La crisi bancaria, in sintesi, spiegata da Francesco Gesualdi detto “Francuccio”

Per raccontare la crisi bisogna riavvolgere il filo della storia fin verso l’anno 2000 e trasferirci negli Stati Uniti. Sotto l’effetto della globalizzazione l’economia americana mostra segni di stanchezza: molte aziende si trasferiscono all’estero, l’occupazione ristagna, il Pil non cresce secondo le aspettative. Serve un colpo di frusta e la Federal Reserve, Banca Centrale americana, decide a piu’ riprese di ridurre i tassi di interesse secondo la logica che se il denaro costa meno le imprese saranno stimolate a investire di piu’. E in effetti, almeno nel settore dell’edilizia la ripresa c’e’ perche’ i mutui a condizioni vantaggiose stimolano molte famiglie a comprare casa. In breve il fenomeno si fa massiccio e il mercato della casa si surriscalda. Le vendite si impennano, i prezzi salgono giorno dopo giorno fino a raddoppiare in pochi anni. L’euforia e’ alle stelle, c’e’ la convinzione che i prezzi continueranno a crescere all’infinito, molti comprano casa non per procurarsi un tetto, ma per fare un investimento. Pochi anni di attesa e la casa puo’ essere rivenduta ad un prezzo che permette di recuperare non solo i risparmi impiegati, ma anche il costo del mutuo e un sovrappiu’ che puo’ essere utilizzato per mandare il figlio al college, per cambiare l’automobile, per rinnovare la mobilia, per fare una vacanza da favola. E’ il sogno americano che per qualche anno si avvera, ma poi si trasforma in un incubo sotto la spinta della speculazione.
La ragione per cui i mutui entrano nella macchina speculativa va ricercata nell’esigenza delle banche di non aspettare trent’anni per recuperare le somme date in prestito. Per motivi contabili, fiscali e finanziari hanno piu’ interesse a stipulare molti mutui, recuperati rapidamente cedendoli ad altri, che a stipularne pochi tenuti fino a scadenza. Il che le porta a rivolgersi ad altre banche, cosiddette d’investimento perche’ specializzate in attivita’ finanziarie diverse dai depositi e prestiti. Alcuni dei nomi piu’ celebri sono Merrill Lynch, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Citibank, a cui potremmo aggiungere Lehman Brothers, se non fosse fallita nel 2008 per eccesso di azzardo.
Quando giunsero le prime richieste di cessione dei crediti, le banche d’investimento sentirono subito odore di soldi e si dichiararono disponibili a concludere l’affare. Probabilmente non usarono soldi propri, ma presi in prestito, e dopo aver mercanteggiato per ottenere uno sconto quanto piu’ alto possibile, subentrarono come nuovi creditori. Ma non per molto, perche’ neanche loro si sognavano di tenere i mutui nel cassetto. Il loro obiettivo era rivenderli e non necessariamente ad altre banche, ma a fondi pensione, assicurazioni, fondi di investimento, in una parola a chiunque si affacci sul mercato finanziario. La strategia consisteva nella frantumazione dei mutui in quote di taglio minore per poi rivenderle singolarmente sotto forma di certificati noti come cartolarizzazioni. Su ogni certificato la specifica degli interessi e delle condizioni di rientro del capitale comprese le perdite in caso di insolvenza da parte del debitore. E infine il prezzo, comprendente non solo il valore della porzione di debito acquistato, ma anche un sovrappiu’ destinato alla banca per i suoi servigi. In fondo e’ solo per incassare le commissioni che la banca d’investimento allestisce le sue operazioni di vendita.
La vendita delle cartolarizzazioni ando’ bene fin dall’inizio. Le famiglie americane ispiravano fiducia, i tassi di interesse erano allettanti, la clientela era assicurata. Buoni affari in vista: le banche d’investimento si fregarono le mani. Ma per fare girare la macchina servivano mutui e le retrovie vennero messe sotto pressione.
