Israele-Palestina. È sempre in palio l’alternativa fra unità o patrie separate

Per spez­zare l’«arco della guerra» in Medio Oriente potrebbe essere venuto il momento di atti o fatti meta­po­li­tici. Se l’esperienza ha un senso, si deve pur pren­dere atto che il con­flitto ha ormai un secolo di vita.
Anche il «califfo» che capeg­gia l’offensiva jiha­di­sta fra Iraq e Siria cono­sce gli accordi Sykes-Picot del 1916. Sono pas­sati 66 anni dalla fon­da­zione dello stato ebraico, 47 dalle occu­pa­zioni della guerra dei sei giorni e 21 dall’accordo di Oslo, che in teo­ria aveva sciolto i nodi essen­ziali della con­vi­venza fra Israele e Palestina.

Non è un caso che l’ultima ini­zia­tiva di pace di un certo rilievo sia la pre­ghiera reci­tata da papa Fran­ce­sco con i suoi ospiti nei giar­dini vati­cani. Mal­grado l’abominio dei due cri­mini, o pro­prio per que­sto, l’assassinio dei tre ragazzi israe­liani in Cisgior­da­nia e del ragazzo pale­sti­nese a Geru­sa­lemme, se ha rive­lato quanto siano forti l’odio e la sete di ven­detta, è ser­vito ad aprire gli occhi di molti sull’abisso che sta di fronte a tutti.

Una volta si par­lava di crisi o guerra «arabo-israeliana». Con l’emergere dell’Olp e soprat­tutto con l’affermazione della lea­der­ship cari­sma­tica di Ara­fat, per anni tenne il campo la «causa pale­sti­nese». La novità prin­ci­pale è che il con­flitto tende sem­pre più a con­fi­gu­rarsi come una «que­stione israe­liana». Israele ha dalla sua la forza mili­tare, eser­cita un’ovvia ege­mo­nia poli­tica e tiene i ter­ri­tori come ostaggi. L’asimmetria è lam­pante anche nel diverso ruolo che hanno da una parte gli arabi che vivono in Israele e dall’altra i coloni ebraici dei set­tle­ments in quella che dovrebbe essere la Pale­stina. Con un altro clima, potreb­bero essere due testi­mo­nials alla pari di una futura con­vi­venza. Al limite, non ci sarebbe biso­gno di rimuo­vere nes­suno per ragioni di sicu­rezza o per rispet­tare i diritti. Ma fra lo sta­tus degli uni e degli altri c’è una spro­por­zione che nelle con­di­zioni attuali non è col­ma­bile. Se non si ha in mente una realtà plu­rale – geo­po­li­tica, ideo­lo­gica e morale – in cui non c’è una fron­tiera divi­so­ria insu­pe­ra­bile, non solo una «linea verde» o un muro ma quel ter­ri­bile diva­rio astratto fra un Nord per­ce­pito come «civiltà» e un Sud retro­cesso a «bar­ba­rie», si ripro­duce ine­vi­ta­bil­mente un feno­meno di incom­pa­ti­bi­lità. È così che in Alge­ria avvenne l’esodo in massa dei pieds-noirs all’atto dell’indipendenza smen­tendo — pro­prio i coloni fran­cesi — le ragioni stesse della difesa a oltranza dell’Algérie fra­nçaise.

