Maschile e femminile – Patriarcato e matriarcato sono simbolici e coesistenti
Caro Paolo, mi ha colpito nel tuo scritto sul maschile e il femminile
(http://riciclaggiodellamemoria.blogspot.it/2014/01/maschile-e-femminile-e-lincontro.html)
il tono apodittico con cui sostieni quelle che sono soltanto ipotesi inscritte in una visione storicistico-evolutiva di stampo marcatamente occidentale moderno. Il matriarcato, quale fenomeno antecedente al patriarcato, e il lento passaggio dal primo al secondo sono semplici ipotesi. Anche ammesso che siano esistite società matriarcali, bisogna considerare come ciò potesse significare semplicemente che le donne si dedicavano al Manifesto (i Piccoli Misteri, includenti la ricerca scientifica), mentre invece gli uomini si dedicavano ai Misteri metafisici.
A tutt’oggi nelle campagne dell’India ogni villaggio venera una murti particolare della Madre, sullo sfondo dei grandi Misteri non dualistici di matrice shivaita o vedantica. Scrive Ananda K. Coomaraswamy nel suo celebre studio “Induismo e Buddhismo”: “Se consideriamo le due parti dell’Unità originariamente indivisa, vediamo che queste possono essere intese in diversi modi: per esempio, dal punto di vista politico, corrispondono al Sacerdotium e al Regnum; sotto l’aspetto psicologico, possono essere considerate come il Sé e il Non-Sé, l’Uomo interiore e l’individualità esteriore, il Maschio e la Femmina. [...] La distinzione delle funzioni in termini di sesso definisce la gerarchia. Soltanto Dio è maschile rispetto a tutto. Ne consegue che, così come Mitra è maschile rispetto a Varuna e Varuna è maschile rispetto alla Terra, analogamente il sacerdote è maschile rispetto al re e il re è maschile rispetto al suo reame. [...] In tutti questi rapporti, è il principio noetico a sanzionare o a prescrivere quanto è necessario all’armonia. Il disordine fa la sua comparsa quando l’elemento subordinato viene meno alla sua normale funzione, soggiacendo alla tirannia delle proprie passioni, anche se scambia ciò per libertà”.
E ancora: “La sottomissione dell’Uomo Esteriore all’Uomo Interiore è esattamente ciò che si intende per padronanza di se stessi e per autonomia, il cui contrario è l’arroganza. [...] Questo matrimonio sacro, consumato nel Cuore, adombra il più profondo dei misteri: la nostra morte è nello stesso tempo la nostra resurrezione beatifica. [...] Quando ognuno è entrambi, non sussiste più nessuna relazione. [...] Tutto ciò implica che quello che chiamiamo il processo del mondo e una creazione sia soltanto un gioco che lo Spirito gioca con se stesso”.
Evidentemente, Coomaraswamy espone in modo autorevole una chiave di lettura della questione maschile-femminile diversa dalla tua.
Anche la tua ricostruzione del mito riguardante la nascita di Ganesh mi sembra peccare di arbitrarietà. Tra le numerose versioni del mito, ne hai scelta una, ritoccandola ad usum delphini e raccontandola come se fosse la più valida se non l’unica. In realtà Ganesh, nella versione da te citata, pretende di sbarrare il passo a Shiva per la semplice ragione che non lo riconosce; come conseguenza di ciò gli viene tagliata la testa. In un’altra versione, è Shiva stesso che crea Ganesh da un pezzo di stoffa o direttamente con la sua mente. In nessuna versione, tra quelle da me lette, si dice che Ganesha avesse il potere reale di interporsi tra Mahadeva e Parvati, né che avesse la forza di sconfiggere Shiva.
Non è escluso, inoltre, che la visione evolutiva – oggi tanto in auge – e la pretesa di estendere a tutti la propria verità risentano dell’influsso di quel Cristianesimo a-metafisico (c’è anche, ben nascosto, un Cristianesimo metafisico) da cui sono derivati l’agnosticismo e il materialismo; la prima mi pare altresì contraria alla visione tradizionale orientale, per la quale in termini cosmogonici la presente umanità (la settima) sarebbe ormai agli sgoccioli, ovvero nel crepuscolo dell’Era finale in cui si consumerà il pralaya, la distruzione. Benché i Purana sostengano che un certo stile di vita in armonia col Dharma potrà forse rimandare il momento del pralaya o che addirittura permetterà ad alcuni di costituire il nucleo da cui risorgerà la prossima umanità, essi concordano all’unanimità nel ritenere che gli uomini attuali siano giunti al grado massimo di degenerazione e stupidità. Significativamente, gli autori indiani che hanno parlato e parlano di “evoluzionismo della specie” sono stati tutti educati o influenzati dall’Occidente moderno. In ogni caso la Liberazione dall’ignoranza-avidya rimane sempre a portata di mano, purché vi si aspiri sinceramente.