Approfittando di una legislazione piena di smagliature, anche le societa’ piu’ sgangherate si trasformarono in procacciatori di mutui. Nacquero i mortgage brokers, gli agenti di mutui. Piu’ simili a venditori di pentole che a funzionari di banca, a centinaia di migliaia passavano di casa in casa per strappare firme su contratti di mutuo. Il curriculum di molti di loro non brillava per onesta’, al loro attivo avevano condanne per truffa, furti, estorsioni. Il raggiro era la loro arte, promettevano interessi vicino allo zero e tempi di restituzione dilazionati, molti contratti furono firmati sul tavolo di cucina senza neanche essere letti. Migliaia di poveracci si impegnarono per somme che non avrebbero mai potuto restituire, ma il particolare non interessava. L’importante era foraggiare l’industria delle cartolarizzazioni, sicuri che finche’ stava in piedi, tutti avrebbero avuto la loro parte: agenti, banche commerciali, banche di investimento, agenzie di rating.
Nel 2007 i mutui sulla casa oltrepassano i 10.000 miliardi di dollari, ma per il 14% sono subprime, ossia inaffidabili perche’ sottoscritti da famiglie povere (1). Le banche di investimento lo sanno, ma tirano dritto. Alla stregua dell’industria del formaggio che ricicla tutto, compreso le mozzarelle avariate, cosi’ la macchina delle cartolarizzazioni, mescola i mutui buoni con quelli marci. E per nasconderli meglio si inventa un sistema complicatissimo che pero’ spaccia per estremamente lucroso. E’ il sistema dei Cdo, collateralized debt obligation, certificati ibridi, per meta’ scommessa, per meta’ titoli di credito. Qualcuno, piu’ fantasiosamente, li ha definiti titoli-salsiccia perche’ derivanti dal rimescolamento di piu’ debiti.
Per farla semplice, quando le banche d’investimento si rendono conto che le cartolarizzazioni dei mutui inaffidabili si smerciano male, cercano di piazzarli sul mercato associandoli ad altri debiti ritenuti piu’ sicuri. Per cominciare formano un paniere in cui inseriscono debiti molto sicuri e debiti poco affidabili. Quindi emettono dei certificati nuovi di zecca che pur essendo tutti collegati a cio’ che succede al paniere, godono di trattamenti differenziati in base al rischio che l’investitore vuole assumersi. Generalmente sono tre le scale di rischio: senior a basso rischio, junior ad alto rischio e mezzanini a rischio intermedio. I titoli senior ricevono bassi tassi di interesse, ma in caso di sofferenza del paniere sono i piu’ garantiti in termini di restituzione del capitale. Gli junior, al contrario, ricevono alti tassi di interesse, ma se qualcosa va male sono i piu’ penalizzati.
Ovviamente il consiglio della casa e’ di comprare panieri interi in modo da disporre di portafogli equilibrati. Altrimenti che ognuno faccia la propria scelta in base al grado di rischio che vuole correre. E siccome la bramosia per alti guadagni e’ la benzina della finanza, sono proprio i Cdo piu’ rischiosi ad andare a ruba. Tanto piu’ che possono fregiarsi della tripla A, il sigillo di garanzia rilasciato da Moody’s, Fitch e tutte le altre agenzie di rating.
Nel 2008 i Cdo in circolazione ammontano a 1.500 miliardi di dollari e sono insinuati in ogni rivolo del sistema finanziario mondiale: banche, fondi pensione, assicurazioni (2). Tutti ne avevano fatto riserva ritenendoli piu’ sicuri e piu’ vantaggiosi dell’oro. In realta’ si dimostrarono una montagna di polpette avvelenate che mando’ in tilt l’intero sistema bancario a livello mondiale.
