Ebraismo e cristianesimo – Le presunte comuni radici etniche e religiose di un “credo”

Se vogliamo fare un ragionamento “religioso” ciò che succede oggi è lo specchio della presunta storia ancorché mito ma non muta la forza della verità.. ci possiamo considerare dei perseguitati (martiri) laici….

Il cristo storico (materiale) in carne ed ossa viene ucciso dagli ebrei…. guidati da loro DIO, il cristo amore presente nella nostra anima viene ucciso ancora oggi con il neoliberismo voluto dai predatori…. guidati dal loro Dio (le due divinità continuano a non coincidere!!! altro che fratelli maggiori).
“faranno anche a voi quello che hanno fatto a me” (GV 15, 20)

Uno dei motivi per cui io faccio sempre la stessa domanda a Sacerdoti che credo illuminati oltre che preparati in termini storici e cristologici …. Io ho la totale sensazione interiore (non pretendo chiamarla illuminazione)
che la Cristologia sia assolutamente autonoma nel suo impianto teologico dall’ebraismo e non ha nessun bisogno (ne storico, ne escatologico) di essere legata alla storia degli ebrei.
E 2014 anni dovrebbero essere sufficienti a capire gli errori del primo concilio (quello di Nicea)!
Comprendo che questo farebbe cadere molti dogmi, e sopratutto tutto l’impianto del peccato originale
in termini di salvezza a cui la chiesa ha risposto con dei protocolli (materiali e finanziari) anziché con la formazione dello spirito ma del resto una prima dottrina di “uguaglianza” la impone proprio la chiesa non certo Gesù che addirittura fa differenze tra i discepoli, tra Marta e Maria, tra i contadini, nelle parabole ecc.
La gestione materiale delle “anime” è più semplice se si protocollano le procedure di accesso allo spirito (battesimo cresima ecc) e si rende tutti uguali!
Del resto stesso metodo ebraico quello della ritualità….. noi siamo il potere e quindi la verità, voi siete quelli “uguali” ed impreparati e dal potere avrete protezione e giustizia solo se….. (senza mai prospettare una crescita nella sovranità spirituale)
Molto più difficile fare emergere il cristo interiore che è l’amore e renderlo vivo………
Se la chiesa non si riforma (ritorna) ad una dimensione spirituale lasciano le dottrine rigide i dogmi le gerarchie farà una brutta fine lo spirito è libero e soffia dove vuole! (non solo dove dice il magistero).
Ne ho parlato con una veggente ed è veramente sconvolgente sentire che i profeti di questo tempo non sono presi in considerazione.
Questo papa non convince è troppo neoliberista….. nell’accogliere tutti nel gregge si finisce per fare entrare i lupi…. del resto Cristo non è “venuto per unire ma per dividere” (MT 10, 34)

G.V. e G.T.

……………………………

Stralcio dal libro:

A.F.K. GUENTHER
TIPOLOGIA RAZZIALE DEL POPOLO EBRAICO

PREFAZIONE
Questo testo di Hans F. K. Günther è sicuramente unico nel suo genere; tanto basterebbe per giustificare il
suo straordinario interesse, e questo indipendentemente da certi spunti ormai datati, cosa non sorprendente
quando si pensa che fu pubblicato negli anni venti/trenta.
Ciò che egli sostiene sulle ‘origini’ delle diverse razze che hanno formato il composto ebraico, riflette idee
specifiche in circolazione agli inizi del secolo XX. In particolare per la cosiddetta ‘razza camitica’, a cui egli
attribuisce, oltre che essere addirittura un “ramo” di quella razza originaria da cui sarebbe derivata poi la
stessa razza nordica, anche la creazione della civiltà egizia, che invece fu certamente di origine atlantidea.
Del resto è di uno storico francese odierno, certamente non “razzista”, la puntualizzazione che se “bisogna
ammettere che non si sa nulla di preciso sulla primitiva “razza egizia” (?), è evidente che si tratta di africani
bianchi” (Christian Jaq: “L’Egitto dei grandi Faraoni” ed. Mondatori pag. 33) In realtà, a parte gli
indubitabili aspetti di dignità e fierezza che essa dimostra, aspetti che Gunther vorrebbe riportare ad una
unica radice, e questo potrebbe anche essere vero, il “manto nero” con cui, purtroppo per lei, è rivestita, gli
impedisce comunque un grado appena tollerabile di vera creatività per cui, anche se in Africa, in mezzo ad
una sub-umanità generalizzata, si presenta come “razza di signori”, in sé e per sé resta soltanto una
sottorazza della complessiva razza negroide. Inoltre – vizio tipico dei suoi tempi – Günther parla abbastanza
spesso di ‘Occidente’ (popoli occidentali, cultura occidentale, ecc.) dimenticando che, proprio dal punto di
vista razziologico, non ci sono un ‘oriente’ e un ‘occidente’ in Europa. La contrapposizione fondamentale sta
piuttosto fra Europa e non-Europa. L’assimilazione poi del mondo anglofono a quel fantomatico ‘Occidente’
è per lo meno abusiva, e riflette una larvata ed esiziale anglofilia che affiora continuamente nell’opera del
Günther, e da noi già denunciata in una precedente pubblicazione del medesimo autore (H.F.K. Guenther:
“Tipologia razziale dell’Europa” Ed. Ghènos Ferrara 2003).
Ma una volta lasciati da parte questi dettagli che, in fondo, hanno poca relazione diretta con l’argomento
fondamentale, resta il fatto che il libro del Günther ci dà un itinerario razziologico storico dell’etnia ebraica,
che dimostra in modo perfetto come un popolo del tutto particolare, abbia potuto rimanere tale anche DOPO
IL SUO SNATURAMENTO RAZZIALE, totale o quasi, trasportato SOLO da un’idea-forza di tipo
religioso. A questo riguardo il caso ebraico è probabilmente unico; e ciò dà adito a considerazioni che al
Günther sono completamente sfuggite. Egli vede nel problema ebraico un fatto esclusivamente ‘razziale’; ma
per razza intende solo una manifestazione biologica o psicobiologica, mai metabiologica, invece, grazie
all’opera di J.Evola, noi sappiamo che vi è un “terzo livello” (Clauss aveva già analizzato il secondo livello,
relativo all’Anima), quello della ‘razza dello spirito’ il quale, e proprio in un caso così speciale come quello
ebraico, veramente domina sia sulla razza del corpo che su quella della psiche (1). Fattore portante del
fenomeno ebraico dunque è proprio questa specifica ‘razza dello spirito’. Ciò comporta che il problema
ebraico non è soltanto un problema ‘razziale’ (razza del corpo e della psiche) (2); e probabilmente non è
neanche vero che in Europa ci potrebbe essere un analogo problema ‘armeno’ o ’siriaco’, se armeni o siriani
vi fossero presenti in numero sufficiente. Essi certamente porrebbero un problema, ma questo sarebbe
completamente diverso dal problema ebraico.
Quel fermento di dissoluzione UNICO che l’etnia ebraica ha portato in Europa e nel mondo, non è soltanto
conseguenza della sua composizione razziale (non molto diversa in fondo da quella di altre etnie medioorientali),
ma piuttosto di quella sua particolare natura spirituale di tipo radicalmente catagogico. Gli ebrei,
fatte naturalmente le dovute eccezioni, non si sono “accontentati” di fare del semplice parassitismo in
Europa (come lo fanno del resto gli zingari e tanti altri tipi di extracomunitari che a milioni “ciondolano”
per il nostro continente), ma si sono impegnati attivamente alla dissoluzione etica e biologica degli stessi
popoli europei. Ciò è stato reso possibile e sommamente facilitato dal fatto che la religione divenuta
preponderante in Europa (il Cristianesimo), è una forma monoteista, quindi neoebraica (il monoteismo è
un’invenzione esclusivamente ebraica – ma, per motivi di spazio, su questo argomento ora non ci si può
dilungare [2]). Quindi gli ebrei, inventori (con qualche distinguo) dello stesso ‘dio’ adorato dai cristiani, non
solo sono sempre stati, bene o male, accettati in Europa (a differenza dei musulmani e, peggio ancora, di
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ogni categoria di “pagani”), ma rappresenta il FONDAMENTO dell’attuale Europa. Condizione che non
appartiene certamente ad Armeni e Siriani. Il Günther sembra abbia intuito questo fatto, ma ne attribuisce la
responsabilità non tanto al Cristianesimo in sé, quanto piuttosto alla pletora varia di chiese cristiane che lo
avrebbero ‘interpretato male’. Così egli si afferra ad una serie di trapezismi concettuali che ormai dovrebbero
essere del tutto datati; infatti da 40 anni a questa parte (e, sottobanco, anche prima) TUTTE le chiese
cristiane si sono indirizzate proprio verso il ‘ritorno alle (loro) origini ebraiche’, dimostrando con ciò, da un
lato qual’è l’unica autentica radice attiva del Cristianesimo nel suo percorso bimillenario; e dall’altro la sua
fondamentale estraneità alle più vere e profonde esigenze spirituali di una Europa fondamentalmente
Indoeuropea. (Altro che “radici giudaico-cristiane” !)
Un altro aspetto importante del libro si trova nella parte finale, e precisamente nell’illusione che il
“Sionismo”, del quale allora si discuteva animatamente, con quel suo tentativo di dare un “focolare” alle
genti disperse di Israele, fosse la panacea per tutti i problemi legati al cosiddetto “problema ebraico”. Si
trattava di trasformare costoro in un popolo come gli altri; con un territorio preciso retto da uno Stato
altrettanto ben definito, con tutti i normali rapporti che possono intercorrere tra i diversi Stati. Insomma
“inserirli nella normalità”. E’ la stessa illusione che animò il governo della Germania nazionalsocialista,
dove la “soluzione finale” del problema prevedeva proprio il loro trasferimento (e non il loro “sterminio”,
come volgarmente si continua a contrabbandare e a credere) in zone diverse del pianeta (Madagascar; Russia
orientale ecc.). fu proprio per questa illusione che la Germania del tempo collaborò attivamente con gli
ambienti sionisti, e questi a loro volta con la Germania. Ma oggi noi possiamo chiaramente vedere che
nonostante la realizzazione del progetto, il “problema ebraico” è, se possibile, ulteriormente aumentato, e a
parte il sistematico genocidio del popolo palestinese (questo sì vero e reale), con il controllo totale del
governo americano, al quale ha imposto l’attentato finto (ma con massacro vero) dell’11 settembre, esso sta
determinando, proprio per la sua “natura catagogica”, quella instabilità “globale” che in un futuro prossimo,
ma molto vicino, potrebbe portare anche a disastri “globali”: incontrollabili e definitivi.
Si può concludere affermando che il fenomeno ebraico (del quale il problema ebraico è una semplice
sfaccettatura) è qualcosa di assolutamente unico nella storia conosciuta, e il suo studio in profondità ne
rivela sempre più il carattere tanto misterioso quanto sinistro.
Il presente libro di Hans F. K. Günther, per la prima volta tradotto in lingua italiana, resta comunque una
grande pietra miliare, assolutamente indispensabile per questo tipo di studi, trattandosi infatti, come scrisse
A. Romualdi: “della più penetrante analisi dell’anima ebraica che mai sia stata scritta”.
Silvio Waldner.
