Origine del consumismo e l’obsolescenza programmata
Circa un secolo fa la concorrenza tra i produttori mondiali di lampadine era feroce. Ognuno cercava di produrre una lampadina migliore degli altri. Questa corsa alla resistenza aveva però un effetto controproducente per i produttori. Con Bernard London (1932) nacque così la teoria della “obsolescenza pianificata”: immettere sul mercato un prodotto che non dura molto, in modo da venderne di più
OPINIONI – Circa un secolo fa la concorrenza tra i produttori mondiali di lampadine era feroce. Ognuno cercava di produrre una lampadina migliore degli altri, sopratutto sotto l’aspetto della durata. La concorrenza spingeva la ricerca a produrre lampadine che si bruciassero sempre più raramente.
Alla metà degli anni ‘20, le migliori lampadine venivano garantite per una durata di almeno 2500 ore di vita. Questa corsa alla resistenza del prodotto aveva però un effetto controproducente per i produttori, che vendendo lampadine che duravano molto finivano per venderne di meno.
Nel 1924 i grandi produttori di lampadine si riunirono intorno a un tavolo e fondarono il cartello Phoebus in cui decisero di non produrre lampadine che durassero più di 1000 ore, al fine di venderne di più.
Al cartello aderirono le più grandi società produttrici del tempo: General Electric Company, Tungsram, Compagnie di Lampes, OSRAM e Philips. Il cartello ebbe anche il merito di standardizzare l’attacco della lampadina, dando vita alla cosiddetta “virola”. Prima di allora ogni produttore commercializzava lampadine con un innesto differente.
Si tratta del primo caso storicamente documentato di “obsolescenza pianificata”: la casa costruttrice decide di immettere sul mercato un prodotto che non dura molto, in modo da venderne di più.
Nel 1975 lo scienziato tedesco Dieter Binninger inventò una nuova lampada con una durata di 150mila ore, ossia 17 anni di uso continuo. Lo scienziato non trovò nessun produttore disposto a mettere in commercio la sua lampada, fino a quando non morì in un incidente aereo e della sua invenzione non si seppe più nulla. La dimostrazione che le lampadine (prima del cartello) potessero durare molto ce la dà una caserma dei pompieri di Livermore (USA), dove una lampadina chiamata Centennial Light, è accesa da 113 anni. Qui il sito ufficiale, dove potete controllare se la lampada si è finalmente bruciata oppure continua a funzionare: http://www.centennialbulb.org/
Un altro esempio significativo è legato alla invenzione della prima fibra sintetica, il Nylon. Quando negli anni trenta i ricercatori dell’azienda chimica DuPont lo inventarono, era talmente robusto che le calze prodotte con questo materiale duravano moltissimo e non si smagliavano. La Dupont incaricò gli stessi ricercatori che l’avevano inventato di indebolirlo, al fine di poterne vendere di più.
Il termine “obsolescenza pianificata” è stato coniato nel 1932 dal mediatore immobiliare Bernard London. In base alle sue idee, l’obsolescenza doveva essere imposta per legge, in modo da risollevare i consumi negli Stati Uniti durante la grande depressione. In base alla proposta di London, i consumatori avrebbero dovuti essere obbligati per legge a consegnare i prodotti dopo un certo tempo per comprarne di nuovi. Più tardi il designer statunitense Brooks Stevens reinterpretò il concetto di obsolescenza pianificata dandogli una nuova definizione: «l’instillare nell’acquirente il desiderio di comprare qualcosa di un po’ più nuovo, un po’ migliore e un po’ prima di quanto non sia necessario». L’idea di Stevens era di progettare prodotti sempre nuovi e moderni, generando nuovi gusti, mode e necessità.
Anche un film inglese del 1951 si occupò del tema. Ne “Lo scandalo del vestito bianco” uno scienziato crea uno straordinario tessuto, indistruttibile e impossibile da sporcare. Gli industriali per cui lavora gli si oppongono e cercano di costringerlo a distruggere la fibra perché i vestiti, impossibili da sciupare, avrebbero verosimilmente determinato il crollo dell’industria tessile.
Anche nel più famoso “Morte di un commesso viaggiatore” il protagonista afferma con rabbia: «Per una volta vorrei possedere qualcosa interamente prima che si rompa. Faccio sempre a gara con lo sfasciacarrozze, finisco di pagare l’auto ed è già agli ultimi colpi! Il frigorifero consuma le cinghie come un dannato maniaco! Queste cose le programmano: quando hai finito di pagarle sono già consumate!».