I primi segnali di crisi arrivano nella primavera 2006. Le vendite di case cominciano a calare e i prezzi a raffreddarsi. Ma invece di prendere atto che la festa e’ finita l’industria dei mutui accelera nel tentativo disperato di rivitalizzare il mercato. I procacciatori di mutui si danno ancora piu’ da fare e dal dicembre 2006 all’agosto 2007, Goldman Sachs crea e vende qualcosa come 24 miliardi di Cdo (3). Ma nel giugno 2007 si verifica il primo incidente che non lascia adito a dubbi. La vittima e’ Bear Sterns, un mostro finanziario a piu’ teste con attivita’ in ambito bancario e speculativo, compresa la concessione e cartolarizzazione di mutui. Il direttore e’ un certo Ralph Cioffi ed anche lui, come tutti i dirigenti della finanza, ha il vizio di condurre gli affari con soldi presi a prestito, per tempi ridotti, perfino alla giornata, per pagare tassi di interesse piu’ bassi. Nel 2007 Bear Sterns registra 383 miliardi di debito a fronte di un capitale sociale di 12 miliardi. Un rapporto di 31 a 1, neanche fra i peggiori considerato che c’era chi arrivava a 40 a 1.
Poteva capitare che Cioffi chiedesse prestiti dalla sera alla mattina anche per 70 miliardi di dollari, ma finche’ il mercato tirava e il valore dei titoli reggeva, riusciva sempre a ottenere i prestiti dando in garanzia i titoli che aveva in cassaforte. Ma nel giugno 2007 scivolo’ su un prestito di 3 miliardi di dollari che dava in garanzia un pacchetto di Cdo. Purtroppo i soldi non vennero trovati perche’ i Cdo non erano piu’ considerati affidabili. Motivo? Dal mondo dei mutui giungeva notizia che l’intero palazzo stava scricchiolando proprio dalle fondamenta. Migliaia di famiglie non rispondevano ai solleciti di pagamento, le banche erano costrette a dichiararle insolventi, la farsa dei contratti fasulli era ormai smascherata. E mentre nei tribunali si ammucchiavano le pratiche di sequestro relative alle case ipotecate, nelle banche si facevano i conti dei danni.
Il 24 ottobre 2007 Merrill Lynch annuncia a un mondo attonito di avere una perdita di 8 miliardi di dollari. Un miliardo per mutui non incassabili e ben 7 miliardi per Cdo ormai equiparabili a carta straccia perche’ non piu’ commerciabili. A fine anno la cifra verra’ corretta: la perdita totale e’ 24,7 miliardi di dollari. Ed anche altre banche pubblicano la lista delle loro sofferenze. Citigroup annuncia perdite per 23,8 milardi di dollari, Morgan Stanley per 10,8, Bank of America per 9,7 e via elencando fino ad arrivare alle piu’ piccole (4). A conti fatti, due anni piu’ tardi, il totale delle perdite delle banche americane su prestiti e titoli tossici sono valutate in 885 miliardi di dollari (5).
Ma anche il mondo assicurativo e’ nella tormenta. Aig, la piu’ potente societa’ di assicurazione degli Stati Uniti, nell’agosto 2007 ammette di essere esposta per 79 miliardi di dollari. Ritenendosi furba, aveva accettato la richiesta delle banche, ancor piu’ furbe, di assicurarle contro il rischio di perdita di valore dei Cdo. I contratti assicurativi, noti come Cds, credit default swaps, prevedevano che in caso di sofferenza, l’assicurazione si sarebbe comprata i Cdo in questione al loro valore originario. Ma Aig era convinta che si trattasse di un’evenienza molto improbabile e aveva firmato i contratti sicura che avrebbero portato solo incassi sotto forma di premi assicurativi. Ma le cose andarono diversamente e nel settembre 2008 Aig aveva gia’ sborsato 30 miliardi di dollari, mentre non sapeva come fare per rispondere alle richieste di tutti gli altri che pretendevano di essere indennizzati.
Nel settembre 2008 cade la testa della prima vittima eccellente. Sotto il peso dei debiti e delle perdite dovute al deprezzamento dei titoli in cassaforte, Lehman Brothers dichiara fallimento. E’ l’apertura ufficiale della crisi, che pero’ stava gia’ producendo i suoi effetti da mesi non solo nel circuito bancario, ma nell’intero sistema economico.