(1) Julius Evola, Sintesi di dottrina della razza, Ar, Padova, 1994 (originale 1941).
(2) Gli zingari pongono un problema esclusivamente ‘razziale’, esattamente come, al momento giusto, lo
porranno anche gli africani quando, in numero sufficientemente pericoloso, si saranno stabilizzati in Europa.
(3) Cfr. Silvano Lorenzoni, Contro il monoteismo, ed. Ghènos, 2006.
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“La storia si basa in gran parte sulla
riproduzione ordinata della specie umana. I
fatti storici più importanti possono essere
rintracciati nel segreto delle famiglie, e i
connubi degli antenati dovrebbero essere
oggetto di ricerca”.
Goethe
PROLOGO
Questo libro è nato dall’Appendice di “Rassenkunde des jüdischen Volkes [Razziologia del popolo
ebraico]” che fece parte dalla prima (1922) fino alla undicesima (1927) edizione della mia
“Rassenkunde des deutschen Volkes [Razziologia del popolo tedesco]“. A partire dalla dodicesima
edizione essa però dovette essere tolta per evitare l’eccessiva estensione del libro. Ma nel prologo alla
dodicesima edizione si era già indicato che quella che sino ad allora era stata una semplice appendice,
sarebbe diventato un libro. Ma nonostante questo annuncio, impegnato in altri lavori, ho potuto
mantenere la promessa solo due anni più tardi.
In questo nuovo libro si fa una trattazione approfondita delle razze e delle stratificazioni di popoli
nella Palestina arcaica. Questo perché mi è sembrato che lo studio dell’itinerario razziale degli ebrei
fosse quanto di più appropriato ci potesse essere per sostituire, sulla loro qualità razziale, certe idee
antiquate, ma molto diffuse, con altre più accurate.
Il libro non si occuperà in modo specifico del problema ebraico, ma insegnerà a capire, attraverso la
presentazione delle fattualità razziali, come mai quel “problema” è potuto ripetutamente insorgere e
continuerà ad insorgere.
Il problema ebraico e la sua trattazione sono argomenti che appartengono ad una certa visione in
profondità degli sviluppi vitali (biologici): della natura dell’ereditarietà, dei tratti ereditari somatici e
psicologici, degli incroci razziali e della selezione. Ci sono sempre più persone che, un poco alla volta,
si convincono di quanto poco l’ambiente abbia a che vedere con la vita sia dei singoli che delle
popolazioni (soprattutto quando ci si ricorda che certi punti di vista erano diventati praticamente
articoli di fede), e di quanto, al contrario, sia importante l’interazione/confronto fra tratti ereditari e
ambiente. Perciò questo libro si propone di dimostrare come l”ebraicità’ sia il risultato dell’azione di
tratti ereditari razziali soggetti ad un determinato processo di selezione. L’autore è convinto che solo
attraverso la comprensione di questo insieme di cose si potranno ottenere le fondamenta necessarie per
poter trattare tutte le problematiche odierne e future, conseguenze inevitabili della presenza e
dell’azione del popolo ebraico.
Lo scopo del libro quindi è quello di trasmettere al lettore quelle conoscenze fondamentali che la
moderna ricerca su razza ed ereditarietà ci può fornire a proposito degli ebrei. Qui si è voluto portare a
termine per il popolo ebraico, esattamente ciò che è stato fatto nei riguardi del popolo tedesco con la
mia “Rassenkunde des deutschen Volkes”.
L’autore è debitore al dott. Bernhard Struck di Dresda per le diverse conversazioni su argomenti
riguardanti questo libro, e grazie alle quali egli poté mettere a profitto le vaste conoscenze
antropologiche, etnologiche e linguistiche di quel grande africanista.
L’autore, inoltre, esprime i suoi ringraziamenti a coloro che gli hanno fornito immagini fotografiche
per questo suo lavoro: il dott. Heinrich Fleischer di Dresda; Max Grühl, direttore della spedizione
tedesca in Etiopia; il prof. dott. Fritz Lenz di Monaco di Baviera; il prof. S. Passarge di Amburgo; il
dott. Redcliff Salaman di Royton (Inghilterra); il prof. O. Stiehl di Berlino-Steglitz; il prof. Ungewitter
di Berlino; la collezione di dipinti e di incisioni in rame di Dresda; l’Istituto Svedese di Biologia
Razziale di Uppsala e alcuni amici personali dediti alle ricerche razziologiche.
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INTRODUZIONE
Oggi circolano diverse opinioni sulla qualità razziale degli ebrei. Di queste opinioni, quelle che
appartengono alla cd. “cultura generale” non sono, in linea di massima, scientificamente sostenibili. I diversi
punti di vista sugli ebrei sono spesso non chiari, contraddittori o addirittura confusi; non esclusi quelli di
tanti scienziati e autori, ebrei e non ebrei, che si sono occupati del cd. problema ebraico.
La gente, in generale, vede negli ebrei una “razza”. Ci si è resi conto che essi, molto spesso, sono
riconoscibili come tali o per lo meno che lo sono molto più di qualsiasi altro popolo. Si è constatato che
hanno certi tratti somatici e psicologici che li distinguono somaticamente e psicologicamente da tutti gli altri
popoli occidentali, e che questi tratti sono riconosciuti come ereditati ed ereditari, e a questo punto è molto
facile per il non specialista descriverli come una “razza”.
Quando si vuole, in termini non proprio specialistici, descrivere come “razza” un qualche gruppo umano che
dimostra un insieme di tratti ereditari conformi ad un determinato ambiente sociale, si è all’interno di un
giudizio del tutto naturale; e questo è il caso anche per gli ebrei. Ma tutto ciò è insufficiente in quei casi
dove questo approccio semplicistico deve innescare ulteriori sviluppi; oppure, come nel caso degli ebrei,
esso deve servire da fondamento per la trattazione di un “problema”, in questo caso il cd. problema ebraico.
Dire che gli ebrei sono una “razza” non comporta alcuna particolare conseguenza in ambienti non scientifici,
in quanto non si vuole affermare altro che gli ebrei hanno un insieme specifico di tratti ereditari che li
distingue, nel loro insieme, da ogni altro gruppo umano d’origine occidentale.
Ma qualsiasi considerazione dettagliata degli ebrei e del problema ebraico rimarrà sempre impossibile fino
al momento in cui non si riuscirà a capire che non possono essere visti come una “razza”. Per comprendere
questo basta una semplice considerazione: ci sono ebrei di alta e di bassa statura, slanciati oppure tozzi, con
il viso stretto oppure largo, dolicocefali e brachicefali, con gli occhi scuri ma anche azzurri, bruni e biondi,
con il cd. naso ebraico ma anche con altri tipi di naso, con i capelli soffici ma anche rigidi e, non ultimo,
persone dal carattere molto vario. Perciò non c’è quella uniformità, sia pure relativa, che ci si dovrebbe
aspettare se si trattasse di una “razza”; ed è anche vero che i figli di genitori ebrei spesso mostrano
differenze importanti sia fra loro che dai loro genitori. Bisogna tener presente che per “razza” si deve
intendere soltanto un gruppo umano all’interno del quale TUTTI hanno la stessa figura somatica e
psicologica e i cui discendenti riproducono SEMPRE quella medesima figura.
Nelle mie opere di razziologia ho definito il concetto di “razza” come segue, e penso che come strumento
di lavoro sia del tutto adeguato: UNA RAZZA SI MANIFESTA IN UN GRUPPO UMANO CHE SI
DISTINGUE DA OGNI ALTRO ATTRAVERSO L’INSIEME DEI SUOI CARATTERI SOMATICI
E PSICHICI, E RIPRODUCE CONTINUAMENTE SE STESSO (1).
Da questo però segue immediatamente che l’etnologia non conosce alcun gruppo umano autoperpetuantisi
che corrisponda a questa definizione (cioé che possa essere detto una razza) e che, chiuso in se stesso,
coincida con un popolo o con qualche forma linguistica, statale o religiosa.
All’interno di tutte le stirpi e popoli si trovano due o più razze, spesso talmente mescolate che i
razzialmente puri costituiscono una irrilevante minoranza rispetto agli incroci. Questo vale – come ho tentato
di illustrare nella mia “Rassenkunde Europas [Razziologia dell'Europa]” (3a. Edizione, 1929) – in particolare
per i popoli europei che, in termini generali, sono un incrocio di razza nordica, occidentale (mediterranea),
dinarica, estide (alpina) e balto-orientale; mentre le proporzioni di queste e di altre razze, meno fortemente
rappresentate, cambiano da popolo a popolo. Dunque, i popoli occidentali vengono ad essere miscele
razziali che, fondamentalmente, consistono sempre nelle stesse razze rappresentate in proporzioni diverse.
(1) Secondo Eugen Fischer la definizione di Gross è la più descrittiva: “L’antropologia intende per razza un gruppo umano d’una
certa entità i cui membri, in ragione del possesso collettivo di un determinato insieme di caratteri ereditari, hanno in comune certe
caratteristiche somatiche e psichiche innate che lo rendono diverso da ogni altro gruppo dello stesso genere”.
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Anche gli ebrei costituiscono un miscuglio razziale, cosa che prenderemo subito come presupposto e del
quale si darà la dimostrazione in questo libro. La differenza però è che nel popolo ebraico sono
rappresentate soprattutto razze NON europee anch’esse in proporzioni variabili, e da ciò deriva che gli ebrei
possono essere riconosciuti come tali all’interno di quelle popolazioni che, dal punto di vista razziale, hanno
una composizione molto diversa. Perciò gli ebrei si distinguono dagli occidentali NON come razza specifica,
diversa da tante altre, MA COME UN PARTICOLARE MISCUGLIO RAZZIALE DIVERSO RISPETTO
AD ALTRI MISCUGLI.
Inoltre – come si è già detto in altre occasioni – gli ebrei non sono una branca di una fantomatica “razza
semitica”, come viene spesso affermato, da cui l’aggettivo “antisemita”. Quali poi dovrebbero essere le
caratteristiche di questa “razza semitica” non è certo chiaro: ci si riferisca alla mappa III, dove sono indicate
le zone di lingua semitica e nelle quali si trovano stirpi umane dei tipi più disparati, genti tanto diverse da
mettere nell’imbarazzo chiunque che, basandosi sul loro aspetto, volesse descrivere una “razza semitica”.
Per la razziologia moderna non esiste alcuna “razza semitica” e tanto meno una “razza ebraica”. Esistono
le LINGUE semitiche, e nel cap.III si prenderà in considerazione come quelle lingue vengano ad essere
l’espressione animica di un determinato tipo umano. L’aggettivo “semitico” si riferisce ad un determinato
filone linguistico ed è quindi un concetto che appartiene alla scienza delle lingue e non a quella delle razze.
L’appartenenza razziale e quella linguistica non devono essere confuse. Dall’appartenenza linguistica
originaria degli ebrei, che ebbero antenati di lingua prima ebraica e poi aramaica, ambedue lingue semitiche,
non è possibile trarre alcuna conclusione riguardo alla loro composizione razziale.
