Carteggio segreto fra Matteuccio da Firenze e Silviuzzo da Arcore, prima dell’incontro di Roma
Honorato Matteuccio, Silviuzzo carissimo
Firenze.
Compare mio caro, non ho avuto maggior dolore di quando intesi voi essere condannato. Duolmi non vi havere potuto aiutare, come meritava la fede che avevate in me, né potervi giovare in cosa alcuna. Ora, compare mio, quello vi ho a dire è che voi facciate buon cuore a questa persecutione, come avete fatto all’altre che vi son sute facte, et che quando sarete liberato dal confino, voglio vegnate a starvi qua a piacere, quel tempo che vorrete. Et dove sarò, o in villa, o in Firenze, o a Roma, sarò, come sono stato, sempre vostro. So bene che niente può il coraggio, o la prudenza, o la forza, o qualunque virtù, se manca la fortuna. A Roma, di questo si vede ogni giorno la prova. Conosco non pochi, ignobili, illetterati, dappoco, godere di altissima autorità, et con improntitudine et astuzia, più che con ingegno et prudenza, si fanno strada. Et per tutte le cause, et maxime per questa, desidererei essere con voi, et vedere se noi potessimo rassettare questo mondo, et, se non il mondo, almeno questa parte qua.
Sono vostro
Matteuccio da Firenze
Arcore.
Magnifice orator, la vostra lettera tanto amorevole mi ha fatto dimenticare tucti gli affanni passati. Et questi miei affanni li ho portati tanto francamente, che io stesso me ne voglio bene. Et se parrà a questi governanti di non lasciarmi a terra, io l’avrò caro; et se non parrà, io mi vivrò come io venni al mondo, che nacqui povero, et imparai prima a stentare che a godere.
La Fortuna ha fatto sì che, non sapendo ragionare né dell’arte della seta et dell’arte della lana, né de’ guadagni né delle perdite, mi conviene ragionare dello Stato et devo votarmi a parlare di questo, oppure a restare zitto. Io sto dunque in villa tra i miei pidocchi, senza trovare uomo che della virtù mia si ricordi; la casa in cui dimoro non si può chiamare cattiva, ma io non la chiamerò mai buona, perché è senza quelle comodità che si ricercano: le stanze sono piccole, le finestre alte, un fondo di torre non è fatto altrimenti; ha innanzi un pratello bitorzoluto, ed è sotterrata tra i monti talmente che la più lunga veduta non passa mezzo miglio.
Cazzus, è impossibile che io possa stare molto così, perché io mi logoro e veggo, se Iddio non mi si mostrerà più favorevole, che io sarò un dì forzato a pormi per precettore, o segretario, o ficcarmi in qualche terra deserta ed insegnare leggere a’ fanciulli, et lasciare qua la mia brigata.
Io non vi scrivo questo perché io voglia che voi prendiate per me disagio o briga, ma solo per sfogarmene, et per non vi scrivere più di questa materia, come odiosa quanto ella può.
Valete
Silviuzzo da Arcore
Firenze
Silviuzzo honorando, quando io leggo i vostri titoli et considero con quanti re, duchi et principi voi havete altre volte negoziato, mi ricordo di Lisandro spartano, a cui dopo tante vittorie e trofei fu data la cura di distribuire la carne a quelli medesimi soldati a cui sì gloriosamente haveva comandato, et dico: vedi che mutati solum i visi delli huomini e i colori estrinseci, le cose medesime tutte ritornano, né vediamo accidente alcuno che in altri tempi non sia stato veduto. Honorabile Silviuzzo, è certo gran cosa a considerare quanto gli huomini siano ciechi nelle cose dove essi peccano, et quanto siano acerrimi persecutori dei vizi che non hanno. I cittadini vorrebbero a governare uno che insegnasse loro la via del Paradiso, et io vorrei trovarne uno che insegnasse loro la via di andare a casa del diavolo; et vorrebbero appresso che fosse huomo prudente, integro, et io ne vorrei trovare uno più astuto del Savonarola. Perché io credo che questo sarebbe il vero modo di andare in Paradiso: imparare la via dello Inferno per fuggirla.
