Riflessioni etiche e scientifiche sulla pratica degli espianti – trapianti di Giuseppe Gorlani

Lunario Paolo D'Arpini 12 aprile 2014

La pratica dei trapianti è una tra le più barbare e irrazionali conseguenze del processo di reificazione della natura, le cui scaturigini sono remote e plurime. Scrive Giovanni Sessa nel suo ottimo studio Per una filosofia del divino e dell’ordine: «Il monoteismo ebraico cristiano facendo dell’essere il totalmente altro dal mondo ha sottoposto l’uomo ai voleri di quest’ultimo e, contemporaneamente ha inteso la natura, ormai desacralizzata, come oggetto per l’uomo.

Questi, attraverso la tecnica, ha reso ogni ente disponibile alla manipolazione, rendendolo mezzo-per. La mentalità attuale, utilitarista, atea, materialista è paradossalmente il risultato di un lungo processo storico che ha, nell’affermazione del monoteismo, la sua lontana anche se non unica origine».1

Il ritenere che la natura sia oggetto a disposizione dell’uomo sembrerebbe già anticipato e sancito nel Genesi: «E Dio li benedì e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela e abbiate potere sui pesci del mare, sui volatili del cielo e su ogni animale che striscia sopra la terra”» (I, 28). Secondo taluni «nel testo ebraico la parola usata vorrebbe dire piuttosto “pasturare” (cioè come un pastore che guida il gregge)».2 Nella Bibbia Concordata, tuttavia, il verbo utilizzato è “soggiogare”. A dissipare ogni dubbio circa lo stato di spaventevole dominazione dell’uomo sulla natura riconosciutogli da Dio, in alcuni versi successivi si legge: «Il terrore e il timore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere» (9, 2).3

In ogni caso, l’uomo dell’Era Oscura (Kali-yuga), credendosi “padrone” di quanto lo circonda, finisce col dimenticare che anch’egli, benché dotato della qualità di filosofare (ovvero di interrogarsi sui Pricìpi), è natura inseparabile dall’Essere. E, invece di assumersi la responsabilità di custodire l’armonia e la bellezza del mondo, la cui realtà ultima sfugge ad ogni indagine mentale, sceglie la via dell’omologazione distruttiva, diventando il peggior nemico della vita e di se stesso.4

La tendenza insita nel monoteismo a separare irrevocabilmente la trascendenza dall’immanenza, il creatore dalla creatura, l’ortodossia dall’eterodossia, l’utile dall’inutile ha contribuito a sospingere viepiù l’uomo nell’alienazione. Non si può dividere l’indivisibile – tranne che con finalità dialettiche, della cui relatività si deve essere consapevoli -, pena l’autoimprigionarsi in gabbie di concetti artificiosi, disperati, schizofrenici e violenti. Lo insegnava già Chuang Tzu 2500 anni fa: «Se non sai apprezzare ciò che è inutile non puoi metterti a parlare di ciò che è utile.

La terra, ad esempio, è ampia e vasta, ma di tutta questa grande area l’uomo usa solo quei pochi centimetri su cui poggia i piedi. Ora immagina di togliere all’improvviso tutta la parte che non gli serve in modo che intorno a lui si spalanchi un abisso ed egli resti sospeso nel vuoto, senza nessuna superficie solida se non il pezzo che ha sotto ciascun piede: per quanto tempo ancora potrà usare ciò che sta usando?».5 La domanda sembra oltremodo attuale.