Popoli linguisticamente molto diversi possono essere razzialmente affini; e viceversa, popoli razzialmente
eterogenei possono parlare lingue simili. La lingua appartiene ‘all’aspetto’ FENOTIPO delle persone, la
razza alla sua ‘qualità ereditaria’ (IDIOTIPO). La lingua può essere cambiata, la razza no: ESSA E’
INNATA.
L’INESISTENTE “razza” semitica viene volentieri contrapposta, nella conversazione corrente
dell’Occidente europeo, ad una UGUALMENTE INESISTENTE “razza ariana”; e anche questa
contrapposizione, almeno quando è presa come fatto razziale e non linguistico, si fonda sulla confusione
continua e ripetuta fra razza e lingua.
La scienza delle lingue, nel passato, si è riferita spesso alle lingue indogermaniche come a “lingue ariane”;
adesso, soprattutto in Inghilterra, l’aggettivo aryan viene utilizzato spesso accanto a quello di
‘indoeuropean’, mentre in Germania si parla di “indogermanico”. La scienza linguistica tedesca usa il
termine “ariano” piuttosto quando si riferisce alle diramazioni indo-persiane della famiglia linguistica
indogermanica, ma si tende a dare preferenza alla dizione “indo-iraniano”. La ricerca razziologica, ai suoi
inizi aveva chiamato “ariana”, o anche “caucasica” (secondo Blumenbach), L’INESISTENTE razza
“bianca”. Dopo, razziologi, linguisti ed etnologi, chiamarono occasionalmente “ariani” i popoli di lingua
indogermanica e, alla fine, si chiamò “ariana” la razza nordica, cioé quella avente ab inizio, per espressione
linguistica, le lingue indogermaniche. Dovrebbe essere chiaro che al giorno d’oggi, la dizione “ariano” E’
INUTILIZZABILE DAL PUNTO DI VISTA SCIENTIFICO, mentre continua a circolare in ambienti non
scientifici senza avere un significato del tutto chiaro, soprattutto quando viene usata dalle popolazioni non
semite dell’Europa e dell’Asia occidentale. È probabile che sia stato l’uso degli aggettivi “ariano” e
“semitico”, fuori dall’ambito delle discussioni linguistiche, a generare quella confusione che ancora regna,
presso ebrei e non ebrei, nel campo della problematica dell’identità razziale degli ebrei; confusione alla
quale soggiacciono sia i loro amici sia i loro nemici.
Ad aumentare la confusione sull’argomento della natura e della identità razziale degli ebrei, ha contribuito
anche un errore vecchio e radicatissimo secondo il quale essi sarebbero una comunità religiosa, come lo
sono i buddisti, i musulmani, i cattolici, i protestanti, ecc. Si sente affermare che un ebreo che abbia
abbandonato la pratica della fede mosaica per adottarne un’altra o divenire “ateo” non è più un ebreo. Ma
sono proprio i canoni e le usanze della fede mosaica ad indicare che l’ebreo non praticante deve continuare
ad essere considerato tale. Fra i sionisti, che sono i più radicalmente nazionalisti fra gli ebrei, ce ne sono
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molti che non sono praticanti. L’uomo di stato inglese Disraeli (Lord Beaconsfield), era anglicano, eppure
era straordinariamente orgoglioso della sua appartenenza razziale e continuò a considerarsi per tutta la vita
un ebreo, appassionatamente legato a quello che considerò sempre il suo popolo, quello ebraico. Oggi esiste
anche una associazione internazionale di ebrei di religione cristiana. L’ebraicità, che nel passato arrivò ad
essere quasi contemporaneamente un popolo e una comunità religiosa, ora include tutta una varietà di
aderenze religiose. Ci sono ebrei cattolici, protestanti e “agnostici”, nello stesso modo che ci sono inglesi,
francesi, tedeschi, russi, ecc., cattolici, protestanti, agnostici, ecc.
Davanti alla difficoltà, se non all’impossibilità, di circoscrivere gli ebrei come una comunità religiosa, il
medico e razziologo ebreo Weissenberg si vide portato a vedere negli ebrei una specie di “comunità
culturale”, almeno da quanto mi sembra di poter dedurre dalla sua proposizione: “L’ebraicità è … secondo
me, un fenomeno culturale” (1). Se questa proposizione dovesse avere un significato più profondo, come
quella secondo la quale i tedeschi sarebbero anch’essi un “fenomeno culturale”, allora Weissenberg deve per
forza vedere negli ebrei una comunità coniata e formata attraverso l’effetto di una particolare “cultura”. Ma
ne risulterebbe anche che l’ebraicità, sotto questo punto di vista, non sarebbe riconosciuta, nella sua vera
natura, in modo esatto. Per cominciare l’idea di Weissenberg dovrebbe escludere dall’ebraicità tutti quegli
ebrei che dicono di identificarsi con la “cultura tedesca”, o con quella “francese”, o con qualche altra cultura
occidentale. Si potrebbe fare poi un altro tipo di considerazioni, e cioè: che cosa si deve intendere per
“fenomeni culturali”, e “comunità culturali”, e se gli ebrei ne siano una; dalle quali poi risulterebbe che in
quel modo non si può spiegare la natura di un gruppo umano se non in maniera insoddisfacente. Per
esempio, si potrebbe dire che i teosofi o gruppi affini, distribuiti fra tutti i popoli e tutte le zone geografiche,
sono delle “comunità culturali”. Se si volesse circoscrivere anche gli ebrei in questo modo, si lascerebbe
fuori l’importante fatto che gli ebrei sono una comunità genetica. Da ciò deriva che essi possono essere
riconosciuti come tali in mezzo a comunità umane dalla composizione razziale diversa, mentre la
riconoscibilità in base a certi tratti razziali manca non solo ai teosofi di ogni nazione, ma anche a tutte le cd.
“comunità culturali” del mondo. Queste e altre considerazioni dovrebbero rendere chiaro che la natura,
l’apparenza fenomenica e gli effetti dell’ebraicità possono essere capiti in modo razionale e completo
soltanto attraverso uno studio scientifico che veda negli ebrei una particolare comunità nazionale (2).
L’ebraicità deve quindi essere vista non come una razza e neppure come una religione o un “fenomeno
culturale”, MA COME UNA COMUNITA’ NAZIONALE. Ne segue che essa non è, in modo diretto, un
oggetto di studio della razziologia, e neppure della storia comparata delle religioni, ma dell’etnologia e
dell’etnografia. Dal punto di vista della razziologia, mi sembra che Ripley, nella sua opera “The races of
Europe [Le razze dell'Europa]” (1900), abbia collocato nel migliore dei modi gli ebrei fra gli altri popoli: gli
ebrei non sarebbero una razza ma un popolo (no race, but a people). E questo fatto, al giorno d’oggi, viene
affermato soprattutto dai sionisti che si sforzano perfino di fabbricargli una lingua (l”ebreo moderno’).
Ciò che questo popolo ebraico ha di assolutamente particolare è che manca di uno Stato; da qui la mancanza
di una sua localizzazione territoriale (sempre che non si vogliano considerare una fondazione statale e un
possedimento territoriale i nuovi insediamenti ebraici in Palestina) e di una sua propria lingua, ma questo ha
dato origine ad una specifica consapevolezza genetica con la quale egli tenta una corrispondente
compensazione. L’etnologia, della quale l’ebraicità è un oggetto naturale di studio, ha notato queste
particolarità. M. Haberlandt, nell’aggiornatissima “Illustrierten Völkerkunde [Etnologia illustrata]“, edita dal
von Buschan (vol. II, 1926, p. 299/300), dice, a proposito, degli ebrei: “Anche se non hanno alcun territorio
proprio, alcuna forma statale né alcuna lingua in comune, essi vengono ad essere una comunità nazionale
chiusa e del tutto specifica che, in ragione della sua forte consapevolezza religiosa, biologica e genetica,
costituisce un insieme incomparabilmente solido e indissolubile”.
(2) Gli “Archives Israélites” (1864) hanno affermato in modo energico la nazionalità giudaica, indicando che si trattava di qualcosa
ancorato nel sangue e nell’eredità. “L’Israele è una nazione. Siamo ebrei perché siamo nati ebrei. Il figlio di genitori israeliti, è
israelita. La sua nascita gli impone tutte le responsabilità dell’israelita, e non è perché siamo circoncisi che siamo israeliti. No: la
circoncisione non è niente di simile al battesimo cristiano. Non siamo ebrei perché siamo circoncisi, ma facciamo circoncidere i
nostri figli perché siamo israeliti. Il marchio di israeliti ci è dato dalla nascita, ed è un marchio che non possiamo mai perdere o
rifiutare. Perfino l’israelita che rifiuta la sua religione, che si fa battezzare, non cessa di essere israelita e continua ad avere tutti i
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doveri che derivano dall’essere israelita”. La “comunità nazionale” degli ebrei viene adesso affermata con massima forza dal letterato
ebreo Dubnow nella sua “Weltgeschichte des jüdischen Volkes [Storia universale del popolo ebraico]“, 1925.
Come popolo quindi, non come razza o come comunità religiosa, gli ebrei diventano oggetto di studio
delle scienze razziologiche e genetiche. E come per qualsiasi altro popolo conosciuto al mondo, anche per
loro vale la domanda: qual’è la composizione della presente e constatabile mescolanza razziale?
In questo libro si tenterà di dare una risposta studiando l’origine e lo sviluppo del popolo ebraico
(giudaico) a partire dai suoi inizi nella Palestina arcaica. È mia opinione che questo metodo di indagine sia il
più appropriato per trattare questa problematica nel modo più soddisfacente.
A PROPOSITO DELLE MISURE ANTROPOMETRICHE DEL CRANIO E DEL VISO
Non è questo il luogo per addentrarsi su come la razziologia arrivi alle sue conclusioni sulle diversità
razziali umane. Né si parlerà qui in dettaglio dei metodi di misura usati da quella scienza. Siano qui
menzionati il “Lehrbuch der Anthropologie [Testo di antropologia]” (2a. edizione, 1928) di Martin, e il
capitolo scritto da Mollison su “Tecniche e metodi dell’antropologia fisica” nel volume “Anthropologie
[Antropologia]” (Kultur der Gegenwart, parte III, cap. IV, 1923) (3).
Ma i termini più frequentemente impiegati – “testa lunga”, “viso stretto”, “testa corta”, “viso largo” (e
anche “teschio lungo”, “teschio corto”) – abbisognano di un breve chiarimento, che sarà come quello già
messo in appendice alla mia “Rassenkunde Europas [Razziologia dell'Europa]” (3a. edizione, 1929).
Si dice che un cranio/una testa è lunga se la sua misura longitudinale (vista da sopra) è sostanzialmente
superiore alla sua misura trasversale; e che un cranio/una testa è corta se la sua misura trasversale è di poco
inferiore o addirittura uguale alla sua misura longitudinale. Si misurano la lunghezza e la larghezza massima
del cranio (secondo determinati procedimenti e con riferimento a determinate superfici ossee), e poi si
esprime la larghezza come percentuale della lunghezza: questa percentuale è il cd. indice cranico. Un cranio
che sia tanto largo quanto lungo viene ad essere un cranio molto corto, con un indice cranico di 100. Se
invece la larghezza fosse il 70% della lunghezza, sarebbe un cranio lungo con un indice cranico di 70. Si
parla di crani lunghi se l’indice è uguale o minore di 74,9, di crani medi se esso sta fra 75 e 79,9 e di crani
corti se è superiore a 80.