Come sempre, le imprese bussano alle porte delle banche per ricevere credito di sopravvivenza. Fra tempi di consegna della merce e tempi di incasso delle fatture, c’e’ sempre un intervallo che costringe le imprese a rivolgersi alle banche. Senza le loro anticipazioni non possono andare avanti. In tempi normali il rapporto scorre senza intoppi, ma ora le banche non pagano, dicono che non hanno soldi. Cosi’ scopriamo che le istituzioni che per definizione dovrebbero essere strapiene di soldi hanno quasi sempre i cassetti vuoti perche’ non e’ custodendo i soldi in cassaforte che si guadagna, ma impegnandoli in prestiti e investimenti che garantiscono alti tassi di interesse. In fondo la banca e’ un intermediario che guadagna sui differenziali di tasso di interesse. La sua bravura sta nell’ottenere denaro a costo piu’ basso possibile ed impiegarlo in operazioni che garantiscono ritorni piu’ alti possibile. Per questo le banche prima di essere strutture che danno prestiti, sono strutture che richiedono prestiti. Per quelli di lunga durata solitamente si rivolgono al mercato finanziario, ma per il fabbisogno quotidiano si rivolgono ad altre banche. Ed e’ proprio questo circuito, il mercato interbancario, che entra in crisi quando il sistema bancario e’ in sofferenza. Il problema e’ che piu’ nessuno si fida della capacita’ di pagamento dell’altra e, per paura di perdere altri soldi oltre a quelli già persi, piu’ nessuno è disposto a prestare.
Quando il credito si blocca, la crisi smette di essere di settore e diventa sistemica. Senza denaro, le imprese non possono fare i propri acquisti, non possono pagare i lavoratori, sono in difficolta’ col fisco. Se la penuria si protrae troppo a lungo, sono costrette a chiudere con tutta una serie di ripercussioni a catena per l’occupazione e per le famiglie. Inevitabilmente lo stato deve intervenire, anche se deve scegliere se la sua priorita’ sono le banche o la comunita’.
Dopo la caduta di Lehman Brothers il governo Bush si affretta a preparare un provvedimento che lo autorizza a spendere fino a 700 miliardi di dollari per tamponare la situazione. Il 3 ottobre la legge e’ pronta e iniziano i primi finanziamenti, per la maggior parte sotto forma di prestiti: Aig 182 miliardi, Citigroup 45 miliardi, Bank of America 45 miliardi, JP Morgan Chase 25 miliardi, tanto per citarne alcuni. Perfino McDonald’s riesce ad avere 203 milioni di dollari (6).
Ma tutti sapevano che il danno era molto piu’ ampio e la vera operazione di salvataggio fu condotta dalla Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti. Nessuno sa di preciso quanti soldi abbia messo in campo, i dati ufficiali dicono 3.285 miliardi di dollari (7), ma Bloomberg, societa’ d’analisi finanziaria, stima che la vera cifra sia 7.770 miliardi. Molti soldi sono stati dati sotto forma di prestiti, altri sotto forma di acquisto titoli, in ogni caso in una forma vantaggiosa per le banche, che ci hanno guadagnato complessivamente 13 miliardi di dollari, Citigroup in testa con 1,8 miliardi di dollari (8). L’unica consolazione per il contribuente americano e’ che il tutto e’ avvenuto con la stampa di denaro fresco, la famosa politica di quantitative easing, che la Fed ha attuato senza timore di provocare inflazione perche’ la marea di nuovi dollari si e’ scaricata sull’intera economia mondiale.
Sperare che la crisi rimanesse confinata agli Stati Uniti era un’illusione. I suoi titoli tossici avevano inondato l’intero sistema finanziario mondiale, le banche che ne avevano comprati di piu’ erano quelle europee.