Pure la dottrina buddhista dell’anatman, secondo la quale l’uomo è privo di ogni “io” e persino del Sé, o gli insegnamenti advaita possono, se divulgati indiscriminatamente e interpretati in modo non appropiato, produrre risultati decisamente deleteri. Nagarjuna stesso, grande logico buddhista e fondatore del Vacuismo o Via di Mezzo (Madhyamaka), avverte: «La vacuità, male intesa, manda in rovina l’uomo di corto vedere, così come il serpente male afferrato o una formula magica male applicata».6

I grandi misteri apofatici imperniati sul silenzio non si profanano impunemente. Accostarsi ad essi con leggerezza o credere di poterli trasmettere senza le dovute qualificazioni espone a gravi rischi: in primis la follia e la perdita dell’orientamento. Il linguaggio comunemente usato (vaikhari) possiede solo un quarto del potere della parola; i rishi vedici sostenevano che esso non può descrivere la traccia lasciata da un uccello nell’aria. Da ciò l’importanza dell’apprendimento diretto ai piedi di un autentico maestro in possesso dei tre gradi sovrasensibili del linguaggio (madhyama, pashyanti e para).7

L’esasperazione del conflitto tra uomo e natura di matrice ebraico-cristiana,8 il nichilismo e il materialismo impliciti in un certo buddhismo e il dualismo camuffato da non-dualismo scaturente dalla cattiva comprensione della dottrina advaita – che ritiene il mondo fenomenico una sorta di apparenza né reale, né irreale (maya) – hanno favorito lo sviluppo di forme perniciose di scientismo riducenti la persona ad un mero meccanismo biologico; questa, privata d’ogni valore intelligibile, diventa necessariamente carne da macello e oggetto di crudeli sperimentazioni. A conferma di quanto testé detto si potrebbero portare numerosi esempi, ma qui ci limiteremo ad esaminare la pratica dei trapianti, oggi molto diffusa e caldeggiata come moralmente encomiabile dall’establishment economico, politico e religioso.

I mass media – i quali, nascondendosi dietro la bautta dell’informazione obiettiva, non si peritano di diffondere menzogna, ottenebramento e ignoranza – sono riusciti a convincere milioni di persone che gli organi vitali utilizzati nei trapianti vengono prelevati ad uomini morti. A tale risultato si è pervenuti impiegando l’escamotage della “morte cerebrale”: il cervello sembra non funzionare, ma il cuore batte e il sangue e l’aria circolano. I cosidetti “donatori” sono pertanto persone del tutto vive, sebbene in gravi condizioni di salute; ai fini dei trapianti la realtà non potrebbe essere diversa, giacché gli organi diventano immediatamente inservibili dopo la morte. La morte “vera”, riconoscibile dai segni inconfondibili del rigor mortis e dell’odore della decomposizione organica, è una sola.

Se ci si pensa un attimo, appare subito evidente quanto sia assurda e tendenziosa la definizione di “morte cerebrale” o “clinica”;9 come se la morte fosse un concetto da definire e non, invece, una realtà alla quale accostarsi riverentemente. Solo in chiave simbolico-iniziatica si può parlare di più morti.

A fronte degli svariati sproloqui dello scientismo,10 la sapienza sia d’Oriente che d’Occidente ha insegnato in ogni tempo la costituzione ternaria dell’uomo, composto da corpo, anima e spirito: dimensioni che si compenetrano le une nelle altre a formare un unicum. Al momento della morte l’anima si ritira gradualmente attraverso i vari involucri (fisico, pranico, mentale inferiore e superiore, causale) per andare incontro al proprio destino-dharma; in funzione di ciò le religioni hanno perfezionato svariati sistemi di accompagnamento del moribondo e del morto.

Morte e nascita sono momenti fondamentali nella vita di un uomo, ed egli li vive ogni giorno, ogni notte o, meglio ancora, ad ogni salire e scendere del respiro, preparandosi al confronto con la Luce nel momento estremo del trapasso. In un mondo normale – e cioè ordinato secondo la Norma – sarebbe superfluo precisare che in tale circostanza egli necessita di essere particolarmente rispettato e lasciato in pace.
Anche nella tradizione cristiana tardomedioevale si parlava opportunamente di ars moriendi e, in tempi successivi, sull’arte di morire bene era andata formandosi una letteratura assai apprezzata. Si provi quindi a immaginare quale “buona morte” esperiremmo se, mentre la coscienza si ritira dagli organi vitali, potenze dell’anima, preparandosi ad uscire dalla guaina fisica il più possibile alleggerita da samskara (semi causali) e vasana (impressioni mentali), mani crudeli ci aprissero il petto per estrarvi il cuore pulsante, centro dell’ente, in cui si incontrano e fondono microcosmo e macrocosmo.

