Le razze esistono? Discorso sulle origini
Ante Scriptum:
“Interessante discussione sulla razza. Si noti la sorte dell’articolo (ottimo) di Armand Marie Leroi contenuto nella prima pagina e che riporto qui di seguito. E’ del 2005. Già all’epoca risultava chiara, in ambito scientifico, l’utilità e la “liceità” dell’uso del termine. L’importante, per gli impiegati del Ministero della Verità, per l’infinita grigia schiera dei custodi del politically correct, era ed è che esso sia inagibile alle masse dei teleutenti, cui deve rimaner inculcato nel cranio l’impiego obbligatorio dell’apposita parola-ersatz (”etnia”). Ma a volte si producono crepe nell’edificio di nebbie e, anche solo per distrazione, qualche notizia non conforme e non immediatamente cloroformizzata filtra come piccolo raggio di luce. E’ quel che deve essere successo con quello qui scritto.” (Joe Fallisi)
……………..
Identificare le origini razziali non significa inseguire la purezza: siamo promiscui. La rivista “Nature Genetics” ha dedicato un supplemento allo studio della questione. Le teorie del dottor Richard Lewontin furono esposte in un articolo del 1972
Dopo che lo tsunami devastò le terre affacciate
sull´Oceano Indiano, The Times of India pubblicò un articolo che
titolava: Forse estinte a causa dello tsunami tribù minacciate. Le
tribù in questione erano gli Onge, gli Jarawa, i Grandi Andamanesi e i
Sentinelesi – abitanti delle isole Andamane, in tutto circa 400
persone. L´articolo, considerando che varie isole dell´arcipelago
erano basse e nella traiettoria diretta dell´onda, e presumendo un
alto numero di vittime, affermava che alcune gemme della collana di
smeraldi dell´India potrebbero essere andate perdute.
La metafora è tanto suggestiva quanto azzeccata. Ma che cosa significa
esattamente? Dopo tutto di fronte ad una catastrofe costata più di
150.000 vite, perché mai la sopravvivenza di poche centinaia di
appartenenti a una tribù dovrebbe aver diritto a una particolare
attenzione da parte nostra?
Esistono varie possibili risposte a questo interrogativo. La gente
delle Andamane ha uno stile di vita unico. La loro cultura materiale
non va oltre qualche semplice attrezzo e la loro arte visuale è
limitata a pochi motivi geometrici, è vero, ma sono
cacciatori-raccoglitori, quindi una rarità nel mondo moderno. Anche i
linguisti li trovano interessanti, in quanto parlano in tutto tre
lingue apparentemente prive di collegamenti con altri idiomi.
Ma The Times of India ha scelto un approccio un po´ diverso. Queste tribù sono speciali, ha detto, perché appartengono ai “ceppi razziali negrito”, che sono “residui delle più antiche popolazioni dell´Asia e dell´Australia”. E´ un´idea antiquata, addirittura vittoriana. Chi parla ormai più di “ceppi razziali”? Dopo tutto equivarrebbe a parlare di qualcosa che secondo molti scienziati e studiosi non esiste. Se i moderni antropologi citano il concetto di razza, lo fanno invariabilmente solo per scoraggiarne l´uso e per bocciarlo. Lo stesso vale per molti genetisti. “La razza è un concetto sociale, non scientifico”, sostiene il dottor Craig Venter, voce autorevole, poiché è stato il primo a “sequenziare” il genoma umano. L´idea che le razze umane non siano altro che costrutti sociali è opinione prevalente da almeno trent´anni.
Ma ora forse le cose sono sul punto di cambiare. Lo scorso autunno la
prestigiosa rivista Nature Genetics ha dedicato un ampio supplemento
all´interrogativo se le razze umane esistano e, in caso affermativo,
che valenza abbiano. L´iniziativa editoriale era motivata in parte dal
fatto che varie istituzioni sanitarie americane stanno attribuendo
alla razza un ruolo importante nelle politiche per tutelare al meglio
il pubblico, spesso a dispetto delle proteste degli scienziati. Nel
supplemento circa due dozzine di genetisti hanno espresso le loro
opinioni.
Sotto il linguaggio specialistico, le frasi prudenti e la cortesia
accademica, emerge chiaramente un dato: l´adesione alla tesi dei
costrutti sociali si sta sfaldando. Alcuni sostengono addirittura che,
se correttamente esaminati, i dati genetici dimostrano chiaramente che
le razze esistono.
