Anna Maria Campogrande: “Salvaguardare la pluralità delle lingue in Europa, con particolare riferimento all’italiano”
L’amica Lucia mi scritto chiedendomi di far presente la necessità della salvaguardia pluralista, linguistica e culturale, nella UE, all’attuale Presidente del Consiglio Matteo Renzi, che ha promesso di far valere il ruolo dell’Italia a livello europeo.
Infatti l’inglese è una lingua spesso equivoca la quale, per di più, dispone di un sistema giuridico del tutto diverso dal nostro e di punti di riferimento e di valori diversi da quelli della civiltà greco-latina alla quale noi apparteniamo.
Da tempo, mandiamo a Palazzo Chigi alcuni dei nostri documenti che, se fossero stati letti, avrebbero potuto fornire una illustrazione molto chiara della situazione linguistica in seno alle istituzioni europee e messo in evidenza l’urgenza di agire.
Forse si potrebbe fare una lettera aperta da diffondere anche alla stampa. Il problema è che, ne sono sempre più convinta, l’Italia è un Paese occupato il quale, non solo, in certi settori non è libero di prendere decisioni suscettibili di entrare in conflitto con gli interessi degli occupanti ma che, da decenni, subisce, a tutti i livelli, il lavaggio del cervello per la gestione di settori sensibili, primo fra tutti quello della Pubblica Istruzione che costituisce un settore chiave per la salvaguardia della nostra cultura, della nostra identità, delle nostre capacità intellettuali, quelle di esistere per quello che siamo e non, da schiavetti negri, come ci vogliono le forze dominanti dell’economia e della finanza che stanno esautorando gli Stati e schiavizzando i Popoli.
Indipendentemente dal fatto che l’italiano è una lingua molto più conosciuta e diffusa, a livello mondiale, di quanto gli Italiani osino ammettere, la faccenda, a livello europeo, si pone in maniera del tutto nuova, diversa, che non ha niente a che fare con il prestigio ma solo con l’efficienza e con la salvaguardia di valori e interessi fondamentali.
La questione linguistica è, infatti, di importanza vitale nell’ambito del ruolo legiferante dell’Unione. Gli Italiani non possono continuare ad approvare regolamentazioni europee, in inglese, tradotte in italiano solo dopo l’adozione per essere d’applicazione in Italia e che di sovente ci prendono alla sprovvista e ci danneggiano perché, a livello di elaborazione del testo, sono state comprese solo approssimativamente, non tanto a causa di una insufficiente conoscenza della lingua ma soprattutto perché l’inglese è una lingua spesso equivoca la quale, per di più, dispone di un sistema giuridico del tutto diverso dal nostro e di punti di riferimento e di valori diversi da quelli della civiltà greco-latina alla quale noi apparteniamo.
Posso affermare tutto ciò in piena onestà e conoscenza di causa perché ho studiato l’inglese, al liceo e all’università, per un totale di sette anni, in seguito in Inghilterra e in Irlanda per praticarlo in loco, e posso dire di conoscerlo abbastanza bene, in più ho vissuto tutta la mia vita professionale in seno alle istituzioni europee, in un ambiente internazionale plurilingue, ma non mi sognerei mai di dare il mio assenso ad un progetto di Regolamento, di Direttiva, di Accordo tra Paesi su un testo redatto esclusivamente in inglese. Con il francese non si pone lo stesso problema, perché si tratta di una lingua molto precisa che dispone di una « forma mentis » affine alla nostra e degli stessi punti di riferimento in diritto e dal punto di vista dei valori.
Tuttavia, non c’è ragione a che non si torni al sistema in vigore fino ad alcuni anni fa’ che esigeva che i testi legislativi fossero redatti in tutte le lingue di applicazione sin dall’inizio dei lavori e che i rappresentanti degli Stati Membri, nei comitati e gruppi di lavoro, disponessero, sempre, della versione nella propria lingua.
E’ vero, le lingue ormai sono tante ma la democrazia ha un prezzo che non può essere ignorato e rimosso e, comunque, l’Italia non è l’ultimo arrivato, è uno dei quattro grandi Stati Membri dell’Unione, membro fondatore della Comunità Europea, e ha il dovere di far valere le sue ragioni, non solo a beneficio degli Italiani ma di tutti i cittadini europei perché l’uso sistematico dell’italiano, veicolo di valori umanistici fondamentali, in sede europea, costituisce un valore universale.
Com’è possibile che non si riesca a far passare questi semplici concetti e che c’è gente che continua a dire che le lingue sono tutte uguali, equivalenti, intercambiabili e che l’una vale l’altra e che il nostro patrimonio economico e culturale non corre alcun rischio facendoci governare da un sistema legislativo « concepito » esclusivamente in inglese?
Anna Maria Campogrande – athena@swift.lu
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Commento/risposta di Mauro Mellini:
“Cara Anna Maria Campogrande. Anche se non ho dato, finora, alcuna specifica risposta agli scritti che Tu cortesemente, mi hai fatto avere sulla “questione lingua” europea, ho pensato molto a quello che è un Tuo lodevolissimo impegno ed una questione tutt’altro che “marginale” in questo tormentato cammino per un’Europa semplicemente più europea.
La questione della lingua e del dilagare, senza un’adeguata coscienza delle conseguenze, della lingua inglese, sta cominciando a dare frutti velenosi per ciò che riguarda il diritto. Ogni volta che sento un termine inglese venir fuori in una nuova questione giuridica, mi vengono i brividi. Il diritto anglosassone è qualcosa di strutturalmente diverso da quello europeo-continentale, dell’Illuminismo e delle codificazioni. La lingua, il lessico sono lo specchio di questa diversità. Termini anglosassoni, di cui si pavoneggiano asini patentati più o meno togati, anziché rappresentare un’esigenza di novità giuridiche sono il veicolo dell’allentamento e della confusione di idee circa l’inserimento nel nostro sistema di elementi d’altra origine e natura.
Il nostro è un diritto pensato (quando qualcuno pensava) in latino. L’uso di termini latini non è un’esibizione di Azzeccagarbugli: è l’espressione di schemi mentali addirittura pregiuridici che non possono essere facilmente sostituiti neppure dalle lingue nazionali in cui sono scritti i codici, figuriamoci dall’inglese che è la lingua di popoli che hanno realizzato, magari partendo da residui del diritto romano, sistemi giuridici opposti. Può darsi che questa divisione del mondo tra sfera del diritto codificato e quella del diritto di tipo anglosassone sia destinata a scomparire. Ma, anche se sono convinto che pure l’ignoranza è un elemento di evoluzione degli ordinamenti giuridici, non credo che ci sia da aspettarsi nulla di buono da questo disinvolto ricorso all’inglese per coprire approssimazioni deleterie.