A questo punto non è un’esagerazione dire che l’espianto di organi vitali è, a tutti gli effetti, una tortura ed un’uccisione legalizzate spalancanti le porte degli Inferi. Ne è prova atroce lo scalciare dei presunti “cadaveri” allorché li si sottopone all’espianto.

La Bhagavad-gita, libro tra i più atemporali e sublimi, ritrae con precisione gli ipocriti dediti all’adharma: «Questi uomini di natura demoniaca dicono che non esiste nel mondo né verità, né ordine, né Provvidenza, che il mondo è un composto di fenomeni e che è solo un gioco del caso. Avendo questa opinione, questi sventurati “io”, privi di comprensione e pieni di violenza vengono quaggiù come nemici del mondo» (XVI, 8, 9).11 Nel nostro tempo a tale genia appartengono quelli che impongono all’umanità i peggiori orrori in nome del bene, della democrazia, del progresso, dell’uguaglianza, della volontà divina o che riescono finanche a diffondere il razzismo e il terrorismo pur proclamando di volerli combattere.

Affinché si comprenda l’incidenza nefasta che la pratica dei trapianti ha sia sul piano fisico che sottile, riporto, dall’Introduzione di Bruno Cerchio al volume Ars Moriendi di Anonimo del XV sec., un brano estremamente chiaro ed illuminante: «In base agli insegnamenti tradizionali sulla morte e al rispettoso atteggiamento tenuto dall’uomo tradizionale verso questo momento di “passaggio”, non sarà difficile giungere alla condanna della pratica del trapianto degli organi, vero e proprio sacramento del diavolo, la cui incompatibilità con la vita umana viene già palesata a livello biologico dalle insormontabili crisi di rigetto che sarebbero opposte dall’organismo “ospite” se le sue difese immunitarie non venissero distrutte chimicamente, cosa che si traduce sul piano sottile – in quanto un fatto biologico ha sempre alla sua radice un movimento di energie che agiscono sul piano sottile dell’anima – nella incompatibilità tra le energie psichiche latenti nell’organo espiantato e quelle presenti nell’organismo che lo dovrebbe accogliere.

Se dunque l’organismo che ha subito il trapianto sopravvive questo è possibile solo a patto di una rottura tra il piano fisico, il quale non collasserà solo perché costantemente tenuto al di sotto delle normali condizioni di vita biologica dai farmaci antirigetto – e dunque come un cadavere -, e il piano animico, che avrà comunque subito un distacco parziale dal corpo, e sui cui risvolti sottili non osiamo azzardare ipotesi. Certo al momento di un trapasso avvenuto in simili condizioni è difficile non pensare a uno sprigionarsi di influenze errabonde, le quali, già distaccate dalla loro sede naturale, si sono trovate a lungo compresse in un contenitore in lotta contro la corrosione del tempo. Se questa pratica è da aborrire comunque per la vita “di chi resta”, essa lo sarà non di meno per quella “di chi parte”, in quanto l’espianto degli organi, al fine del loro “riciclaggio”, deve avvenire – come è noto – subito dopo la “morte clinica” del paziente, ciò verosimilmente perché gli organi ancora racchiudono quelle energie animiche che costituiscono la loro fonte vitale, e ciò non fa che scontrarsi con il decorso del tempo di riassorbimento delle potenze sottili della psiche e il distacco di questa dal corpo, processo che secondo la Scienza sacra richiede tre giorni e mezzo, e durante i quali il cadavere deve essere vegliato senza essere rimosso né toccato, prima che si possa passare alle esequie funebri. Ma “dovunque sarà il cadavere si aduneranno gli avvoltoi” (Mt 24,28)».12