Il primo allarme nel vecchio continente venne lanciato il 9 agosto 2007 e portava la firma di BNP Paribas. La banca francese faceva sapere che sospendeva le operazioni su alcuni fondi ripieni di titoli americani per un valore di quasi 3 miliardi di dollari. Qualche mese dopo anche la banca svizzera UBS ammetteva perdite su titoli per 37 miliardi di dollari. Intanto in Germania lo stato aveva dovuto rimboccarsi le maniche per soccorrere una piccola banca tedesca, la IKB al 38% pubblica, che aveva acquistato miliardi di Cdo che ora non valevano niente. E pensare che solo qualche mese prima, il presidente Stefan Orteseifen aveva assicurato che non c’era motivo di preoccuparsi. Nell’agosto 2007 vennero dichiarate perdite per tre miliardi di euro e lo stato ce ne mise due, ma non bastarono. Nei mesi successivi dovette impegnarne altri 16, tutti doverosamente autorizzati dalla Commissione Europea (9). Nell’aprile 2010 si sapra’ che le perdite totali subite dalle banche europee per titoli tossici e prestiti non onorati ammonta a 1.276 miliardi di dollari (10).
Le notizie che giunsero piu’ tardi dalle isole del Nord Atlantico, rivelarono che le banche europee avevano copiato il modello americano non solo per l’abitudine di concentrare i propri affari nell’investimento di titoli, compresi quelli paragonabili a vere e proprie scommesse, ma anche per l’abitudine di impegnare molto piu’ denaro di cio’ che avrebbero dovuto ricorrendo all’indebitamento facile. Ed oggi che sono schiacciate da una montagna di debiti (oltre 2.000 miliardi di euro), non sono nei guai solo loro, ma tutti noi (11).
Quanto fosse insana la gestione delle banche europee, emerse in tutta la sua evidenza con la caduta di Northen Rock, banca inglese specializzata nella concessione di mutui. Il suo metodo di finanziamento era la cartolarizzazione, tipico delle banche americane. Finanziava un mutuo, lo cartolarizzava e col ricavato ne finanziava un altro e cosi’ via. Tutto bene finche’ il mercato resse, ma quando comincio’ a cedere, la banca si trovo’ in difficolta’. Era il settembre 2008, capi’ che senza soccorso non ce l’avrebbe fatta e chiese un prestito dalla Banca Centrale d’Inghilterra. La notizia trapelo’ e i suoi depositanti la presero d’assalto per recuperare i propri risparmi. Da 150 anni in Inghilterra non si vedeva una scena del genere. Seguirono mesi di contatti febbrili per trovare qualche investitore privato disposto a metterci capitali freschi, ma nessuno voleva investire in una banca cosi’ mal messa. Fini’ nazionalizzata con un costo per i contribuenti inglesi di 50 miliardi di sterline. Ma altre banche vennero colpite dalla crisi e il costo totale sostenuto dal governo inglese per il salvataggio delle sue banche ha toccato gli 850 miliardi di sterline (12).
Anche in Irlanda le banche erano cresciute all’insegna dei mutui sulla casa e della speculazione sui titoli. Nel 2006, quando il mercato finanziario era al suo apice, le banche irlandesi disponevano di una quantita’ di titoli pari a cinque volte il prodotto lordo nazionale, mentre il 30% di tutti i prestiti concessi erano per mutui sulla casa (13). Con la crisi, il valore dei titoli si affloscio’ come una montagna di panna montata, ma i debiti contratti per comprarli rimanevano intatti. Il governo irlandese avrebbe potuto decidere di lasciare che le banche se ne andassero a fondo con tutti i loro debiti, salvaguardando solo i depositanti. Ma cosi’ facendo avrebbe fatto pagare il conto alle grandi istituzioni finanziarie internazionali che avevano fatto credito alle banche irlandesi. Un comportamento perfettamente coerente con le regole di mercato che impongono a chi si assume un rischio di saper anche perdere. Cosi’ in teoria. Nella pratica valgono le regole della prepotenza, del ricatto e delle clientele e il governo irlandese decise che a pagare doveva essere il popolo. Tant’e’ che alla fine del 2010 lo stato aveva sborsato 46 miliardi di euro per nazionalizzare le due principali banche irlandesi (14), e siccome il salvataggio era tutt’altro che concluso, nel novembre 2010 fu costretto a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale e all’Unione Europea per ricevere un prestito di 85 miliardi di euro. Un classico esempio di come si rovina un paese in nome degli interessi privati: l’Irlanda che nel 2007 aveva un debito pubblico pari al 25% del Pil, nel 2011 se lo ritrova al 114%.
