“Se cade Kobane…” – La prossima a cadere sarà Roma?
In questi giorni ad un occhio attento è possibile veder comparire in giro per il centro di Roma giovani kurdi a gruppi di tre/quattro che si muovono cercando di non dare nell’occhio, fino a ricomporsi a un cenno prestabilito in un luogo convenuto, formando un gruppo di venti/trenta giovani, ragazzi e ragazze, che cominciano a intonare slogan e a levare in aria cartelli e bandiere delle varie organizzazioni politiche e della società civile kurda, dalle varie fogge e colori. Con o senza permesso sono andati al Vaticano, in piazza SS. Apostoli, alla stazione Termini, piazza Montecitorio: vogliono attirare l’attenzione su un possibile imminente genocidio che riguarda il loro popolo. La città di Kobanê, una enclave a maggioranza kurda in territorio siriano, che da due anni si autoamministra con un sistema di consigli del popolo, comuni, cooperative e dove viene garantita parità di genere e voce a tutte le comunità etniche, che si autodifende con le forze di difesa del popolo, costituite da uomini e donne alla pari, è accerchiata da tre fronti dalle bande armate dello Stato Islamico (IS); sul quarto fronte la Turchia le sostiene e le rifornisce, preparandosi a un’invasione di terra per creare una zona cuscinetto al confine.
Il mondo sa, il mondo ignora: quando ad agosto le bande dello Stato Islamico hanno massacrato la popolazione kurda yezida di Şengal in territorio iracheno, difesa solo dai guerriglieri kurdi accorsi lì dalle varie parti del Kurdistan, il mondo ha debolmente preso nota spalancando la bocca per l’orrore, pronunciando proclami in difesa dell’umanità dai jihadisti, promettendo aiuti e financo armi ai kurdi che combattevano contro di loro. Poi, la parziale marcia indietro. O meglio, gli aiuti umanitari e militari “selettivi”. Possiamo sì aiutare i kurdi a combattere ISIS, ma non troppo e solo quelli che sono nostri alleati (i peshmerga del Kurdistan Regionale Autonomo iracheno di Barzani). Gli altri no. Gli altri rimangono “terroristi”, per non scontentare l’alleato NATO della regione, la Turchia.
E a Roma che succede allora? Succede che mentre i kurdi manifestano da anni con le loro bandiere, pacificamente e sempre rispettando le leggi, solerti funzionari della questura passino una intera mattinata a far sì che non si veda in piazza neanche una bandiera del PKK, in applicazione della “legge”. Già, perchè l’Italia riconosce la lista nera dell’Unione Europea modellata sulla base di quella degli USA, e quindi quella è la bandiera di “terroristi”. Come spiegarlo a un bambino di neanche dieci anni che sventola quella bandiera come la “sua” bandiera? O alla donna che è venuta dalla Toscana per manifestare contro il massacro del suo popolo dai tagliagole di IS? A Milano, in Toscana, in tante città ci sono state manifestazioni dove questa bandiera ha sventolato liberamente, come del resto si poteva fare anche a Roma fino a solo qualche mese fa. Ma poi possiamo permetterci di giudicare una bandiera quando è a rischio l’umanità? E se poi la manifestazione è senza permesso? Consigli materni e pacche sulle spalle: “Noi vi capiamo, sapete, però in Italia c’è una legge, non potete bloccare il traffico, poi così non ottenete nulla, non vi ascolta nessuno, scrivete al cardinale tal dei tali, il Santo Padre ascolta tutti”, “Signora abbiamo provato a scrivere due-tre volte, ma nessuna risposta, ecco perché siamo qui oggi….”.
Certo anche i partigiani che combattevano i nazi-fascisti erano considerati “banditen”, banditi, terroristi. Poi riconosciuti patrioti e difensori dei valori della democrazia, grazie a loro oggi viviamo in quella che chiamiamo democrazia, e che però rischia sempre più di diventarne un inutile simulacro, se ci si disabitua a prendere posizione dalla parte del giusto per “rispettare le leggi”. Grazie a loro oggi non abbiamo ancora una polizia fascista, come quella che è stata istituita sotto le insegne del fascista Stato Islamico nei territori da quest’ultimo conquistati al cosiddetto califfato. Grazie a loro abbiamo la libertà di manifestare e di parlare. Non dimentichiamocene, quando guardiamo a Kobanê: quelle donne e quegli uomini che stanno difendendo la città, la sua popolazione, le sue conquiste civili nel caos della guerra siriana, hanno dichiarato che resisteranno fino all’ultima goccia di sangue. Ognuno di noi, nel suo piccolo, faccia qualcosa per scuotere il mondo: i giornalisti dicano la verità, i politici prendano decisioni scomode, i funzionari di pubblica sicurezza litighino con i loro superiori, o almeno provino a parlarci, i lavoratori vadano a lavorare con un cartello, un adesivo, una spilletta, parlino con i loro colleghi, li informino. I professori ne parlino con i propri studenti. Diamo una risposta giusta a quei ragazzi kurdi che si aggirano per la città, a quei bambini che alzano la bandiera del PKK, a quelle donne che urlano la loro rabbia contro la Turchia, che mentre fa finta di giocare al negoziato con Öcalan, pianta un coltello nella schiena del popolo kurdo. Se cade Kobanê, la risposta sarà ancora inevitabilmente la guerra!
Alessia Montuori