Alla luce di quanto sopra esposto, la pretesa che il sacrificio del soggetto donatore valga come salvezza del soggetto ricevente (che di solito muore nel giro di pochi anni, vissuti malamente, di tumore o di leucemia) non ha alcun fondamento razionale e si inscrive in quella retorica buonista di cui oggi molti si riempiono la bocca e le tasche.
Occorre altresì sottolineare come non si possa violare il principium individuationis, «fondamento dell’individualità, per cui essa è quel che è».13 Non c’è una foglia identica ad un’altra foglia nell’intero universo, eppure tutte le foglie sono, in essenza, la “foglia”. Così è dell’uomo. In prospettiva orizzontale tutti gli uomini sono diversi e non sono intercambiabili, in quella verticale tutti sono l’Uomo, il Purusha, epifania divina. L’originalità e, ad un tempo, l’identità assolute di ogni atomo di vita adombra il mistero della non-dualità.

L’indifferenza nei confronti di argomenti di capitale importanza quale quello dei trapianti non è caratteristica soltanto dell’uomo obnubilato dalla droga mediatica, ma, talvolta, anche del sedicente spiritualista, il quale, sedotto dall’idea del distacco dalla vile materia-illusione, afferma, come a me è capitato in ripetute occasioni di udire: «Non c’è nessuna differenza tra il morire per espianto o per incidente o nel proprio letto, dato che in ogni caso bisogna morire. Non sta a noi giudicare. Chi sa di non essere il corpo è indifferente al tipo di morte o di vita che gli spetta. Chi crede in Dio sa che in ogni caso viene fatta la sua volontà.
Chi non ci crede non se ne cura».

Parrebbero parole savie, ma, a mio modesto avviso, simili ragionamenti, oltre ad essere privi di pietas, esemplificano bene lo stato di confusione e di esacerbata separatività – tra materia e spirito, tra umano e divino, tra visibile e invisibile, tra azione e contemplazione – al quale conducono certe dottrine realizzative mal assimilate.14 E quindi, proprio come indicato da Giovanni Sessa nella citazione iniziale, chi concepisce l’Assoluto in quanto totalmente altro dal mondo non solo lo relativizza, limitandone l’onnipervadenza, ma finisce pure col consegnare il manifesto alla barbarie.

Ritengo più convincente, amorevole ed equilibrata la visione dello shaiva Karapatri: «Venerando l’illusione, o la sua manifestazione, si venera la realtà che vi è dietro, l’inconoscibile Immensità sulla quale essa si fonda».15

Siamo immersi nel Mistero. Presumere di penetrarlo con strumenti empirici è ignoranza; aprirsi rispettosamente ad Esso, senza disprezzare la propria natura umana (svadharma) e la natura tutta, è saggezza. «For every thing that lives is Holy!» («Poiché ogni cosa vivente è Sacra!»).16