La supremazia della teoria del costrutto sociale può essere ricondotta
a un articolo del 1972 in cui il dottor Richard Lewontin, genetista di
Harward, sosteneva che la maggior parte delle variazioni genetiche
umane possono essere individuate all´interno di qualunque data
“razza”. Considerando i geni piuttosto che i tratti somatici,
affermava, un africano e un europeo non sono poi molto più diversi
l´uno dall´altro rispetto a due europei. Pochi anni dopo Lewontin
scrisse che la popolarità di cui continuava a godere il concetto di
razza era “indice del potere esercitato dall´ideologia basata su
fattori socioeconomici sulla presunta oggettività del sapere”. La
maggior parte degli scienziati sono individui riflessivi, di opinioni
liberali e socialmente consapevoli. Questa tesi corrispondeva in pieno
al loro modo di vedere.
A trent´anni di distanza i dati del dottor Lewontin paiono corretti e
sono stati abbondantemente confermati da tecniche ancor più efficaci
di individuazione della varietà dei geni. Il ragionamento però è
sbagliato. Lewontin fece un errore elementare ma tale era il fascino
della sua tesi che solo un paio di anni dopo uno statistico
dell´università di Cambridge, A. W. F. Edwards, lo segnalò.
E´ facile spiegarlo. Per determinare la discendenza di 100 newyorkesi,
prendere in considerazione il colore della pelle sarebbe molto utile
per individuare gli europei, ma servirebbe a poco per distinguere i
senegalesi dagli abitanti delle isole Salomone. Lo stesso vale per
qualunque altra caratteristica del nostro corpo. La forma degli occhi,
del naso, del cranio, il colore degli occhi e dei capelli, il peso,
l´altezza e la villosità dei nostri corpi sono tutti elementi che,
presi singolarmente, sono di scarso aiuto nel determinare le origini
di un individuo.
Ma le cose cambiano se vengono considerati nell´insieme. Un certo
colore della pelle tende ad associarsi ad un certo tipo di occhi, di
naso, di cranio e di corporatura. Quando guardiamo uno sconosciuto
ricorriamo a queste associazioni per dedurre da quale continente e
persino da quale paese egli o i suoi avi provengano – e di solito non
sbagliamo. In termini più astratti, le varianti fisiche umane sono
correlate e le correlazioni contengono informazioni.
Le varianti genetiche che non sono scritte sui nostri volti, ma che
sono individuabili solo nel genoma, mostrano correlazioni simili. Sono
queste correlazioni che il dottor Lewontin sembra aver ignorato. In
sostanza ha preso un gene alla volta, non riuscendo a vedere le razze.
Ma se si prendono in considerazione più geni variabili (qualche
centinaio) è facile individuarle. Uno studio del 2002 condotto da
scienziati dell´Università della California del Sud e di Stanford ha
dimostrato che suddividendo con l´ausilio del computer un campione di
individui provenienti da tutto il mondo in 5 gruppi diversi in base
all´affinità genetica si ottengono gruppi originari dell´Europa,
dell´Asia orientale, dell´Africa, dell´America e dell´Australasia che
corrispondono in linea di massima alle principali razze secondo
l´antropologia tradizionale.
Uno dei vantaggi minori di questa scoperta è l´opportunità di
tracciare un nuovo tipo di albero genealogico. Oggi è facile scoprire
la provenienza dei nostri avi o addirittura il periodo in cui sono
arrivati da vari luoghi diversi, come è stato per molti noi. Per
sapere in che proporzione i tuoi geni sono africani, europei o
dell´Asia orientale, bastano un tampone orale, un francobollo e 400
dollari, anche se i prezzi sono sicuramente destinati a calare.
Alla base della suddivisione nelle maggiori razze continentali non ci
sono criteri fondamentali, ma di pura praticità. Studiando un numero
adeguato di geni in un numero adeguato di individui si potrebbe
suddividere la popolazione mondiale in 10, 100, forse 1.000 gruppi,
ciascuno locato in un qualche punto del globo. Non è ancora stato
fatto con precisione ma lo sarà. Forse sarà presto possibile
identificare i nostri antenati non solo come africani o europei, ma
Ibo o Yoruba, forse persino celti o castigliani, o quant´altro.