Nell’insieme Israele-Palestina è ancora in palio l’alternativa fra unità o patrie sepa­rate che si tra­scina dai tempi del man­dato. A giu­di­care dai pro­po­siti attri­buiti al nuovo pre­si­dente, da argo­mento peri­fe­rico lo stato bi-nazionale è arri­vato al ver­tice del potere di Israele. La poli­tica di Israele si dibatte fra sepa­ra­zione o annes­sione. Il dilemma non è stato risolto, ideal­mente e nella pra­tica, nep­pure con l’abbandono di Gaza: Sha­ron si portò den­tro quella con­trad­di­zione fino al buio dell’invalidità e poi della morte. Israele, Neta­nyahu dopo Sha­ron, non si è mai ras­se­gnato alla “per­dita” di Gaza, parte inte­grante, al pari della Giu­dea e della Sama­ria, dello spa­zio fra mito e sto­ria a cui fa rife­ri­mento il “ritorno”. La Stri­scia è trat­tata come un arto ampu­tato che non si esclude di recu­pe­rare. Non si spiega altri­menti il riflesso con­di­zio­nato che ha deter­mi­nato due guerre e che ispira la ten­ta­zione ricor­rente di “inter­ve­nire” per domare il “regno” di Hamas. I razzi lan­ciati dal ter­ri­to­rio di Gaza sui vil­laggi israe­liani di fron­tiera, per quanto cari­chi di respon­sa­bi­lità da una parte e di sof­fe­renze dall’altra, potreb­bero essere solo un falso problema.

La dif­fi­coltà estrema del nego­ziato asfit­tico che si è pro­tratto nei vent’anni dopo la ceri­mo­nia fra Ara­fat, Rabin e Peres alla Casa Bianca deriva da un’agenda che non ha mai scelto chia­ra­mente e defi­ni­ti­va­mente fra sepa­ra­zione e annes­sione (che sul lato dell’Olp potrebbe essere intesa come una ricom­po­si­zione di una terra fin troppo lace­rata). La geo­gra­fia, la demo­gra­fia e la demo­cra­zia sono state stra­paz­zate in modo insop­por­ta­bile. Con il tempo l’insediamento umano sul ter­reno è pro­fon­da­mente mutato (al di là della suc­ces­sione natu­rale delle gene­ra­zioni). Sono cam­biati i fat­tori sog­get­tivi e mate­riali. Sarebbe un dramma se si con­fer­masse la ten­denza alla par­tenza dei “migliori” (i sio­ni­sti di sini­stra) o, se si pre­fe­ri­sce, di coloro che per inte­ressi per­so­nali, di ceto o di reli­gione, cre­dono nella con­cor­dia prima di ogni solu­zione con­cor­data (le éli­tes istruite, i cri­stiani). Per­sino la logi­stica degli ultimi due delitti rispec­chia la con­fu­sione e sovrap­po­si­zione di habi­tat e iden­tità: i tre israe­liani face­vano l’autostop su una strada ben den­tro la West Bank ma riser­vata al traf­fico degli israe­liani; il pale­sti­nese viveva in un quar­tiere di Geru­sa­lemme, pro­cla­mata capi­tale eterna di Israele.

Israele è ogget­ti­va­mente sco­rag­giato dallo stru­mento della diplo­ma­zia così come è stata pra­ti­cata finora. Non è stato tro­vato in effetti nes­suna intesa sui ter­mini della sepa­ra­zione. Per que­sto la solu­zione dei due stati suona come una causa per­duta. Sic­come lo sta­tus quo è inso­ste­ni­bile, si va in cerca di nuove idee, dando per scon­tato che si dovrà sacri­fi­care o l’accordo o la sepa­ra­zione o entrambe le due opzioni. L’ipotesi di una Pale­stina disar­mata e neu­tra­liz­zata, senza con­fini, senza con­ti­nuità ter­ri­to­riale, senza la pos­si­bi­lità di comu­ni­care con i paesi arabi vicini, priva delle sor­genti dei fiumi, non è più tanto attraente nem­meno per Israele. Come extrema ratio si pro­pende – non solo i “fal­chi” — a un’annessione di fatto o di diritto, a volte chia­mata più bene­vol­mente “appli­care la legge israe­liana”. La sovra­nità “gri­gia” verso cui stava diri­gen­dosi l’Autorità nazio­nale pale­sti­nese è con­trad­detta dal com­por­ta­mento delle forze armate israe­liane e dalla disar­ti­co­la­zione dei ter­ri­tori occu­pati a livello di mobi­lità. Pro­ba­bil­mente Neta­nyahu vuol far pagare a Abu Mazen la mezza vit­to­ria fatta regi­strare con la mezza ammis­sione all’Onu. Una fat­ti­spe­cie simile a quella del Cur­di­stan ira­cheno o del Soma­li­land, garan­tita rispet­ti­va­mente da Tur­chia ed Etio­pia, non è ripro­du­ci­bile in Pale­stina almeno fino a quando l’Egitto non avrà scelto il suo modo d’essere e d’agire.