Giuseppe Gorlani

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Note

L’Officina, Riscoprire il Paganesimo, n. 6, 2006
2 Gloria Gazzeri, Lettera con riflessioni sul Quaderno n. 8/2006, in Quaderno n. 1/2007 dell’A. E. F. di Treviso.
3 In effetti si può constatare che a tutt’oggi, almeno in Occidente, gli animali sono terrorizzati dall’uomo. E ne hanno ben donde, visto il modo in cui vengono trattati: o li si addomestica, o li si tortura e stermina, o li si rinchiude in zoo e parchi. Del resto l’uomo si comporta in egual guisa con se stesso.
4 Secondo gli insegnamenti di Pitagora (etim. “colui che parla in nome dell’Apollo di Pito”), l’armonia e la bellezza cosmiche possono essere trasferite sul piano dell’etica individuale e sociale e quindi anche politica. Il che non significa uguaglianza tra tutti gli uomini – così come un’armonia musicale non significa unità di tono -, bensì rapporti armonici tra i vari ceti, fissati da giuste leggi.
5 Thomas Merton, La via semplice di Chuang Tzu, Ediz. Paoline, Mi, ’93.
6 Nagarjuna, Le stanze del cammino di mezzo (Madhyamaka Karika), Boringhieri, To, ’68, XXIV, 11.
7 Cfr. il cap. I Quattro Livelli del Linguaggio in R. E. Svoboda, Kundalini – Aghora II, Ediz. Vidyananda, Assisi, ’93. Si rimanda altresì alle considerazioni di Charles Malamoud sulle quattro parti della parola ne Il Pensiero Indiano, vol. I, Ist. Della Enciclopedia Italiana, ’96.
8 Don Marco Belleri, nell’interessante articolo Il rapporto uomo-natura nella religione cristiana (fonte: Fare Verde, Associazione di Protezione Ambientale, www.fareverde.it), scrive: «Affrontare questo argomento non è semplice, sia perché la Chiesa è una realtà vasta e complessa, e all’interno di essa, al di là del nucleo essenziale della fede molto brevemente riassunto nel Credo, ci sono sottolineature diverse su vari argomenti; sia perché essa non è una realtà astratta ed è quindi condizionata dal pensiero circostante. Per questo non sempre e non in tutti gli ambiti la riflessione è stata chiara né la risposta pratica coerente. […] La Genesi mostra l’uomo partecipe della dignità del Creatore, che si prolunga attraverso la custodia ed il dominio […] Purtroppo questa verità viene spesso dimenticata o travisata. […] Spesso la natura, specie nella Chiesa occidentale, è stata vista in stretta relazione col peccato. […] Un tentativo di ripensamento è iniziato dopo che la tradizione ebraico-cristiana è stata accusata, a partire dagli anni ’60, di essere una delle cause principali del dissesto ambientale a motivo della sua visione dell’uomo come dominatore della natura». A questo punto l’Autore cita alcune riflessioni di Giovanni Paolo II invitanti l’uomo contemporaneo a non pretendere di sostituirsi a Dio, bensì a collaborare con la sua opera di creazione. Le riflessioni del Pontefice da poco scomparso sarebbero in buona sostanza condivisibili; peccato che egli abbia pure affermato: «La carità fraterna si esprime anche attraverso la scelta di donare i propri organi». Sembra che la Chiesa, timorosa di inimicarsi i potenti, sia capace – sul piano sociale, economico e politico – di dire solo mezze verità.
9 Riguardo alla cosidetta “morte cerebrale” irreversibile, il Dr. David W. Evans, scienziato di chiara fama, in un testo presentato al Comitato ristretto della Commissione Affari Sociali del Parlamento italiano, sostiene: «[...] non esistono prove o serie di prove che possano stabilire con il necessario grado di certezza che il cervello sia veramente morto in un qualsiasi momento prima della cessazione definitiva della circolazione corporea [...]. Il concetto che la morte del cervello si possa stabilire prima dell’arresto cardiaco definitivo non ha validità scientifica».
10 Sia ben chiaro: la scienza va rispettata, non lo scientismo.
11 In E. Bertholet, La reincarnazione nel mondo antico, vol. I, Mediterranee, Roma, ’94.
12 Anonimo del XV secolo, Ars Moriendi, Ananke, To, ’97.
13 G. Ranzoli, Dizionario di Scienze Filosofiche, Ulrico Hoepli, Mi, 1943.
14 Tradizionalmente si ritiene che la non-dualità – intuibile per mezzo della buddhi, l’intelletto super conscio – non interferisca col normale svolgimento della vita umana, ma semplicemente impedisca un’identificazione assoluta nei fenomeni. Si può e si deve così giudicare relativamente, senza giudicare in assoluto. E si può e si deve, come insegna Lao Tzu nel Tao Te Ching, illuminare il paradosso di agire senza agire, governare senza governare, etc.
15 Margaret e James Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ubaldini Ed., Roma, ’80, p 275.
16 William Blake, da A Song Of Liberty, in Visioni, a c. di Giuseppe Ungaretti, Mondadori, ’73.

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