Può darsi che gli indici così calcolati non abbiano niente da dire sui dettagli delle forme craniche.
Esistono teste sia lunghe sia corte dall’apparenza parecchio diversa.
La forma del viso viene data dal quoziente fra l’altezza del viso e la larghezza misurata fra gli zigomi,
espressa come percentuale della prima rispetto alla seconda. L’altezza del viso è (grosso modo) la distanza
fra la radice del naso, all’altezza del lato interno delle sopracciglia, fino al punto più basso (non il più
prominente) del mento. La larghezza fra gli zigomi è la separazione esterna più grande che esiste fra loro. La
percentuale così calcolata è l’indice facciale (morfologico). Si parla di visi larghi se l’indice è uguale o
minore di 84,9, di visi medi se esso sta fra 85 e 89,9 e di visi stretti se è al di sopra di 90. Se le misure sono
fatte su un individuo vivente, i limiti sono presi più bassi: fino a 83,9, da 84 a 87,7, al di sopra di 87,8.
Un alto indice cranico indica perciò una testa corta; uno basso una testa lunga; mentre, viceversa, un
indice facciale alto indica un viso stretto, e uno basso un viso largo.
Queste indicazioni sono importanti per capire quel che seguirà. Quando menzioneremo dettagli che
necessitano di chiarificazione attraverso altre indicazioni antropometriche, allora le delucidazioni necessarie
verranno date caso per caso
II. LA POPOLAZIONE DELLA PALESTINA PRIMA
DELL’IMMIGRAZIONE EBRAICA
10
Nel Paleolitico sembra che la razza neandertaliana (homo neandertalensis, presente soprattutto nell’Europa
centrale e occidentale), fosse presente anche in Palestina, ma è difficile dire se si sia trattato di individui
singoli o di intere popolazioni(1). È comunque improbabile che le popolazioni successive della Palestina,
non esclusi gli ebrei, abbiano conservato qualche influsso riconoscibile di questa razza. Le scarse tracce
paleolitiche, o altre indicazioni, non permettono comunque di decidere a quale razza appartenessero i più
primitivi pescatori e cacciatori di quell’area. È solo nel Neolitico, iniziato in Palestina verso il 10.000 a.C.,
che appaiono popolazioni già riconoscibili.
Fra il 5.000 e il 2.500 a.C., soprattutto a Geser (fra Gerusalemme e la costa), ma anche in altri luoghi della
Palestina arcaica, si riscontra la presenza di una popolazione di piccola statura (Kittel (2) indica per gli
uomini una statura media di m. 1,67, e per le donne m. 1,60) dall’aspetto striminzito, in media dolicocefali,
ma meno dolicocefali delle stirpi di lingua semitica intervenute più tardi (3).
Christian ritiene che si sia trattato di un gruppo umano di razza occidentale, “soprattutto mediterraneo” (4).
Dal punto di vista delle sue abitudini, cioé dal punto di vista culturale, fu una popolazione dedita più
all’agricoltura (cereali, olio, vino) che alla caccia; occasionalmente abitava in caverne, allevava il maiale,
usandolo anche come animale sacrificale, e praticava l’arsione dei cadaveri. Non si trattava certamente di
semiti, anche a prescindere dal fatto che i semiti puri preistorici erano alti e dolicocefali. I semiti entrano
nella storia come nomadi spregiatori del maiale, e non praticarono mai l’arsione dei cadaveri. Inoltre la
toponomastica più antica della Palestina non è semitica.
C’è chi ha voluto vedere nell’usanza dell’arsione dei cadaveri dei popoli di Geser l’indicatore di
un’immigrazione di genti di lingua indogermanica; ma fra i popoli di lingua indogermanica, e
prevalentemente di razza nordica, questa pratica ebbe inizio in modo importante solo nel Neolitico, e
inizialmente nelle terre danubiane dell’area della ceramica a nastro (secondo Schuchhardt (1) nell’area della
ceramica a cordicella, in Turingia), per diffondersi poi, verso il 2.000 a.C., fra le popolazioni di lingua
indogermanica. In Palestina probabilmente si trattò di una pratica funeraria indipendente da qualsiasi
influenza indogermanica.
Già nel Neolitico, forse nel V o IV millennio a.C., in Asia Minore Mesopoatamia e Caucaso, doveva
essersi diffuso un tipo umano poi designato come razza levantina. Sembra che, dopo il 3.500 a.C., questa
razza abbia improntato di sé più o meno fortemente anche la Siria, la Palestina e l’Egitto. Verso il 3.000 a.C.
essa avrebbe raggiunto Cipro, Creta e la Grecia (2), e nella prima età del bronzo anche l’Italia meridionale, la
Spagna e il Nord Africa. Meyer trova ancora nel IV millennio a.C. dei “tipi semitici” (3) in alcuni dipinti
egiziani. In Palestina sono riscontrabili teste brachicefale già nel Paleolitico, che difficilmente potevano
trovarsi in quella zona se non per un’antica presenza della razza levantina.
Ritrovamenti paleolitici egiziani, rinvenuti nel 1924, indicano quasi certamente che già verso il 5.000 a.C.
c’era qualche individuo levantino in Egitto. Vicino a Badari (sopra Assiut) e poi nel deserto a Nord di
Fayum, sono state scoperte tracce di una popolazione non autottona, forse immigrata dalla Palestina (1).
Uno dei ritrovamenti, una statuetta in avorio, rappresenta una donna dai caratteri somatici levantini (Fig. 5).
Se la nuca fortemente verticale, caratteristica di questa razza, può anche essere attribuita ad interessi artistici
o a cause tecniche nella fabbricazione della statuetta, non c’è dubbio che i tratti facciali non sono quelli della
rimenente popolazione egiziana. È probabile che questa statuetta sia la rappresentazione più antica rimasta
di una presenza levantina. Ci sono anche resti di ceramiche, importate dalla Siria lungo vie commerciali già
allora esistenti, che testimoniano contatti fra l’Egitto e il Medio Oriente nel V millennio a.C. (2).
a) La razza levantina
Note sulle illustrazioni:
Nelle didascalie si usano le seguenti indicazioni:
K (oppure Sch): indice cranico
G: indice facciale
A: colore degli occhi
H: colore dei capelli
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I coloriti non sono dati se non nei casi dove l’immagine non lascia riconoscere i colori reali. Nel caso che si
tratti di fotografie di persone viventi, il nome viene comunicato solo se si tratta di una persona ben
conosciuta attraverso una serie di altre immagini. In tutti i casi la descrizione razziale, che accompagna
l’immagine, si riferisce solo a quei tratti che in essa sono ben visibili. Le immagini vanno viste non tanto
come riferimenti specifici alle persone riprodotte, ma come esempi illustrativi dei tratti razziali. (Ci si
riferisca al Prologo per quel che riguarda l’accettazione di nuove immagini per questo libro.)
Questa razza viene spesso detta armenoide, perchè a quanto sembra si è mantenuta in uno stato più puro
presso il popolo armeno; ma essa era fortemente rappresentata anche nel popolo assiro, perciò viene detta
anche assiroide; ma anche alarodica, cappadocia, protoarmena e ittita. Reche la chiamò razza taurica (homo
tauricus), con riferimento ad una zona dove ancora oggi è predominante. È stata denominata anche “razza
caucasica” (da non confondersi con la razza alla quale Blumenbach diede lo stesso nome), essendo il
Caucaso un’altra zona dove oggi è fortemente rappresentata.
La razza levantina è di statura media, tozza, brachicefala con la nuca come tagliata verticalmente. Il viso è
mediamente largo, con un naso dall’aspetto massiccio che si proietta fortemente all’infuori e in direzione
della punta carnosa si incurva, o si inarca, verso il basso. Le narici, anch’esse carnose, sono disposte come se
fossero state tirate verso l’alto. Il setto nasale (septum) si estende più in basso delle narici, per cui se ne vede
una porzione molto maggiore rispetto alle altre razze. Anche le labbra sono abbastanza grosse. Il labbro
inferiore tende a protrudere più avanti rispetto a quello superiore ed è spesso leggermente pendulo e
cospicuo. Questo, assieme al naso carnoso e pendente, viene a costituire un tratto che è stato ben notato
dall’attenzione popolare, dando origine al detto che “lui (o lei) si morde il naso”. La bocca è abbastanza
larga, spesso molto larga. Negli adulti, la piega naso-labiale che va dalle narici fino a quasi gli angoli della
bocca, è più profonda che fra altre razze. Gli angoli della bocca sono spesso leggermente piegati, e danno
l’impressione di essere stati impressi con la punta di una matita.
Il mento, in confronto alle razze europee, è più basso e protrude meno, per cui un tratto caratteristico dei
profili di questa razza è la forma tracciata da una linea che unisce il labbro superiore con il punto più
saliente del mento. Gli zigomi si allontanano dalle orecchie più che fra altre razze. Le orecchie poi sono
piuttosto grandi e carnose. I capelli sono castani o neri, generalmente ricciuti, spesso crespi; gli occhi bruni,
la pelle olivastra. La pilosità corporea e la barba sono molto abbondanti. Le sopracciglia fitte spesso si
uniscono al di sopra del naso (synophris) (1).
La razza levantina ha una tendenza alla pinguedine, all’accumulo di grasso sulla nuca e sulle spalle e a
sviluppare il doppio mento, soprattutto nel sesso femminile.
Le sue caratteristiche psicologiche oggi possono essere studiate nel migliore dei modi presso quelle
popolazioni che dimostrano un più forte influsso di quella razza: greci moderni, turchi, ebrei, siri, armeni e
persiani moderni. A questa razza è stata attribuita una particolare inclinazione per gli affari, una “capacità
specifica per il commercio e i traffici” (2). Weissenberg definisce gli armeni i greci e gli ebrei “accorti
mercanti” (3). Sembrerebbe che anche la stessa capacità commerciale delle popolazioni che dimostrano solo
un influsso levantino, sia tanto più alta quanto più alto è il contenuto di sangue levantino. Von Luschan,
nella sua ultima opera, “Völker, Rassen, Sprachen [Popoli, razze, lingue]” (1922), nel discutere la
“conosciuta capacità commerciale” degli ebrei, fa notare che questa caratteristica non è distintiva soltanto
degli ebrei, ma anche, in modo precipuo, degli armeni e dei greci: “Questo spiega il fatto che in Oriente,
nelle città a popolazione prevalentemente armena o greca, gli ebrei raramente riuscivano ad affermarsi.
L’umorismo popolare ha colto questo fatto in modo tagliente, là dove dice che un greco raggira sette ebrei e
un armeno sette greci; e cioé che un armeno, come commerciante, è 49 volte più abile di un ebreo”. Quindi
l’armeno sembra essere il più furbo e il più abile nel commercio, e dal punto di vista razziale il popolo
armeno è quello che ha il massimo contenuto di sangue levantino.