Raphael (che, se ho ben capito, tu non pregi molto) nota in una sua bella Prefazione alla Bhagavad-gita: «D’altra parte, se la vera Rivoluzione (metánoia) per i più non può attuarsi, allora si lasci che il ciclo si volga inesorabilmente al tramonto perché da una “catastrofe” imposta dal “Cielo” non può non rinascere un’epoca purificata ed illuminata. Dopo il tramonto vi è sempre l’alba, e l’umanità non è la prima volta che subisce questa alternanza di tenebra-Luce. Chi è fisso nel Principio che è e non diviene non ha nulla da temere; di là da ogni sentimentalismo borghese vi sono necessità cosmiche che sanno rimediare alla cecità di enti che hanno preferito la tenebra alla Luce, la morte all’Immortalità, il non essere all’Essere».
Secondo il punto di vista della cosmogonia Samkhya (uno tra i sei darshana ortodossi della Tradizione indiana), il cosmo è costituito da venticinque categorie o tattva, delle quali le prime due sono Purusha e Prakriti; Purusha è il principio maschile, il portatore di “forma” che con la sua sola presenza provoca l’attività di Prakriti; Prakriti è la sostanza primordiale, la materia-energia informale, indifferenziata, passiva, femminile. Sulla base di questo breve cenno, si può intuitivamente comprendere come mai, presso tutti i popoli tradizionali dell’area indoeuropea, fosse e sia di fondamentale importanza sapere con certezza l’identità del padre; questi, infatti, è portatore del Principio, della “forma”, nel senso di essenza, che non potrebbe manifestarsi senza la disponibilità e l’apertura incondizionata della madre. Al riguardo val la pena osservare come la tendenza contemporanea di rifiutare il valore della figura paterna si inscriva in un più ampio e integrale movimento di impoverimento e di annichilimento della realtà umana, le cui conseguenze nefaste sono sotto gli occhi di chiunque voglia vedere.
Il sistema Samkhya (che costituisce l’ossatura della cosmogonia Hindu) sembra attribuire al principio del Purusha una sorta di preminenza ontologica rispetto al principio della Prakriti. Nell’Introduzione alle Samkhyakarika di Ishvarakrishna, Raniero Gnoli equipara il Purusha alla realtà assoluta e la Prakriti alla realtà relativa, sottolineando però come non si possa fare a meno di servirsi della realtà fenomenica per svelare la realtà ineffabile.
L’idea che dal Vuoto-Pieno emerga il Principio Ishvara, l’Arché, e da questo sorgano in contemporanea due principi di pari dignità e valore non è in genere riconosciuta dalla Tradizione del Sanatana-dharma. Per esempio, nella Prashna Upanishad si sostiene esplicitamente che dal Brahman emana il Sole, il divoratore del cibo, da questo la Luna, il cibo, e dalla Luna la molteplicità degli esseri. Si tratta pertanto di un’emanazione di natura gerarchica indicante pure il percorso di reintegrazione dell’individualità nell’Essere: dalla condizione umana al mondo della Luna o degli Antenati, da questo al Mondo del Sole o degli Dei, dal Sole a Ishvara, o punto di congiunzione tra il Manifesto e l’Immanifesto e da questo all’Assoluto, al senza Principio.
Tale manifestazione scalare dei princìpi la si ravvisa pure nella rivelazione biblica: da Adamo, l’uomo primordiale, di natura androgina, Dio estrae la donna, il principio femminile. Agli inizi del processo generativo abbiamo dunque una sorta di incesto: la figlia, emanata dal padre, si unisce al medesimo. In modo pressoché identico si svolge il mito vedico della creazione: Prajapati, l’uomo universale, prima ipostasi divina, genera Ushas, l’Aurora, alla quale in seguito si unisce per dare il via alla molteplicità degli esseri. Tale unione viene sia favorita che osteggiata da Rudra Shiva, nella sua forma di Sharva, l’Arciere selvaggio, il quale, mentre tenta di proteggere l’Increato, che egli più di ogni altro dio rappresenta, suscita contraddittoriamente il desiderio erotico in Prajapati. Alle radici dell’esistenza vi è dunque una contraddizione irrisolvibile razionalmente. Il mito indiano sembra volerci dire che, distaccandosi dalla perfezione dello stato incondizionato, la creazione è imperfetta sin dall’origine. A ciò posero però riparo gli Dei, modellando coi mantra Vastoshpati, il Custode e Protettore dell’ordine sacro.
