“Paura dello straniero” e politica pasticciona, secondo Michele Rallo
Ricordo, negli anni ‘70, un mio fugace e superficiale interesse per la sociologia in quanto materia scientifica; e non – come certamente a me più congeniale – in quanto «strumento di azione sociale» (Comte). Ricordo di aver sfogliato un paio di testi – non di più – e di averli trovati noiosissimi, cervellotici, indisponenti per il loro voler tradurre in scienza esatta l’insieme di azioni, reazioni, sentimenti, pulsioni che – secondo me – sono l’anima della politica. Di quelle svogliatissime letture non ricordo quasi più nulla, ad eccezione di una “regola” sulla xenofobia, cioè sulla “paura dello straniero”: una delle categorie che, oggi, una cultura politica approssimativa e pasticciona riconduce al “razzismo” (che invece è un’altra cosa).
Ebbene – leggevo in uno di quei testi – l’arrivo di stranieri viene generalmente accettato senza traumi da una società moderna ed evoluta; purché – si aggiungeva – la percentuale di stranieri non oltrepassi una certa “soglia” (e non ricordo quale fosse quella soglia). Superata una determinata percentuale, infatti, si verificano automaticamente reazioni xenofobe, anche violente. Attenzione: parlo di quarant’anni fa, quando in una città cosmopolita come Roma gli unici stranieri che si incontravano per strada erano i turisti alla fontana di Trevi. Allora neanche il sociologo più smaliziato avrebbe previsto l’ondata migratoria verso l’Europa, iniziata – guarda caso! – in coincidenza con la fine dell’Unione Sovietica e con il tentativo americano di impossessarsi del mondo intero.
A quella “regola” ho pensato tantissime volte in questi anni, sforzandomi vanamente di ricordare quale fosse quella dannatissima soglia. E chiedendomi non quando sarebbe stata superata, ma da quanto tempo fosse già stata superata, almeno qui in Italia. Me lo chiedevo (e continuo a chiedermelo) ogni qual volta sentivo i nostri politici e i nostri chierici parlare non di accogliere una percentuale X di immigrati, ma “gli” immigrati, praticamente senza limite alcuno, comprendendo in tal novero non soltanto “chi fugge dalle guerre”, ma anche “chi fugge dalle dittature”, quando non anche chi viene da noi “in cerca di una vita migliore”. Me lo chiedevo quando l’omelia di Papa Bergoglio a Lampedusa colpevolizzava l’Italia per non essere abbastanza sollecita e solidale con i clandestini. Me lo chiedevo quando il parlamento italiano votava quasi all’unanimità l’abolizione del reato di immigrazione clandestina. Me lo chiedevo quando le massime cariche dello Stato promettevano la cittadinanza italiana a chiunque fosse nato entro i nostri confini. Me lo chiedo oggi, quando leggo che il sindaco Marino ha redarguito gli abitanti delle periferie romane, dicendo che “l’accoglienza è un dovere”.
Ecco, è proprio la rivolta dei quartieri popolari di Roma a far suonare un campanello d’allarme. Dopo aver superato ogni percentuale teorizzata dalla sociologia, questa volta – probabilmente – è stata superata la soglia vera, la soglia oltre la quale salta tutto per aria. La reazione xenofoba monta, e monta soprattutto nelle periferie, fra i ceti popolari, fra i poveri disgraziati maciullati dalla crisi ed obbligati da un imbecille buonismo di Stato a rimanere tappati in casa dopo le 7 di sera; quando i loro quartieri diventano dominio incontrastato di bande di criminali stranieri, lasciati indisturbati da una Polizia che non ha più gli uomini e i mezzi per assicurare l’ordine pubblico.
Attenzione: non parlo degli immigrati in quanto tali, neanche degli immigrati clandestini. Parlo di quella percentuale (fisiologica?) che è formata da delinquenti abituali. Sono costoro che scorrazzano nelle notti delle periferie, spacciando, ingaggiando duelli rusticani, schiamazzando, intimorendo (quando va bene) i viaggiatori e gli stessi guidatori dei mezzi pubblici. Eppure, una Sinistra evidentemente a digiuno dei rudimenti sociologici, continua a lanciare allarmi sulla presenza di “infiltrati” di Forza Nuova o di Casa Pound nelle manifestazioni spontanee, non riuscendo a comprendere che i costi dell’accoglienza sono pagati soprattutto dai ceti deboli. E, fra i costi dell’accoglienza, in primo luogo quelli relativi alla sicurezza.