Identificare le origini razziali non significa inseguire la purezza.
La specie umana è irrimediabilmente promiscua. Abbiamo sempre sedotto
o costretto i nostri vicini anche se hanno aspetto straniero e non
capiamo una parola. Se gli ispanici, ad esempio, sono un misto recente
e in evoluzione di geni europei, indiani americani e africani, gli
Uighur dell´Asia centrale possono essere considerati un misto antico
di 3.000 anni di geni europei occidentali e dell´Asia orientale.
Persino gruppi omogenei come gli svedesi autoctoni portano l´impronta
genetica di successive migrazioni anonime.
Alcuni critici giudicano che queste ambiguità svuotino di valore il
concetto di razza. Non sono d´accordo.
La topografia fisica del nostro mondo non può essere descritta con
precisione a parole. Per esplorarla serve una carta topografica che
riporti quote, linee di contorno e griglie di riferimento. Ma è
difficile parlare in cifre, così diamo un nome alle configurazioni più
significative del pianeta: catene montuose, altopiani, pianure. Lo
facciamo a dispetto dell´intrinseca ambiguità delle parole. I monti
Pennini nel Nord dell´Inghilterra sono alti ed estesi circa un decimo
dell´Himalaya, ma entrambi sono indicati come catene montuose.
Lo stesso vale per la topografia genetica della nostra specie. I
miliardi di individui che nel mondo hanno discendenza prevalentemente
europea presentano una serie di varianti genetiche comuni raramente
riscontrabili tutte insieme in chiunque altro.
Questi individui sono una razza. In scala ridotta, lo stesso vale per
tre milioni di Baschi, che quindi a loro volta sono una razza. La
razza è solo una semplificazione che ci consente di parlare
razionalmente, benché non con grande precisione, delle differenze
genetiche, piuttosto che culturali o politiche.
Ma è una semplificazione a quanto pare necessaria. E´ particolarmente
penoso vedere i genetisti umani rinnegare ipocritamente l´esistenza
delle razze pur indagando la relazione genetica tra “gruppi etnici”.
Data la storia tormentata, persino crudele della parola “razza”, è
comprensibile che si ricorra ad eufemismi, ma ciò non aiuta certo il
sapere, perché il termine “gruppo etnico” fonde tutte e le possibili
differenze riscontrabili tra individui.
Il riconoscimento dell´esistenza delle razze dovrebbe avere vari
effetti positivi. Tanto per cominciare eliminerebbe la frattura che
vede governi e opinione pubblica ugualmente pronti ad accettare
categorie di cui molti, forse la maggior parte degli studiosi e degli
scienziati, negano l´esistenza.
Secondo, ammettere l´esistenza delle razze può migliorare l´assistenza
sanitaria. Razze diverse sono predisposte a contrarre patologie
diverse. Un afroamericano corre un rischio di ammalarsi di cardiopatia
ipertensiva o di cancro della prostata circa tre volte maggiore
rispetto ad un americano di origini europee, ma nel suo caso il
rischio di sviluppare la sclerosi multipla è dimezzato. Tali
differenze potrebbero derivare da fattori socioeconomici, ma
nonostante ciò i genetisti hanno iniziato a cercare di stabilire
differenze legate alla razza nelle frequenze delle variabili genetiche
che provocano le malattie. Sembra che le stiano trovando.
La razza può anche influenzare la terapia. Gli afroamericani
rispondono poco ad alcuni dei farmaci principalmente usati nel
trattamento delle cardiopatie – in particolare i betabloccanti e gli
inibitori dell´enzima che converte l´angiotensina. Le ditte
farmaceutiche ne tengono conto. Molti nuovi farmaci oggi portano
l´avvertenza che la loro efficacia può risultare ridotta per alcuni
gruppi etnici o razziali. Qui, come tanto spesso avviene, il principio
ispiratore è la semplice prospettiva di controversie legali.
Tali differenze sono, ovviamente, solo differenze in media. Tutti
concordano che la discriminante razziale è uno strumento rozzo per
prevedere chi sia destinato a contrarre determinate malattie o a
rispondere a certe terapie. L´ideale sarebbe “sequenziare” il genoma
di tutti prima di somministrare anche solo un´aspirina, ma finché non
sarà tecnicamente possibile, è prevedibile che le classificazioni in
base alla razza avranno sempre più peso in campo sanitario.