I levantini mettono in atto il loro particolare genio commerciale con l’intelligenza versatile, la loquela
fiorita, la spiccata capacità, ma soprattutto nel pronunciato interesse a penetrare la psicologia altrui: sia per
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la valutazione di persone e circostanze, sia per l’abilità nell’analisi e nello stravolgimento delle loro idee. Da
questo deriva l’espressione inquisitiva e aggressiva che spesso si vede nei loro volti e che si riflette qualche
volta nel loro comportamento. Stiehl, a proposito dei prigionieri armeni, ha scritto quanto segue: “Sono
meno portati agli interventi attivi che all’osservazione cauta, hanno meno fiducia in sé stessi che la tendenza
a soppesare furbescamente le situazioni” (1). Lenz doveva pensare che la natura psicologica della razza
levantina derivasse da un processo particolare di selezione, quando scrisse: “La razza levantina è fatta non
tanto per dominare e sfruttare la natura, ma per dominare e sfruttare gli altri uomini” (1).
Questo tratto di “sfruttatori di altri uomini” ha avuto come effetto che gruppi, o individui singoli di
questa razza, sono emigrati fuori dalle zone dove tutta la popolazione era in prevalentenza levantina per
stabilirsi in mezzo ad altre popolazioni razzialmente diverse, quasi sempre come commercianti in ambiente
urbano. Per questo gli armeni, il più levantino di tutti i popoli, li troviamo non solo in Armenia ma dispersi
in tutto il mondo. von Luschan ci informa che dei quattro o cinque milioni di armeni esistenti quasi la metà
sono disseminati in ogni dove; anche se questi armeni all’estero, usando la loro “proverbiale furbizia”, sono
sempre riusciti a sottrarsi ai conteggi statistici fatti negli stati che li ospitano. “Ce ne sono a diecine di
migliaia in Ungheria, in Galizia e nei Siebenbürgen [Transilvania] e a centinaia di migliaia in Asia Minore e
a Costantinopoli; hanno grandi colonie a Parigi e a Londra, e ora anche a Berlino e a Nuova York, dove
abitano in loro specifici quartieri; la loro rapacità li ha portati perfino in Cina e in India” (2).
Gli armeni, come tutti gli altri popoli, o popolazioni prevalentemente levantine, posseggono una
particolare tenacia nel far fronte alle condizioni ambientali più difficili.
Questa razza è poi particolarmente dotata per l’attività di attore e musicante. In proprio ha anche
un’inclinazione tutta particolare per la crudeltà a sangue freddo, che diviene evidente nella storia dei persiani
(una volta che il loro contenuto di sangue nordico si fu assottigliato), ma anche in quella degli armeni e dei
turchi e, più in generale, in tutta la storia dell’Asia Minore, crudeltà che emerge in parecchi racconti delle
“Mille e una Notte”. Lenz ha fatto notare che nello Shylock di Shakespeare quella “crudeltà voluttuosa” è
descritta in modo estremamente vivido. La fredda crudeltà con cui i mercanti armeni spogliavano le loro
vittime dei loro averi è stata descritta in diverse occasioni.
Non sembra che i levantini abbiano grandi qualità per la fondazione e il mantenimento di strutture statali,
almeno fin quando si tratti di stati a popolazione prevalentemente levantina; oppure di una classe dirigente
levantina che sia in grado di avere in mano il potere solo attraverso l’influenza che può esercitare con i suoi
rapporti commerciali e la sua ricchezza. Il giudizio di von Luschan sugli armeni è che “Non c’è mai stato un
popolo tanto politicamente incompetente e tanto incapace sia di governare se stesso che farsi governare da
altri”. Le fondazioni statali grandi e durature in zone a prevalenza levantina furono quasi sempre opera di
stirpi razzialmente nordiche, come ho tentato di dimostrare nella mia “Rassenkunde Europas” (3a. edizione).
Se la capacità politica della razza levantina è scarsa, grande invece è la capacità e la tendenza a strutturare
comunità religiose, oppure metà religiose e metà politiche, cosa che essa realizzò ripetutamente in tutto il
Medio Oriente. Nella mia “Rasse und Stil [Razza e stile] (2a. edizione, 1928) ho indicato come dall’incontro
e poi dall’incrocio fra le razze levantina e nordica, in tutto il territorio che va dal Vicino Oriente all’India,
dove questa circostanza si realizzò, siano sorte tutte le religioni “rivelate” come conseguenza della capacità
formativa nordica e della particolare tendenza levantina per la pubblicità e il missionarismo. Le modalità di
questo missionarismo, anche in Occidente, sono sempre riconducibili a personaggi misti: nordico-levantini o
levantino-nordici.
Nel medesimo libro ho tentato di illustrare anche un altro fenomeno che ha accompagnato lo spegnersi della
razza nordica e il concomitante rafforzarsi di quella levantina presso i greci della decadenza (denordizzati),
presso i persiani e gli indiani degli ultimi tempi (anch’essi denordizzati), nonché presso altre popolazioni del
Medio Oriente. Si tratta dell’affiorare di un tratto psicologico, confermato anche da Clauss (Von Seele und
Antlitz der Rassen und Völker [Anima e volto delle razze e dei popoli], 1928), caratteristico della razza
levantina. Per un’anima levantina che non si accontenti di bilanciarsi continuamente fra ’sacro’ e ‘profano’ (un
dualismo che altre razze percepiscono come ambiguo e poco accettabile), come, per esempio, faceva il poeta
persiano Hafis, non rimane che la scelta fra l’uno o l’altro. Quel tratto caratteristico della storia dei popoli di
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lingua semitica, segnalato da Oldenberg come “combinazione di santità e bordello” (1), corrisponde anche
alla sensualità esplicita del culto di Istar fra i babilonesi, a quello di Anahita fra i tardo-persiani
(denordizzati), o a quello di Afrodite fra gli elleni della decadenza (denordizzati). Qui si manifesta un
aspetto della ‘razza dell’anima’ levantina; mentre, nel contempo, la mortificazione della carne e l’ascesi, come
espressione di quella mortificazione, ne rappresenta un altro.
La sensualità sfrenata e la mortificazione dei sensi sono due possibilità ugualmente valide. L’enfasi
sull’opposizione fra “carne” e “spirito”, da altre razze scarsamente sentita o comunque considerata senza
importanza, è un concetto che, storicamente, ha sempre avuto origine nel Medio Oriente (2).
Nella mia “Rasse und Stil” (2a. edizione, 1928), con riferimento a realizzazioni artistiche elleniche e a
rappresentazioni religiose levantine, ho indicato una specifica tendenza sempre presente nell’anima
levantina: quella della perdita di ogni controllo di sè. Queste genti riescono a lasciarsi trasportare dai propri
sentimenti, spinte da essi per metà e volontariamente per l’altra. Effetti della loro psiche sono poi sia le
manifestazioni illimitate di giubilo che le ugualmente illimitate (e qualche volta professionistiche)
manifestazioni di dolore dopo la morte di qualcuno. Estrinsecazioni della stessa psiche sono certe opere
dell’arte espressionistica nel recente passato, nonché tante prestazioni di attori, avvocati, oratori e predicatori
ebrei. Molte persone di natura levantina sono possedute dalla volontà di imporsi psicologicamente sulle
comunità umane attraverso la manifestazione incontrollata dei loro sentimenti, combinata con una
compenetrazione appassionata nella psiche altrui; queste persone spesso raggiungono un controllo quasi
assoluto su individui psicologicamente labili. Sembrerebbe che una delle principali soddisfazioni possibili
per il levantino sia quella di esercitare il suo potere su masse che egli ha saputo aggregare attorno a sé per
mezzo della sua perspicacia psicologica e della sua passionalità; masse che egli sa trascinare sia come
“agitatore” sia come “predicatore”.
Clauss, nel suo libro “Von Seele und Antlitz von Rassen und Völker [Anima e volto di razze e popoli]”
(1928), la cui lettura noi vivamente raccomandiamo, ha dato una descrizione molto profonda dell’anima
levantina, o per lo meno di alcune sue sfaccettature, soprattutto per quel che riguarda il lato religioso,
usando lo strumento della psicologia fenomenologica.
Facendo il confronto fra la descrizione dell’anima levantina fatta da Clauss e le considerazioni sviluppate
poco sopra, risulta che egli sembra aver dato troppa importanza al suo lato religioso, mettendo in secondo
linea ogni altra manifestazione; eppure, dopo averla osservata sotto svariate angolazioni, risulta che
quest’anima presenta aspetti diversi, ma purtroppo ogni studioso ha fissato la sua attenzione su uno solo di
questi aspetti. Io sospetto invece la possibilità di due filoni, leggermente diversi sia nel fisico che nella
psicologia, che si intrecciano continuamente pur restando distinguibili: da un lato un tipo contadinesco più
legato al territorio; dall’altro un tipo sradicato dalle tendenze commerciali e cosmopolite.
Il primo tipo è più frequente fra i turchi dell’Anatolia, fra i persiani, e fra quegli armeni che non si sono
mossi dall’Armenia; il secondo invece si trova tra gli armeni che abitano fuori dall’Armenia e fra gli ebrei
dispersi in Occidente. Clauss ha descritto soprattutto il primo tipo, altri autori soprattutto il secondo. La
presenza di ambedue in quest’anima, ai quali fa da mezzo portante una maggioranza mista, potrebbe essere
causa di ulteriori manifestazioni psicologiche.
Ogni tipo di rappresentazioni di diavoli, di mostri e di figure “mefistofeliche”, indica che i popoli
occidentali hanno sempre associato ai suoi tratti l’idea di un comportamento “diabolico”; e che questo
continui nei nostri giorni, lo dimostra l’uso di certi tipi di maschere teatrali. È però importante rendersi conto
che i tratti psicologici della razza levantina non devono essere associati alla fisionomia dinarica, anche se la
razza dinarica le è somaticamente affine (Figg. 37 e 38).
È già stato ripetutamente affermato che la natura della razza levantina si è manifestata prevalentemente fra
le popolazioni di lingua semitica. L’osservatore occidentale, digiuno o quasi di dottrine razziologiche, tende
continuamente a vedere nei tratti levantini qualcosa di “semitico”, se non proprio il “semitismo” per
eccellenza. Questo errore, dovuto alla confusione fra appartenenza popolare e lingua, è nato dal fatto che
molti fra gli ebrei che egli osserva nelle sue città, portano questi tratti, o sono addirittura prevalentemente
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levantini, mentre la lingua parlata dagli antenati medio-orientali degli ebrei, l’ebraico, nonché la lingua che
essi adottarono dopo che si furono stabiliti in Palestina, l’aramaico, furono ambedue lingue semitiche. Ma i
tratti della razza levantina sono riscontrabili anche fra i moderni siri e arabi, e fra i nordafricani arabofoni.
Eppure non c’è mai stato (e, razzialmente parlando, non c’è neppure ora) alcun legame fra razza levantina e
lingue semitiche. Queste lingue, originariamente, furono diffuse da un’altra razza del tutto diversa: quella
orientalide, che sarà descritta più avanti. Perciò non è proprio il caso di pensare che quelle popolazioni
prevalentemente levantine che nel IV e nel V millennio a.C. si mossero dal Caucaso per stabilirsi nel Medio
Oriente, in Siria, in Palestina e perfino in Egitto e nei Balcani, fossero di lingua semitica. Alle popolazioni
levantine corrispondono, come ha fatto notare von Luschan, le lingue generalmente dette alarodiche o
caucasiche. Nella preistoria, la zona dove esse venivano parlate, doveva includere buona parte dell’Asia
Minore. Caucasico era l’elamita, una lingua parlata nel regno di Elam nel basso Tigri che aveva per capitale
Schuschun (Susa), della quale esistono testimonianze dal II millennio a.C. fino al IV secolo d.C., e che
probabilmente non scomparve del tutto se non nel X secolo d.C.