Certo, né Berlusconi né Cordero di Montezemolo rischiano di vedere i loro palazzi invasi da torme multicolori in cerca di un tetto. E nemmeno quanti – più modestamente – vivono in un confortevole condominio dotato di porte corazzate e di sistemi d’allarme. Chi – a Roma, a Milano, a Torino – vive in un alloggio popolare, invece, non può allontanarsi da casa neanche per un ricovero ospedaliero, perché al suo ritorno rischia di trovare l’alloggio occupato da avventizi di varie razze e provenienze.
I ricchi o anche soltanto i benestanti si spostano sulle loro auto, specialmente dopo l’imbrunire. I poveri e i diseredati, invece, sono costretti a prendere il bus o la metropolitana, che di notte sono mezzi insicuri, pericolosissimi. Il meno che può capitare a un uomo – su certe linee – è di essere costretto a cedere il portafoglio, compresi documenti e carte di credito. A una donna – anche se non nel fiore degli anni – può capitare di peggio, di molto peggio.
Quello che si finge di non capire è che il problema non è il colore della pelle degli immigrati o dei rom, ma la sicurezza. Quello che gli italiani respingono (e respingeranno sempre, con buona pace degli apostoli dell’accoglienza a tutti i costi) non è “il diverso”, ma il diverso criminale, il diverso delinquente, il diverso violento, o anche soltanto il diverso disturbatore, quello che insulta le vecchiette e fa la pipì sugli autobus. Il problema – non mi stancherò mai di ripetere – è la sicurezza, è la libertà per ciascuno di noi di entrare e uscire da casa a qualsiasi ora, di prendere l’autobus a qualsiasi ora, di mandare i nostri figli per strada senza temere per la loro incolumità. È questa libertà che – ogni giorno di più – viene inibita agli italiani, soprattutto a quanti abitano nelle periferie che sono state lasciate prive di ogni presidio di pubblica sicurezza. Perché – anche su questo si preferisce sorvolare – gli organici delle forze dell’ordine sono ridotti ai minimi termini, i “tagli lineari” hanno falcidiato i fondi per gli straordinari, per la benzina delle volanti, per la manutenzione di armi e mezzi; si chiudono commissariati di Polizia e stazioni di Carabinieri; si rimettono in circolazione migliaia e migliaia di delinquenti abituali, svuotando le nostre carceri diventate ormai invivibili. È una tenaglia: da una parte, l’aumento vertiginoso della delinquenza; dall’altra, la drastica riduzione di uomini e mezzi delle forze dell’ordine. Diciamo la verità: quello che occorre è raddoppiare gli uomini, i mezzi, i presìdi e, naturalmente, gli stanziamenti relativi a tutti gli àmbiti che concernono la sicurezza pubblica. Tutti gli àmbiti, ripeto: dai Vigili Urbani alla Magistratura, passando per Polizia, Carabinieri, Guardie Carcerarie, eccetera. Occorre aprire (e non chiudere) Commissariati di Polizia e Stazioni di Carabinieri. Occorre costruire nuove carceri, e non svuotare le vecchie.
Ma, piccolo particolare: per fare tutte queste cose c’è bisogno di soldi, e noi i soldi dobbiamo utilizzarli solo per pagare gli interessi sul debito pubblico e fare felici i mercati. Ce lo impongono la Banca Centrale Europea, madame Merkel, Standard & Poors e tutta l’allegra brigata dei monetaristi di stretta osservanza. Ecco perché dobbiamo mandare affanciullo quella onorata compagnìa e riappropriarci del diritto di stampare i nostri soldi, senza bisogno di farceli prestare dalle banche americane. E, con i nostri soldi, pagare anche la nostra sicurezza.
Michele Rallo [mailto:ralmiche@gmail.com]
(Fonte: www.europaorientale.net)