La tesi che avvalora l´importanza della razza, però, non poggia solo
su basi puramente utilitaristiche E´ presente anche un fattore
estetico. Siamo una specie fisicamente variabile.
Nonostante i trionfi della moderna genetica non sappiamo quasi nulla
di ciò che ci rende tali. Non sappiamo perché alcuni individui hanno
nasi prominenti piuttosto che schiacciati, crani arrotondati piuttosto
che appuntiti, volti larghi piuttosto che allungati, capelli lisci
piuttosto che ricci. Non sappiamo che cosa rende azzurri gli occhi
azzurri.
Per scoprirlo si potrebbero studiare gli individui di origine razziale
mista, in parte perché le differenze razziali nell´aspetto fisico sono
quelle che più saltano all´occhio, ma c´è una ragione tecnica più
sottile. Quando i genetisti mappano i geni, contano sul fatto di poter
seguire i cromosomi dei nostri antenati per come si trasmettono da una
generazione all´altra, dividendosi e mescolandosi in combinazioni
imprevedibili. Ciò si rivela assai più semplice in soggetti i cui
antenati provengono da luoghi assai diversi.
Questa tecnica si chiama admixture mapping (admixture=miscela,
mapping= mappazione ndt). E´ stata sviluppata per individuare i geni
responsabili delle differenze di carattere razziale presenti nelle
malattie ereditarie ed è agli esordi dell´applicazione pratica. Ma
grazie ad essa potremo forse scoprire la ricetta genetica dei capelli
biondi di un norvegese, della pelle nera tendente al viola di un
abitante delle isole Salomone, del volto piatto di un inuit, e degli
occhi a mandorla di un cinese Han. Non guarderemo più con aria ebete
ai dipinti della galleria. Sapremo fare i nomi dei pittori.
Esiste un´ultima ragione per cui la razza conta. Ci dà motivo, se non
ve ne fossero già a sufficienza, di tenere in considerazione e
proteggere alcune degli individui più sconosciuti ed emarginati del
mondo. Riferendosi agli abitanti delle Andamane come ad appartenenti
all´antico ceppo razziale negrito, l´articolo pubblicato da The Times
of India usava una terminologia corretta. Negrito è il nome dato dagli
antropologi ad un popolo diffuso un tempo nel sudest asiatico. Si
tratta di individui di statura molto bassa, di pelle molto scura e con
capelli ricciuti.
Sembrano pigmei africani migrati dalle giungle del Congo per andare a
stabilirsi in un´isola tropicale, ma non lo sono.
I più recenti dati genetici suggeriscono che i negrito discendono dai
primi esseri umani moderni che invasero l´Asia, circa 100.000 anni fa.
Nel tempo furono invasi o assorbiti da ondate di popolazioni agricole
del Neolitico e in seguito quasi spazzati via dai colonialisti
britannici, spagnoli e indiani. Oggi sono confinati nella penisola
malese, e in poche isole delle Filippine e delle Andamane.
Fortunatamente pare che gran parte dei negrito delle Andamane siano
sopravvissuti allo tsunami di dicembre. Il destino di una tribù, i
Sentinelesi, resta incerto, ma un elicottero della guardia costiera
indiana inviato a controllare è stato vittima di un attacco con archi
e frecce, il che è confortante. Le popolazioni negrito, ovunque si
trovino, sono però così numericamente ridotte, isolate e impoverite
che paiono con certezza destinate a scomparire.
Eppure anche dopo la loro scomparsa le varianti genetiche che li
definivano come negrito resteranno, benché sparse, negli individui che
abitano il litorale del Golfo del Bengala e del mar cinese
meridionale. Resteranno visibili nella pelle di solito scura di alcuni
indonesiani, nei capelli insolitamente ricci di alcuni cingalesi, nei
fisici insolitamente esili di alcuni filippini. Ma la combinazione di
geni unica che caratterizza i negrito, e che ha impiegato decine di
migliaia di anni ad evolversi, sarà scomparsa. Una razza umana sarà
andata estinta e la specie umana ne risulterà impoverita.
ARMAND MARIE LEROI
New York Times la Repubblica
22 marzo 2005 Traduzione di Emilia Benghi