia gonfia e le tante intolleranze che fioriscono ogni anno in maniera esponenziale. La natura stessa ci può rispondere, ma non la ascoltiamo più; ci suggerisce sempre quello che è meglio per noi: un odore sgradevole, un sapore sospetto, il tocco di un alimento che dà ripugnanza, sono tra i tanti campanelli che non ascoltiamo più. Guardiamo la data di scadenza e pensiamo di aver assolto ai nostri compiti.
Il cibo è una delle tre importanti energie che ci sostengono in questa vita, ma sembra che questo “piccolo particolare” interessi poco, ormai. Meglio il piatto pronto, pollo allo spiedo, saccocci veloci, confezioni di plastica che, ci dicono, si possono scaldare, tutto pronto, confezionato, cotto, precotto, condito, colorito e colorato.
E l’uomo moderno, ma soprattutto la donna, la madre di famiglia, lentamente dimenticano che essi stessi sono parte di questa Terra, di questa natura che abbiamo snaturato.
Franca Oberti