Storia vecchia? Non tanto. Nel 2003 la Apple venne citata in giudizio con una class action, a causa della durata delle batterie dell’iPod, che secondo l’accusa erano volutamente programmate conuna breve vita così da costringere il consumatore a comprare un nuovo modello di iPod dopo un limitato periodo di uso, stimato intorno ai 18 mesi. Inoltre l’azienda in origine non offriva sul mercato le batterie di ricambio. La Apple alla fine accettò di offrire rimborsi ai clienti che riscontravano batterie difettose e anche di pagare le spese legali, senza tuttavia ammettere responsabilità di reato.
Per non parlare delle moderne stampanti a getto d’inchiostro, offerte a prezzi convenientissimi ma che dopo poche stampe sono scariche e costringono a comprare cartucce di inchiostro di ricambio al prezzo doppio rispetto al costo originale della stampante. Anche con le cartucce nuove però dopo pochi mesi le stampanti si rompono. Qualunque centro di assistenza, consiglia che visto il basso costo, è più conveniente comprare una stampante nuova che far aggiustare quella vecchia. Così quella vecchia viene buttata e se ne compra una nuova. Un gruppo di smanettoni ha però scoperto che dentro la stampante c’è un apposito circuito elettronico (una eprom) che si preoccupa di contare le copie effettuate. Raggiunto un certo numero di copie, ecco che la stampante si “autodistrugge”. In rete è possibile trovare programmi – illegali, chissà perchè – che si occupano di resettare queste eprom, facendo sì che le stampanti credano di essere sempre nuove e continuino a lavorare per anni. Se ce ne era bisogno, quella delle stampanti è la prova provata dell’utilizzo su larga scala della obsolescenza programmata per sostenere vendite e consumi.
Da sempre il mercato dei pc ci costringe a comprare nuovi programmi e nuovi computer su cui farli girare. Prendiamo il caso del famoso programma di scrittura Word: Rilasciato per la prima volta nel 1983, pesava pochi kiloBite e girava su macchine molto primitive rispetto a quelle che abbiamo oggi sulle nostre scrivanie. L’ultima versione di word pesa qualche gigaBite e richiede macchine molto potenti per poter funzionare. Ma in sostanza la prima versione di word fa quello che fa l’ultima: permette di scrivere un testo e curarne la grafica. Questo ciclo perverso che rimbalza tra hardware e software ci costringe sempre più spesso a cambiare programmi e computer, per fare sempre le stesse cose.
Ma possiamo permetterci questa strategia? Non solo come consumatori, costretti a comprare prodotti scadenti e progettati per rompersi sempre più spesso, ma anche come pianeta? Possiamo proseguire con un modello di sviluppo che si basa sul produrre merci che in breve tempo diventano rifiuti? Giusto, i rifiuti. Che fine fanno questi prodotti che non ci servono più?
I prodotti elettronici giunti alla fine del loro ciclo sono classificati come rifiuti tossici. Le convenzioni internazionali vietano di esportare rifiuti tossici, ma questo divieto viene facilmente aggirato. Vecchi Pc e stampanti vengono caricati su navi e inviati verso paesi del terzo mondo come prodotti di seconda mano e “aiuti” internazionali. La destinazione privilegiata di questi traffici sono i paesi dell’Africa occidentale, in particolare Benin, Costa d’Avorio, Ghana, Liberia e Nigeria, mentre la fonte è sopratutto il Vecchio Continente. Qui i nostri rifiuti vengono abbandonati in discariche a cielo aperto, dove spesso vengono bruciati per cercare di recuperare il prezioso rame. Questa operazione, eseguita con mezzi di fortuna e molto spesso da bambini, fa si che si rilascino tossine e sostanze inquinanti che causano gravi malattie nella popolazione.
Che fare? In Francia a fine settembre la commissione speciale per l’energia dell’Assemblée Nationale ha approvato un emendamento contro l’obsolescenza programmata. Staremo a vedere se questa proposta resisterà all’esame dell’aula. Secondo i tre parlamentari ecologisti che lo hanno presentato, l’obsolescenza programmata è un reato punibile fino a due anni di reclusione, oltre che con una multa fino a 300mila euro. Cioè, chiunque produca oggetti in modo da farli durare poco si renderebbe responsabile di truffa ai danni dei consumatori, sostengono i deputati Eric Alauzet, Denis Baupin e Cecile Duflot. In Italia un anno fa è stata presentata una proposta di legge per contrastare l’obsolescenza programmata: da allora giace su un binario morto della commissione attività produttive.
Andrea Vignoli – redazione@alessandrianews.it