Un altro paese travolto dalla malagestione bancaria fu l’Islanda. Ma qui la gente seppe ribellarsi e le cose andarono diversamente.
Paese semideserto, le sue banche erano totalmente sproporzionate per un’isola di 350.000 abitanti che vive di pesca o poco piu’. Banche ipertrofiche per valore azionario, per titoli posseduti, per debiti contratti, per mire espansionistiche. Alla prova dei fatti si scoprira’ che la rovina non e’ arrivata solo per le manie di grandezza, ma anche per gli atteggiamenti delittuosi da parte dei dirigenti che usavano le banche per l’arricchimento personale con la protezione del sistema politico. Volendo crescere sempre di piu’, al pari della rana che ambiva a diventare come la vacca, si indebitavano a piu’ non posso per comprare sempre piu’ titoli nell’illusione che l’onda alta del mercato le avrebbe tenute eternamente in cielo. E quando si resero conto che la fiducia nei loro confronti cominciava a vacillare perche’ qualcuno aveva cominciato ad accorgersi che stavano facendo il passo piu’ lungo della gamba, decisero di raccogliere risparmio all’estero, non solo aprendo filiali in Inghilterra, Olanda, Norvegia, ma anche tramite Internet. Fu proprio a causa di Icesave, la societa’ creata per gestire la banca virtuale, che il popolo d’Islanda e’ diventato famoso per la sua lotta contro i banchieri.
La crisi del 2008 arrivo’ violenta e spazzo’ via ogni velleita’. Tolta la maschera della presunzione rimase la dura realta’ dei debiti, circa 100 miliardi di dollari, soprattutto verso soggetti stranieri. Il 29 settembre 2008 le banche chiedono il soccorso della Banca Centrale Islandese, ma non ha abbastanza riserve e puo’ fare ben poco. L’unico effetto che produce e’ un’accelerazione della catastrofe per aver svelato quanto la situazione fosse drammatica. All’estero le filiali delle banche islandesi sono prese d’assalto da parte di depositanti ansiosi di ritirare i propri risparmi. In patria, intanto, c’e’ la corsa al cambio e le riserve di valuta estera si esauriscono rapidamente. Ma chi gravita attorno al potere fa in tempo a riempirsi le tasche di dollari da trasferire all’estero. Quando non c’e’ piu’ niente da prendere, la corona islandese viene lasciata fluttuare e affondare definitivamente.
I governi esteri osservano e studiano il da farsi per proteggere i propri cittadini che hanno aperto conti presso le banche islandesi. In via precauzionale l’8 ottobre il primo ministro inglese congela i titoli posseduti dalle banche islandesi in terra d’Inghilterra. Ma la misura non serve per chi ha aperto un conto corrente via Internet. I soldi sono in Islanda e da li’ devono venire. Detto fatto, Inghilterra e Olanda avanzano al governo islandese la richiesta di rimborso per 5 miliardi di euro. Una cifra enorme per la piccola Islanda, ma solerte giunge la mano tesa del Fondo Monetario Internazionale che si dichiara disponibile a un prestito di 2 miliardi di dollari per stabilizzare la corona. La condizione e’ che venga soddisfatta la richiesta avanzata da Inghilterra e Olanda.
La popolazione islandese e’ furibonda: 5 miliardi di euro corrispondono a piu’ della meta’ di cio’ che viene prodotto nel paese in un intero anno: com’e’ possibile portare un peso del genere? E per cosa? Per la malagestione di banche che hanno arricchito solo gli azionisti e i dirigenti? Non se ne parla neanche. Malgrado il freddo intenso, nel novembre migliaia di persone di tutte le eta’ si ritrovano sulla piazza principale di Reykjavic. Si prendono per mano per creare una catena umana attorno al parlamento, bombardano il palazzo con lanci di frutta e di yogurth. Il governo e’ in difficolta’ perche’ e’ piu’ incline ad accogliere le richieste del mondo finanziario che della sua gente. Per mesi si vede con i governi inglese e olandese e nel dicembre 2009 si accorda per restituire 4 miliardi in 14 anni. La proposta viene messa ai voti e il Parlamento approva. Ma la gente non ci sta e in pochi giorni vengono raccolte 56.000 firme (il 23% del corpo elettorale) per chiedere al Presidente della Repubblica di non firmare e sottoporre la decisione a referendum. Richiesta accolta: il referendum e’ indetto per il 6 marzo 2010. I no stravincono col 93% dei voti.