Quantunque i modelli cosmogonici delle diverse tradizioni presentino delle costanti, si prestano a plurime interpretazioni. Nella Teogonia di Esiodo, le tre Potenze principiali sono Cháos, Gea ed Eros; qui però è Gea, la madre Terra, che emana il proprio figlio-sposo, Urano, il cielo stellato. Anche in India abbiamo un culto assai diffuso, detto Shakta, il quale identifica il Principio attivo dell’esistenza nella Shakti, la potenza o energia femminile. Tuttavia, pure in tale lignaggio l’impianto dottrinale e il rapporto gerarchico tra Immanifesto e Manifesto, Essere e divenire permangono.
Studi accurati hanno rilevato come le differenziazioni gerarchiche non valgano solo per le categorie diacroniche appartenenti alla dimensione verticale – alto-basso, davanti-dietro –, ma anche per quelle sincroniche – destra-sinistra, maschio-femmina, dispari-pari – inerenti la dimensione orizzontale; mentre per le prime è facile identificarne le ragioni a livello fisiologico umano (la testa sta in alto e quindi l’alto è più importante del basso), per le seconde (in cui vige quasi universalmente il destrismo) si deve parlare come di un “assioma”, ovvero di una verità che esiste a priori, indimostrabile. In ambito scientifico non si è riusciti a trovare spiegazioni accettabili a tali fenomeni di preminenza di un polo sull’altro, ma le varie tradizioni li giustificano attraverso i miti dell’origine che si riferiscono al passaggio da uno stato pre-cosmogonico (Unità) ad uno cosmogonico (Molteplicità); cfr. Silvio Curletto, La norma e il suo rovescio, cap. I, Ge 1990.
Quanto sopra dimostra in modo incontrovertibile la natura violenta dell’egualitarismo che, opponendosi alla realtà, nega le differenze e rifiuta le gerarchie. «Ecco che allora l’egualitarismo diventa assassino. Si pretende di rendere uguali tutti i popoli, ma unicamente secondo il modello dell’europeo medio, pseudocristiano. Nessuno si sogna di mettersi allo stesso livello dei Pigmei, dei Santal dell’India, delle tribù indie dell’Amazzonia» (Alain Daniélou, La Via del Labirinto, p. 327). Perseguire l’equilibrio non ha nulla a che vedere con l’imposizione artificiosa dell’uguaglianza; la ricerca dell’armonia non può essere racchiusa in un’ideologia o in un dogma dati una volta per tutte, ma scaturisce da un’attenzione costante, ritmica, radicata nell’Origine o nell’Archetipo eternamente presenti.
Secondo lo Shivaismo triadico del Kashmir (che a me pare tra le dottrine più interessanti), la Shakti è la Forza-Vibrazione per mezzo della quale l’Assoluto (Anuttara, il Senza Superiore) prende coscienza di Sé. Shiva, Shakti e la Molteplicità convergerebbero dunque all’unisono in Paramashiva.
La tua critica alla “verginità” della Madonna non tiene conto di come essa rimandi alla qualità della Prakriti di generare pur senza diminuire mai, rimanendo integra. Quale mistero!
Alla luce di quanto sovra esposto, non mi sembra saggio ridurre la questione maschile-femminile entro schemi semplicistici. Essa è a mio avviso ben più complessa e sfumata e richiede di essere affrontata non solo razionalmente o dottrinalmente in modo approfondito, ma anche e soprattutto sub specie interioritatis. Persino la studiosa Evy J. Haland (da me recentemente recensita) si spazientisce quando le viene riproposta l’opposizione patriarcato-matriarcato, poiché ella dichiara di non credere che la religione mediterranea sia matriarcale o patriarcale o che prima ci fu il matriarcato e in seguito il patriarcato.
Spero di essere riuscito a portare un contributo sia pur minimo alla discussione.