Nella mia “Rassenkunde Europas” (3a. edizione, 1929), della razza levantina ho dato la seguente
descrizione: “A partire dalla zona di massima concentrazione, il Caucaso, questa razza si muove, sotto forme
più o meno spinte di mescolanze, verso Est (India e Asia Centrale), verso Ovest e verso Nord-Ovest. Essa fa
parte della composizione razziale degli ebrei e degli zingari. Sotto forma di incroci la troviamo nell’Europa
sud-orientale, soprattutto nella zona del Mar Nero, da dove si dirama, in misura decrescente, ma sempre
percepibile, in Grecia e nei Balcani”.
Sempre sotto forma di incrocio troviamo il sangue levantino in Siria, nelle isole dell’Egeo (soprattutto
Creta), in Sicilia (soprattutto Siracusa e Agrigento) e in Nordafrica (soprattutto a Tripoli, a Tunisi e ad
Algeri). Nell’Italia meridionale sembra ci sia stato un’influsso levantino soprattutto a Salerno e a Bari; e in
Spagna soprattutto nelle coste andaluse. Dalla Siria un filone levantino raggiunge il Mar Rosso e lo segue
verso Sud fino all’Arabia meridionale, dove si deve presumere ci sia una regione intera di razza a
predominanza levantina. Dall’Arabia meridionale la sua influenza razziale è passata poi alla parte
settentrionale dell’Africa Orientale (cfr. mappa II).
Da quanto detto sopra, risulta che non sempre si deve andare in cerca di qualche antico incrocio con ebrei
quando, all’interno di qualche popolazione, o in qualche singolo individuo occidentale, risultano tratti
levantini. Nell’Europa centrale e nord-occidentale, questi tratti (piuttosto rari) possono essere arrivati
attraverso incroci con zingari, o con persone provenienti dall’Europa meridionale o sud-orientale.
L’”Urheimat [terra originaria primordiale]” di questa razza – cioé quella zona dove per selezione attraverso
i millenni della preistoria essa ha acquisito i tratti somatici e psicologici che la caratterizzano, deve
probabilmente essere localizzata in quella stessa zona del Medio Oriente dove costituisce tutt’ora la grande
maggioranza della popolazione, quindi nel Caucaso e nelle terre limitrofe. Essa, come si è detto, ha una serie
di tratti somatici che sono propri anche della razza dinarica dell’Europa (1), ne risulta che le rispettive
ricerche razziologiche sono strettamente imparentate, e le due razze devono essere viste come “razze sorelle”
(Eugen Fischer). Anche se la parentela risulta più evidente nei tratti somatici che in quelli psicologici,
bisogna ammettere che sono due diramazioni di un ceppo originario il cui “Urheimat” doveva essere nel
Medio Oriente, oppure in quelle terre (dalla topografia diversa da quella attuale) che nel Terziario stavano
dove ora si trova il Medio Oriente (1). Una selezione divergente deve aver scisso una razza unitaria
originaria in due raggruppamenti diversi, poi allontanatisi anche territorialmente: la razza levantina nel
Medio Oriente e quella dinarica nell’Europa sud-orientale e centrale (2).
b) I megaliti nella Palestina arcaica
La popolazione palestinese di Geser (vedi più sopra), presumibilmente di razza occidentale (mediterranea),
nella svolta fra il IV e il III millennio a.C. doveva essere già mescolata con genti levantine in transito verso
l’Egitto. È improbabile che i tratti ereditari delle genti di Geser si siano conservati in misura apprezzabile
oltre il Neolitico. Nella Palestina contemporanea sono riscontrabili, o si lasciano presumere, solo tracce
infime di razza occidentale.
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Nella seconda metà del Neolitico, fra circa il 3.000 e il 2.500 a.C., appare una nuova popolazione, o per lo
meno un nuovo strato culturale, che si diffonde nel territorio: lo strato delle costruzioni in pietra, ossia la
cosiddetta cultura megalitica palestinese. Fu allora che vennero eretti quei megaliti (dolmen, menhir,
cromlech) menzionati spesso anche nel Vecchio Testamento (1). Rimane aperto il problema chi sia stato il
popolo diffusore di questo tipo di costruzioni. Non è ancora appurato se essi siano l’opera di un popolo
palestinese autottono oppure di immigrati.
Le cosiddette tombe megalitiche si susseguono dalla Scandinavia meridionale fino alla Danimarca, e dalla
Germania settentrionale fino all’Oder; dall’Olanda all’Inghilterra, all’Irlanda, alla Francia e alla Penisola
Iberica; dalla Corsica e l’Etruria alla zona di Otranto; lungo l’Africa settentrionale fino a Tripoli e poi
nell’Alto Egitto, la Palestina e la Siria; dalla Bulgaria alla Crimea fino al Caucaso e alla Persia settentrionale
per raggiungere l’India a perfino la Corea. In Nordafrica i megaliti appartengono alla prima Età del Bronzo,
in India all’Età del Bronzo. Nell’Europa occidentale sembra si siano diffusi a partire dalla zona costiera, fra
la Bretagna e il Portogallo.
È stato un unico popolo a portare di luogo in luogo questo tipo di costruzioni, o si tratta di una tecnica
trasmessa da un popolo all’altro? Probabilmente solo una parte, per quanto importante, della pratica
megalitica fu diffusa da migrazioni; ma essa deve anche essere stata adottata dalle più svariate popolazioni.
Von Heine-Geldern presume che la diffusione dei megaliti non sia dovuta alle migrazioni di un qualche
specifico popolo, ma all’espandersi di una qualche “dottrina della salute e della salvazione”, secondo la
quale l’erezione di monumenti di pietra veniva ad essere una tecnica per il “riscatto dell’anima”. Se questo
fosse stato il vero motivo, allora i megaliti sarebbero i testimoni di “un grande movimento religioso”, e non
di una migrazione di popoli (1).
È d’altronde evidente che i megaliti dell’Europa settentrionale e meridionale sono manifestazioni di uno
stesso filone culturale. Probabilmente dovuti a specifici movimenti di popolazioni che ebbero luogo
dall’Europa settentrionale e sud-occidentale lungo l’Africa settentrionale fino al Mediterraneo orientale e
scaturenti da uno stesso punto d’origine, ma questo fa presupporre genti della stessa forma razziale.
Wilke ha indicato che “già nel Neolitico ci deve essere stata una migrazione culturale dall’Europa
occidentale attraverso il Medio Oriente fino in India, causata da migrazioni di popoli”. Egli presume delle
“correnti culturali ripetitive, da Occidente a Oriente”, che possono essere spiegate soltanto “se si presuppone
che ci siano stati ripetutamente grandi movimenti di popoli” (2).
Il luogo d’origine dei sepolcri di pietra non è stato ancora identificato con sicurezza dalla ricerca
preistorica. Kossinna, per esempio, non sa decidersi fra l’Europa settentrionale e l’Europa sud-occidentale.
Ma ci sono buone ragioni per indicare, come luogo più probabile, la costa europea che si estende fra la
Bretagna e il Portogallo. In ogni caso bisogna immaginarsi che i primi costruttori di megaliti nell’Europa
occidentale fossero uomini Cro-Magnon, che nell’Europa nord-occidentale essi fossero misti di Cro-Magnon
e nordico, e che nel resto dell’Europa si trattasse di popolazioni costituite da una classe subalterna di razza
prevalentemente occidentale (mediterranea) e una classe dominante formata da combinazioni delle
popolazioni neolitiche dell’Europa nord-occidentale appena menzionate. Wilke pensa che a portare l’uso dei
sepolcri di pietra dall’Europa all’India siano stati soprattutto genti di razza Cro-Magnon, o comunque genti
dalla composizione razziale non dissimile a quella della Scandinavia paleolitica, che erano comunque un
misto nordico-Cro-Magnon (1). Wilke immaginava i facitori di sepolcri di pietra come di lingua
indogermanica. Anche Kittel (Geschichte des Volkes Israel [Storia del popolo d'Israele], vol. 1, 1923, p. 39)
vede i megaliti come opere di genti indogermaniche. Sta di fatto che nelle zone dove ci sono sepolcri di
pietra, dall’Europa settentrionale fino all’India, rimangono tracce di stirpi di lingua indogermanica, e in
parecchi luoghi queste lingue sono ancora parlate. Ciò significa che si deve necessariamente attribuire a
indogermani la diffusione delle tombe di pietra neolitiche in Siria e in Palestina? (2)
Meinhold concorda con Wilke nell’assumere questa possibilità, e cerca di dimostrare che gli ebrei arcaici,
prima del loro insediamento in Palestina, risentivano di influenze culturali riconducibili ad antiche
costumanze indoeuropee. Ma influenze del genere possono essere attribuite anche ad altre ondate di
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popolazione, anch’esse menzionate dal Meinhold, che erano sicuramente di tipo indogermanico, e che
raggiunsero la Siria e le Palestina sicuramente dopo il tempo della “cultura megalitica palestinese”. Secondo
Karge, l’insorgere della cultura megalitica in Palestina fu un fenomeno autottono. Altri ricercatori hanno
cercato, ma in modo poco convincente, di porre gli antecedenti del fenomeno megalitico nel Medio Oriente.
Karge presume che i “facitori di dolmen” fossero una popolazione autottona palestinese di “pastori
seminomadi” e conclude che “dobbiamo considerare i semiti quali costruttori originari della cultura
megalitica palestinese” (3). Che io sappia, l’ipotesi di Karge è stata poco condivisa (4).
Le prime stirpi di lingua semitica ad arrivare in Palestina, essenzialmente gli amoriti, raggiunsero le zone
dei megaliti appena prima del 2.500 a.C. e vi trovarono già una popolazione abbastanza abbondante. Ma non
bisogna vedere negli amoriti i costruttori dei megaliti; anche a prescindere dal fatto che essi furono un
popolo razzialmente misto, la cui lingua semitica non ha niente da dire sul loro aspetto somatico e sulle loro
carattesristiche psicologiche.
Se gli amoriti furono la prima ondata semitica a raggiungere la Palestina e se i monumenti di pietra
palestinesi esistevano già prima del loro arrivo, cadono senz’altro le supposizioni di Karge sull’origine
semitica dei megaliti.
L’appartenenza indogermanica dei facitori dei monumenti di pietra, come sostengono Wilke, Meinhold e
Kittel, per i quali comunque l’aggettivo “indogermanico” ha una valenza soltanto linguistica, potrebbe essere
decisa se la ricerca toponomastica potesse dimostrare che lo strato più antico dei toponimi palestinesi è
indogermanico.