Le capitali estere reagiscono con rabbia, delegano il Fondo Monetario Internazionale a esprimere la loro condanna: il prestito non verra’ accordato se l’Islanda non rimborsa i denari richiesti. La politica prova a fare una nuova forzatura: il 16 febbraio 2011 il Parlamento approva una nuova legge che prevede il rimborso in 30 anni a partire dal 2016. Ma la gente alza di nuovo le barricate e il 9 aprile si fa un nuovo referendum. Anche questa volta la soluzione e’ respinta col 59% dei voti.
Il governo islandese comunica alle controparti l’indisponibilita’ a pagare. Caso chiuso o forse destinato a continuare nell’aula di qualche tribunale internazionale. Ma per una volta hanno vinto le ragioni del bene comune, invece che gli interessi della finanza.
Benche’ i rovesci piu’ clamorosi si siano verificati nelle isole del Nord Atlantico, quale piu’ quale meno, tutte le banche europee hanno subito contraccolpi per la svalutazione dei titoli, prestiti in sofferenza e indebitamento eccessivo. In tutta Europa l’attivita’ creditizia si e’ contratta con ripercussioni inevitabili sui consumi e sulle imprese. Migliaia di aziende hanno chiuso, la disoccupazione e’ cresciuta. Dal marzo 2008 al gennaio 2012, 4 milioni e mezzo di persone hanno perso il lavoro nell’area euro facendo crescere il livello dei disoccupati a quasi 17 milioni di persone. Allargando il campo all’Europa dei 27, nello stesso periodo i disoccupati sono cresciuti di 7 milioni e mezzo fino a raggiungere un totale di oltre 24 milioni (15). Ma l’Organizzazione Internazionale del Lavoro informa che a livello mondiale la crisi ha provocato la perdita di 30 milioni di posti di lavoro (16). Crisi che nessuno sa quanto sia destinata a durare, non solo perche’ l’indebitamento bancario e’ una montagna difficilmente riducibile, ma perche’ la crisi della finanza ha aperto un’altra crisi destinata ad aggravare ulteriormente la situazione sociale. Stiamo parlando dei debiti sovrani, quelli contratti dai governi, che gravano sulle spalle dei contribuenti.
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Note
1. Financial Crisis Inquiry Commission, Financial Crisis Inquiry Report, Gennaio 2011.
2. Efraim Benmelech, The alchemy of Cdo credit ratings, “Journal of monetary economics”, n. 56/2009.
3. Financial Crisis Inquiry Commission, op cit.
4. Financial Crisis Inquiry Commission, op. cit.
5. Imf, Global Financial Stability Report, aprile 2010.
6. Financial Crisis Inquiry Commission, op. cit.
7. US Gao, Federal Reserve System, n. 11-696, luglio 2011.
8. Bob Ivry e altri, Secret Fed Loans Gave Banks $13 Billion Undisclosed to Congress, “Bloomberg Markets Magazine”, 28 novembre 2011.
9. Commissione Europea IP/09/1235 del 17 agosto 2009.
10. Imf, op. cit.
11. Ecb, Euro area markets for banks’ long-term debt financing instruments (…), Monthly Bulletin, novembre 2011.
12. Andrew Grice, £ 850bn: official cost of the bank bailout, “The Indipendent”, 4 dicembre 2009.
13. Imf Survey Magazine, 16 dicembre 2010.
14. David Enrich, Ireland’s Banks Get Failing Grades, “Wall Street Journal”, 11 aprile 2011.
15. Commissione Europea, Eurostat Newsrelease STAT/12/31, 1 marzo 2012.
16. Juan Somavia, Putting the real economy in the driver’s seat, “World of Work”, n. 73, dicembre 2011.

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