Un cordiale saluto,
Subramanyam
…………………………..
Mia rispostina: “Caro Fratello Subramanyam, grazie per il tuo prezioso contributo. Ogni visione quando assunta diventa “apodittica”, è normale che sia così, questa è la tecnica nella disfida filosofica in cui ognuno dei “contendenti” (a caso) assume una ipotesi e per essa trova tutte le possibili ragioni per farla trionfare. Si dice ad esempio che il famoso Pandit Kavyakanta Ganapati Muni, un discepolo di Ramana Maharshi, fosse in grado di assumere una posizione e vincere un dibattito e poi assumere la posizione opposta ottenendo lo stesso risultato… Ti dice qualcosa ciò?”
Replica di Subramanyam: “Caro Paolo,
personalmente credo che la ragione vada usata al meglio, nella consapevolezza dei suoi limiti. La ragione è un guaio soltanto quando pretende di spiegare tutto o di elargire dogmi inconfutabili.
Non penso che lo
stile sofistico fosse quello di Sri Ramana. Quest’ultimo si mise a parlare, sia pur moderatamente, per aiutare anche con le parole gli “aspiranti” alla Conoscenza. Presso la tradizione indiana, si usa la metafora della luna e dell’albero. “Dov’è la luna?”, chiede uno, “Appesa al penultimo ramo di quell’albero” risponde l’altro.
Certo la luna non starà mai appesa ad un ramo, tuttavia un tale stratagemma risulta efficace.
Così dovrebbe funzionare la ragione usata in modo onesto.
Nell’ambito del lignaggio shivaita, al quale appartengo, il mondo non è “vuoto” o “nulla”, bensì il gioco (lila) di Shiva. Perciò bisogna prendersene cura con amore a seconda del proprio dharma e per quanto necessario.
Un fraterno saluto, Subramanyam”
Mia considerazione: “Kavyakanta era un discepolo di Ramana, non era Ramana. Il riferimento al suo “sofismo” è solo un “ruse” per smitizzare la concettualizzazione, non dando eccessiva importanza a qualsiasi posizione affermativa o negativa assunta. In quell’articolo sul maschile femminile ho espresso alcuni aspetti “psicostorici” (come da me percepiti in una circostanza) del percorso evolutivo umano, come anche descritto da studiosi, anzi studiose, di livello, quali la Esler, Gimbutas, Lonzi, etc. In altre occasioni le stesse argomentazioni sono state da me confutate, non per una professione sofista, ma semplicemente perché le visuali possono cambiare e cambiando la visuale cambia anche la percezione della “verità”. Kurosawa nell’esprimere questa immagine fu maestro (nel suo insuperato film Rashomon).
In fondo questi discorsi hanno la sola valenza di un “passatempo culturale” e come tali andrebbero “goduti”, come l’osservazione di un tramonto, una poesia, una commedia dell’arte, una ….
Shivaita, visnuita, cristiano, buddista, ateo… cosa vuoi che sia…?
Ti abbraccio con affetto, caro Fratello.
Paolo”
………………………
Commento di Roberto Anastagi: “Ho cercato di leggere con tutta l’attenzione il lungo articolo di Subramanyam.
Confesso che ho trovato inaudita la sua conoscenza della mitologia indiana (io la chiamo così) e mi sono sentito perso nel tentativo di dare un mio parere sentendomi smisuratamente ignorante in confronto.
Poi mentre riflettevo ho percepito Subramanyam lasciare la nostra misera terra e salire sempre più in alto fino a raggiungere il posto dove tutte le divinità da lui enunciate risiedono.
Ho subito capito la ragione di questa mia visione, il suo linguaggio è quello di uno che deve essere pappa e ciccia con tutte quelle divinità delle quali sa su di loro sicuramente più di quello che loro sanno.
Nei miei 2 anni di permanenza in India mi sono convinto che tutti gli aspetti delle infinite sfaccettature delle loro religioni sono assolutamente il contrario di come Subramanyam ci descrive con totale precisione il compito di molte delle infinite divinità di quel subcontinente.
Leggendo il suo articolo, mi è sembrato di capire che lui ritiene di sapere tutto sul passato, sul presente e sul futuro del universo, il che sono convinto che mentre può essere molto utile per il suo ego, è invece inutile per trovare la vera strada che ci è stata assegnata.
Questo è il mio modesto parere.”