Lo accordo nostro è stato consigliato veduti i comportamenti ambigui e incerti, veduto il poco ordine delle genti nostre, veduti noi di Italia poveri, ambitiosi et vili: ma si intende uno accordo che sia fermo, non dubbio e intrigato, perché uno accordo netto è salutifero, uno intrigato è al tutto pernicioso, et la rovina nostra.
Sempre vostro
Matteuccio da Firenze
Arcore.
Voi, compare, con più avvisi dello amor vostro mi havete levato dallo animo infinite molestie. La Fortuna ha voluto che standomi in villa, io abbia corrispondenza d’affetto con una creatura tanto gentile, tanto delicata, tanto nobile che io non potrei laudarla né amarla di più. Avrei a dirvi gli inizi di questo amore, con che reti mi prese, et vedreste che le furono reti d’oro, tese tra fiori, tessute da Venere: bastivi sapere che, già vicino agli ottant’anni, ogni cosa mi appare piana, né l’oscurità delle notti mi sbigottisce. Ho lasciato dunque i pensieri delle cose grandi et gravi, et tucte si sono convertite in ragionamenti dolci, di che ringrazio Venere e tutta Cipro. Dicovi che ciò che mi fa stare ammirato è avere trovato tanta devozione, perché il più delle volte le femmine sogliono amare la fortuna et non li huomini, et quando essa si muta, mutarsi anchor loro.
Vi scrissi anche che l’otio mi faceva innamorato et così vi confermo, perché ho quasi faccenda nessuna. Non posso molto leggere, a causa della vista per l’età diminuita; non posso ire ai sollazzi se non accompagnato; se mi occupo in pensieri, li più mi arrecano melanchonia; et di necessità bisogna ridursi a pensare a cose piacevoli, né so cosa che dilecti più, a pensare e a farlo, che il fottere, et per quanto gli huomini filosofeggino, questa è la pura verità, sulla quale molti sono d’accordo ma pochi la dicono.
Chi vedesse le nostre lettere, honorando compare, et vedesse le differenze tra quelle, si meraviglierebbe assai, perché gli parrebbe ora che noi fussimi degli huomini gravi, tutti volti a cose grandi, et che ne’ nostri petti non potesse cascare alcun pensiero che non avesse in sé honestà e grandezza. Però di poi, voltando carta, gli parrebbe quelli noi medesimi essere leggeri, incostanti, lascivi, volti a cose vane. Questo modo di procedere, se a qualcuno pare sia vituperoso, a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia, et chi imita quella non può esser ripreso.
Io nel mezzo di tutte le mie felicità non ebbi mai cosa che mi dilectasse tanto quanto i ragionamenti vostri, perché da quelli sempre imparavo qualche cosa; pensate dunque, trovandomi ora discosto da ogn’altro bene, quanto mi sia stata grata la lectera vostra, alla quale non manca altro che la vostra presenzia et il suono della viva voce; et mentre la ho lecta, che la ho lecta più volte, ho sempre dimenticato le infelici condizioni mia, et parmi essere ritornato in quelli maneggi, dove io ho invano tante fatiche durate et speso tanto tempo, benché io sia deciso a non pensare più a cose di stato né a ragionarne, come ne fa fede l’essere io venuto in villa. Ma, compare mio caro, ho speranza che non passerà 15 giorni che potremo parlare insieme a Roma di molte cose. Io vi ho a dire questo: che io verrò in ogni modo, né mi può impedire altro che una malattia, che Iddio ne guardi.
Sono vostro
Silviuzzo da Arcore.
Fonte saccheggiata ma non tanto:
Niccolò Machiavelli
Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini (1513-1527)
Sara Di Giuseppe