I megaliti palestinesi raggiungono un’antichità attorno al 3.000 a.C. o anche prima, fino a circa il 2.000
a.C. Ma stirpi di lingua indoeuropea, nel Medio Oriente, difficilmente ce ne possono essere state prima del
2.500 a.C.; e in Palestina non prima del 2.000 a.C. Le migrazioni di popoli che, partendo dall’Europa
centrale e nord-occidentale portarono genti nordiche di lingua indogermanica fino al Medio Oriente e
all’Asia centrale, non incominciarono se non nella seconda metà del terzo millennio a.C., come ho tentato di
illustrare nella mia “Rassenkunde Europas”.
Già nel primo Paleolitico, gruppi di razza prevalentemente nordica erano presenti nella Scandinavia
meridionale, dove diffusero la loro lingua indogermanica. Attorno a quello stesso periodo sembra che stirpi
prevalentemente nordiche fossero presenti nella popolazione della Germania settentrionale estendendosi
fino in Francia, le quali però dovevano aver assorbito una forte componente Cro-Magnon. È comunque
improbabile che esse fossero sufficientementi forti e numerose per poter già allora imporre la loro lingua in
quelle zone dell’Europa nord-occidentale e occidentale. Ogni cosa sembra indicare che l’Europa occidentale
non fu linguisticamente indogermanizzata se non nell’Età del Bronzo ad opera dei celti. Se invece, come
sostiene Wilke (cfr. più sopra), le ondate di popolazioni che poi eressero i megaliti in Palestina dovessero
essere arrivate dall’Europa nord-occidentale o occidentale, allora, dal punto di vista razziologico, avrebbero
dovuto essere anche il vettore di un tipo razziale misto di occidentale (mediterraneo) nordico e Cro-Magnon,
la cui lingua, molto probabilmente, non era indogermanica.
Indipendentemente dal modo in cui i costruttori di dolmen sono arrivati in Palestina, siano essi stati
sospinti verso Est da altre ondate di popolazione dell’Europa occidentale o siano arrivati via mare fino a
sbarcare sulle sue coste, non avrebbero potuto raggiungere la loro destinazione senza subire influssi razziali
di altre popolazioni del Mediterraneo paleolitico. Visto che non sembra dimostrabile che l’insorgere della
cultura megalitica sia un fatto autottono, bisogna necessariamente presupporre che, nella Palestina arcaica,
ci sia stato un influsso razziale nordico e anche Cro-Magnon (1). Tracce di ambedue queste razze sono
riscontrabili dalle Isole Canarie e dal Nord Africa fino in Abissinia (2). vedi i libi biondi dell’Egitto arcaico
(3). Nei dolmen dell’Algeria sono stati trovati scheletri di altezza media di 1,74 metri e dall’indice cefalico
(lunghezza-larghezza) medio di 75, quindi mediamente dolicocefali (4). Secondo Bertholon e Chantre, nel
nord Africa preistorico sarebbero immigrate, assieme alla pratica culturale del dolmen, popolazioni alte e
dolicocefale (5).
Fra gli egiziani odierni, disegnati da Fritsch nella sua opera Ägyptische Typen unserer Zeit [Tipi egiziani dei
nostri tempi] (1904), se ne incontrano certuni che sembrerebbero mostrare influssi Cro-Magnon.
17
Ci sono poi ragioni abbastanza evidenti secondo le quali la razza nordica potrebbe essere penetrata, in
misura molto limitata, sia nell’alto Egitto che nella penisola del Sinai già verso il 6.000 a.C. I più antichi
abitatori dell’Egitto, detti “razza di Nagada” con riferimento al luogo dove i loro resti sono stati trovati,
erano alti, mediamente dolicocefali, con il viso e il naso stretti e, a giudicare da certi residui di capelli,
dovevano essere biondi. Secondo Reche, essi devono essere classificati come nordici (1). Non è il caso di
parlare di queste genti come di “indogermani”, in quanto nel periodo del Paleolitico quando essi esistevano
(verso il 6.000 a.C.) è lecito supporre che stesse appena iniziando a formarsi una forma linguistica
indogermanica.
La “razza di Nagada” appartiene molto probabilmente ad una di quelle migrazioni di popoli che, a quei
tempi, partendo dall’Europa occidentale raggiunsero l’Egitto, l’Africa del Nord e altre terre limitrofe. Anche
Buxton parla di un’influsso nordico negli egiziani più arcaici: “Fra i vecchi teschi trovati nella zona attorno a
Tebe e che adesso si trovano nella collezione della sezione di anatomia umana di Oxford, si trovano forme
che, senza dubbio, devono essere classificate come razzialmente nordiche” (2).
c) La razza nordica in Palestina prima dell’immigrazione
degli ebrei
Più sopra si è accennato al fatto che raggruppamenti di lingua indogermanica dovevano aver raggiunto il
Medio Oriente poco prima del 2.500 a.C. e la Palestina poco prima del 2.000 a.C.; ma successivamente
ondate sempre più consistenti di genti di lingua indogermanica devono essersi riversate verso l’Asia. Però le
lingue indogermaniche sono nate presso un qualche gruppo umano dell’Europa centrale nel primo
paleolitico, e questo gruppo, in modo nettamente preponderante, doveva essere di razza nordica. Bisogna
perciò immaginare che quelle stirpi che diffusero le lingue indogermaniche dovessero appartenere
essenzialmente a questa razza (3)
Nei luoghi di arrivo, dove sicuramente rappresentavano l’unica popolazione di lingua indogermanica,
andarono a costituire caste nordiche dominanti su soggetti non-nordici.
Essi trasmisero a popolazioni così stratificate, e alla lunga razzialmente miste, la loro lingua e la loro
cultura, che continuò anche dopo la loro estinzione; e anche se ora, in molti di questi luoghi, non è più
riscontrabile nessuna traccia di razza nordica, le lingue indogermaniche, più o meno deformate
dall’inclinazione linguistica degli eredi non-indoeuropei, continuano ancora ad essere parlate.
Le lingue indogermaniche non sono che la variabile espressione lessicale dell’anima nordica, nello stesso
modo che le lingue caucasiche (alarodiche) corrispondono all’anima levantina (cfr. più sopra).
Stirpi di origine razzialmente nordica si sono comunque diffuse su aree molto lontane dalle zone odierne,
dove ancora si parlano lingue indogermaniche, per stabilirsi come classe dominante, anche se
numericamente infima, su popoli razzialmente stratificati ma che, nel loro insieme, finirono poi per adottare
la stessa lingua della classe dominante. Viceversa, tratti razziali nordici sono qualche volta ancora
riconoscibili in popoli di lingua non indogermanica. Spesso si è dato il caso di influssi dovuti allo spirito
linguistico indogermanico in lingue che indogermaniche non sono. Ma dappertutto dove una popolazione
che ora non è nordica, o che già storicamente si era dimostrata non-nordica, parla una lingua indogermanica
o comunque una lingua che dimostra influenze indogermaniche, bisogna interrogarsi su quale possa essere
stata la classe dirigente nordica che un tempo dominò quella popolazione (cfr. la mia “Rassenkunde
Europas”, 3a. edizione 1929). Le lingue indogermaniche, o dei loro residui, sono infatti indicazioni sicure
dell’esistenza, in passato, di una classe dirigente di questa razza.
Non può essere neppure escluso che alcuni gruppi nordici, o biologicamente orientati verso il nordismo da
un particolare processo di selezione operante allora nell’Europa centrale, siano migrati fuori dalla stessa
Europa prima che il filone linguistico indogermanico avesse avuto tempo di assumere la sua riconoscibile
forma finale. Può darsi allora che una migrazione del genere, cioé di una qualche stirpe pre-indogermanica
di razza nordica, abbia lasciato la sua impronta sul popolo sumero.
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I sumeri, già per lunghissimo tempo, avevano abitato la zona posta a Sud, là dove poi sorse Babilonia e
dove, probabilmente, erano immigrati partendo dalle montagne a Est della stessa città per diffondersi in
Mesopotamia fra il 4.000 e il 3.500 a.C. Non si può neppure escludere che una parte dei sumeri fosse di
ascendenza indiana occidentale.
Secondo Reche, certi ritratti colorati di personaggi sumeri indicano “in parte, coloriti chiari” (1), e questo
potrebbe indicare un certo influsso nordico. Comunque nel suo insieme, a giudicare dal materiale
iconografico rimasto, il popolo sumero era sicuramente non-nordico. Statura piccola o media; corporatura
tozza e massiccia; testa piuttosto corta; viso variabile, stretto oppure largo; fronte bassa; occhi grandi e
infossati; mento debole. Il naso è spesso stretto e appuntito, oppure leggermente arcuato; le palpebre
tendono a proiettarsi all’infuori e verso l’alto (”occhi di traverso”). Alcuni teschi che ci sono rimasti danno in
undice di lunghezza- larghezza sul 70 – 75, e perciò dolicocefalia pronunciata associata ad un viso e ad un
naso stretti. Alcuni ritratti dimostrano un’influsso levantino chiaramente riconoscibile.
Abbiamo già detto che non si può escludere un piccolo influsso nordico; ma la gran massa del popolo
bisogna immaginarsela o come levantina, oppure, come è stato suggerito da qualcuno, addirittura
prevalentemente mongolica (1).
Sia dal punto di vista razziologico che da quello linguistico i sumeri continuano ad essere un enigma. Il
sumero scomparve come lingua parlata verso i tempi di Hammurabi, il re babilonese di origine amorita, cioé
verso il 2.000 a.C. Ma, un po’ come il latino nella Chiesa Cattolica, esso continuò ad essere la lingua
liturgica dei riti religiosi babilonesi ancora fino ai tempi ellenistici. Hommel vide nel sumero una
ramificazione delle lingue turche dell’Asia centrale, cioé del compartimento altaico, ma dell’altaico arcaico
(2). Si è anche voluto cercare la sede originaria dei sumeri nella valle dell’Indo: così, per esempio, Hall,
secondo il quale i sumeri sarebbero immigrati in Mesopotamia provenienti dall’India e razzialmente
sarebbero stati imparentati con le popolazioni dravidiche dell’Indostan (3).
La ragione per la quale i sumeri sono, dal punto di vista storico, tanto straordinariamente importanti, è che
furono loro a gettare le basi culturali delle civiltà che fiorirono più tardi non solo in Mesopotamia ma anche
in quasi tutto il Medio Oriente. Non si può escludere che moderati influssi della razza, o razze caratterizzanti
i sumeri, possano essere rintracciabili anche presso quelle popolazioni semitiche che acquistarono
importanza nei tempi successivi.
Se ci fosse stata un’impronta nordica nel popolo sumero, essa verrebbe ad essere la prima traccia di una
migrazione nordica verso il Medio Oriente (1).
Il potere degli ittiti comincia a farsi sentire nel Medio oriente verso il 2.000 a.C., il loro regno si estendeva
in una regione centrata nella loro capitale Khati (posta nell’odierna Boghaz-Köi, a Est di Angora sull’arco
del fiume Halys) e verso Occidente raggiungeva la costa. Partendo dall’Asia Minore, un poco alla volta gli
ittiti raggiunsero la Mesopotamia, dove si stabilirono in mezzo alle popolazioni locali di lingua semitica e
dove arrivarono ad attaccare Babilonia verso il 1870 a.C. Dopo il 1.300 a.C. il potere ittita si estese
all’interno della Siria; ma attorno allo stesso periodo esso fu gravemente compromesso da un’ondata di altri
conquistatori, probabilmente frigio-misi che nell’Europa sud-orientale si erano staccati dalle popolazioni
trace di lingua indogermanica a tipologia razziale nordica.