Sono due le ragioni che hanno finora dis­suaso l’annessione dei ter­ri­tori presi alla Gior­da­nia nel 1967: un con­trac­colpo a livello inter­na­zio­nale e le impli­ca­zioni demo­gra­fi­che. La que­stione demo­gra­fica potrebbe essere depo­ten­ziata con encla­ves e can­toni pale­sti­nesi da inten­dere come “pic­cole patrie”. Nella società israe­liana di oggi l’idea dell’apar­theid potrebbe risul­tare meno ostica di un tempo. L’eventuale oppo­si­zione degli Stati Uniti e dell’Unione euro­pea a un passo fatale (ma è più pro­ba­bile un pro­cesso stri­sciante e gra­duale) potrebbe essere ammor­tiz­zata nello stra­vol­gi­mento delle alleanze che ha già por­tato a una spe­cie di asse Israele-Arabia Sau­dita. I due alleati prin­ci­pali degli Usa nella regione rea­gi­scono così a una poli­tica ame­ri­cana che, dopo i ten­ten­na­menti nel gestire le Pri­ma­vere arabe, è sem­pre più atti­rata dalla ricerca di un modus vivendi con l’Iran.

Il governo di Israele non è mai stato par­ti­co­lar­mente attento alla lega­lità inter­na­zio­nale. Oggi è al limite di dover subire una cam­pa­gna di san­zioni ampliando gli inter­detti che riguar­dano già i pro­dotti pro­ve­nienti dai set­tle­ments. La sua stra­te­gia è sem­pre stata di uscire dall’angolo in cui teme di essere rin­chiuso alzando la posta.

La vera inco­gnita è rap­pre­sen­tata dallo spet­tro di una Terza Inti­fada che veda in campo non Hamas o non solo Hamas ma Al Fatah in prima per­sona. Sia i ser­vizi segreti che l’opinione pub­blica di Israele sono con­vinti che le rivolte nel mondo arabo hanno miglio­rato la posi­zione d’Israele, che infatti non è mai stato coin­volto come ber­sa­glio pri­ma­rio o effetto col­la­te­rale. I pale­sti­nesi della West Bank si sen­tono iso­lati e sono pres­so­ché senza “padrini”. Della con­ver­genza tat­tica fra Israele e le monar­chie sun­nite del Golfo si è detto. La Siria è in piena guerra. Una brec­cia potrebbe aprirsi solo sul fronte liba­nese. D’altra parte, appare remota una reale inte­gra­zione di Israele nella regione uti­liz­zando le enormi risorse di soft power che avrebbe a dispo­si­zione, come si era pen­sato acca­desse quando fu fir­mata la pace di Camp David.

Gian Paolo Calchi – Lista Peacelink

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Mio commentino: “Intanto la “vendetta” israeliana non si è fatta attendere… Blitz aereo su Gaza, il 9 luglio, con 40 morti civili comprese donne e bambini e numerosi feriti. Le organizzazioni umanitarie, compreso il nostro Circolo Vegetariano VV.TT., condannano le operazioni israeliane di punizione collettiva in Cisgiordania a Gerusalemme est e a Gaza a seguito della scomparsa dei tre giovani coloni dei giorni scorsi. Oltre 80 dei massimi esperti e 30 organizzazioni legali, tra cui l’Associazione nazionale dei Giuristi Democratici, hanno firmato una lettera che chiede all’ONU e agli Stati di intraprendere azioni concrete contro l’impunità di Israele. (Paolo D’Arpini)”

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