Il centro di gravità del regno ittita, ormai sul punto di disintegrarsi in una pleiade di piccoli stati, si venne a
trovare in Siria e nelle zone a Nord con essa confinanti (2).
Il potere ittita scompare definitivamente nell’VIII secolo a.C. Per la Palestina la vicinanza di stirpi ittite
divenne importante in ragione della mescolanza, in notevole misura, con gli ebrei.
La lingua ittita, della quale rimangono testimonianze a partire dal XV secolo a.C., è indogermanica e
appartenente al gruppo kentum come il greco, il latino e le lingue celtiche e germaniche; a differenza della
maggior parte delle lingue indogermaniche arrivate in Europa orientale e in Asia (lingue slave, armeno,
persiano, indiano) che sono di tipo satem.
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L’ittita rivela una sintassi indogermanica sovrapposta ad un vocabolario generalmente non-indogermanico,
dando così un’indicazione di quale doveva essere la stratificazione razziale del popolo ittita: una classe
dominante nordica (che determinò la struttura linguistica) e una classe sottostante (che, in linea di massima,
diede il vocabolario) di razza prevalentemente levantina (1). Questo darebbe ragione ad una
rappresentazione egiziana la quale, secondo de Lapouge, identifica uno dei re ittiti vinti da Ramsete nel XIV
secolo a.C. come un ‘biondo dolicocefalo’ (”dolicho-blond”) (1).
Il dio ittita della virilità “Inar” o “Inarasch”, sembrerebbe corrispondere ad una rappresentazione delle
divinità specifica delle popolazioni di lingua indogermanica a razza nordica. L’etimologia di questo nome,
secondo Hrozny, è relazionata con il greco ‘anér (”uomo”). Anche l’indiano Indra deriva probabilmente dalla
stessa radice (2).
Le rappresentazioni plastiche degli ittiti, riscontrabili nei monumenti egiziani, indicano, in concordanza
con le analisi linguistiche, due tipi umani diversi. I nomi ittiti che ci sono stati tramandati (con ogni
probabilità quasi esclusivamente nomi di persone appartenenti alla classe dominante) sono, almeno
parzialmente, di chiara derivazione indogermanica. La classe dominante evidenziata in questo modo,
prevalentemente di razza nordica, doveva però essere poco numerosa o comunque divenuta tale a quei
tempi, quando si cominciò a scolpire le immagini; in queste rappresentazioni infatti gli ittiti appaiono come
genti prevalentemente levantine anzi, i tratti levantini sono rappresentati nell’arte ittita in modo
particolarmente esatto.
Cowley, The Hittites [Gli ittiti] (1920, p. 28 segg.) descrive le rappresentazioni di ittiti nei monumenti
egiziani del secolo XIII a.C. (Fig. 43) e vi percepisce uno “strano tipo mongolico” (curiously Mongolian
type). Ma gli unici tratti “momgolici” che queste rappresentazioni indicano sono le palpebre inclinate o
tirate all’infuori; mentre, in generale, si osservano tratti levantini o misti levantino-orientalide-mongolico e,
quindi, corrispondenti ad un tipo umano che al giorno d’oggi è ancora occasionalmente riscontrabile presso
certe popolazioni levantino-mongoliche dell’Asia centrale, tipo i turcomanni, i chirghisi o i calmucchi. La
mancanza di barba non deve essere vista come un tratto razziale ma piuttosto come l’abitudine a radersi.
Viceversa Cowley propone, giustamente, che una parte delle rappresentazioni egiziane di ittiti fossero
caricature. Delle immagini del IX secolo a.C. trovate a Karkemisch sull’Eufrate, li rappresentano come
levantino-orientalidi o addirittura come levantino-occidentali (mediterranei). Il modo in cui gli ittiti
rappresentavano se stessi dimostra una popolazione essenzialmente levantina: “ovviamente brachicefale e
armenoide”, per dirla con Cowley (p. 32). Gli abitanti ittiti di Ascalona, rappresentati da artisti egiziani di
Karnak, erano levantini (1). Nel loro insieme, gli ittiti venivano ad essere “tozzi e con le membra rozze”
(stout and thick-limbed), per dirla con Sayce (cit., p. 192).
L’influsso che il genio linguistico indogermanico ebbe sulla lingua ittita, è una dimostrazione che ci devono
essere state stirpi di lingua indogermanica nel Medio Oriente già prima del 2.000 a.C., e addirittura negli
ultimi secoli del III millennio a.C.. Una ulteriore testimonianza è costituita dall’insorgere della stirpe dei
Kaschu, detti generalmente cossei o cassiti, che dovettero abitare la zona persiana del Luristan (Iran
occidentale) verso il 2.000 a.C. Nel 1.900 a.C. i cassiti penetrarono nel territorio babilonese; fra il 1746 e il
1171 a.C. Babilonia fu governata da una dinastia cassita i cui rappresentanti, almeno nei tempi iniziali del
loro dominio, bisogna immaginarseli di razza nordica. Della lingua cassita non rimane che un elenco
comparato di parole cassite e assire, a partire dal quale Scheftelowitz ha potuto dimostrare come la lingua
cassita fosse indogermanica (1). Peake prospetta che i cassiti siano migrati nel Medio Oriente partendo da
sedi poste nella Russia meridionale (2). Lo stanziamento dei cassiti nell’Iran occidentale verso il 2.000 a.C.,
il primo di una stirpe di lingua indogermanica nel Medio Oriente, dimostra che non vi è niente di strano se la
lingua ittita presenta influenze indogermaniche, e che un’impronta nordica nella composizione razziale degli
ittiti fu certamente possibile.
d) Gli amoriti
La seconda fra le ondate che hanno diffuso le lingue semitiche, è quella che generalmente viene detta
“migrazione amorita o canaanita” (sulla quale più avanti si daranno maggiori dettagli). Questa migrazione
ebbe luogo nella prima metà del III millennio a.C. e si era già conclusa verso il 2.500 a.C. con l’occupazione
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di Babilonia e del Canaan da parte degli amoriti, e di altre stirpi di lingua semitica ad essi imparentate.
L’ultimo di questi spostamenti è quello degli ebrei, la cui immigrazione in Palestina, che sarà descritta più
avanti, si concluse verso il 1.200 a.C.
La sede originaria degli amoriti si presume sia stata una zona montagnosa a Nord-est di Babilonia,
chiamata MAR-Tu nelle iscrizioni cuneiformi. Da là, da amurrû, vennero gli amurrî: gli amoriti.
Nella storia di Babilonia spicca in modo particolare la grande figura di Hammurabi (2067/2024 a.C.). Le
sue leggi, che rivelano del tutto chiaramente un’influsso della mentalità dei popoli di lingua indoeuropea,
quindi dell’anima razziale nordica, ebbero un’influenza anche sulla più antica legislazione ebraica.
La potenza militare degli amoriti, nel III millennio a.C. si era estesa alla Siria occidentale e alla Palestina,
facendosi sentire anche in Egitto. Fu allora che gli artisti egiziani cominciarono a rappresentare i guerriri
amoriti, ed è proprio attraverso queste rappresentazioni che possiamo farci un’idea della composizione
razziale del popolo amorita, o per lo meno della sua classe dominante e guerriera. Clay, nel suo The Empire
of the Amorites (1919, p. 58 segg.) ci dà uno sguardo d’insieme alle varie rappresentazioni di amoriti. Ne
risulta che essi erano, in media, alti, con le spalle larghe, dalla testa grande e lunga (dolicocephalic or long
headed), con la fronte bassa e sfuggente e il naso aquilino. Gli occhi erano azzurri oppure scuri, le
sopracciglia larghe, le guance infossate e gli zigomi poco pronunciati. La parte inferiore del viso era
angolosa e alquanto pesante, generalmente nascosta sotto una barba folta e crespa sulle guance e sul mento
che finisce a punta. Le labbra, a quanto sembra, erano piuttosto sottili, e i baffi generalmente rasati.
Nelle pitture di Abu-Simbel, gli amoriti sono rappresentati con un colorito giallastro con il quale gli
egiziani, che rappresentavano sé stessi di colore bruno-rosso, cercavano di indicare genti dal colorito chiaro.
Gli occhi sono azzurri, le sopracciglia e le barbe rossastre. A Medinet-Habu, sempre secondo Clay, il
colorito degli amoriti è rappresentato “anche più roseo che del colore della carne” (rather pinker than flesh
color); e Petrie avrebbe trovato in una tomba della XVIII dinastia, cioé fra il 1580 e il 1350 a.C., delle
rappresentazioni di amoriti dagli occhi chiari e dalle soprcciglia bruno-rosse. Le pitture di Karnak indicano
un colorito qualche volta giallo e qualche volta rosso. Il Vecchio Testamento (3 Mosé 13,33; Giosué 11,22)
ci informa della grande statura degli amoriti; e Sayce percepisce “intelligenza e forza” (intelligence and
strength) nell’espressione dei tratti facciali delle rappresentazioni di amoriti (1) Petrie, uno dei migliori
conoscitori della storia dell’antico Egitto e dell’antica Palestina, parla degli “amoriti biondi” (2), e Hommel
menziona che le rappresentazioni egiziane degli amoriti celesiri li mostrano “chiari e dagli occhi azzurri”
(3). “Le pitture nella tomba del [principe egiziano] Rekh-mâ-Ra [a Tebe] includono la rappresentazione di
un gruppo di ‘Rutennu’, cioé di siri, sulla quale Hamy ha elaborato un saggio. Questi Rutennu sono biondi o
hanno i capelli rossi”, come scrive de Lapouge a proposito di rappresentazioni di amoriti del XIV secolo
a.C. (4). E Sayce scrive che “è chiaro che gli amoriti appartenevano alla razza bionda” (1). Più esattamente,
sarebbe il caso di dire che solo la classe dominante degli amoriti doveva appartenere alla “razza bionda”.
Forse un’indicazione che questa classe dirigente di razza nordica dominava su una classe sottomessa scura,
levantina, sta nel fatto che i signori babilonesi chiamavano sé stessi “padroni di coloro che hanno i capelli
neri”. De Lapouge (cit. p. 259) menzione questa usanza che, secondo lui (p. 52), era presente ai tempi di
Nabu-kuduri-ussur (Nabucodonosor) e anche sotto Kurasch (Ciro), re di Persia.
Non c’è dubbio che vi era una componente nordica nel popolo amorita, o per lo meno nelle stirpi amorite
della Siria e della Palestina. Ma solo la loro classe dominante, o comunque solo una parte del popolo
amorita, doveva essere nordica pura. Se quella classe dominante fosse stata relativamente numerosa, avrebbe
potuto trasferire una lingua indogermanica a tutta la popolazione, o per lo meno trasferire un considerevole
numero di parole indogermaniche nella lingua amorita, e invece sono riconoscibili soltanto scarsi tratti nonsemitici,
e non nella loro lingua ma nel loro costume, che può essere descritto come indogermanico. Ma in
linea di massima, soprattutto per quel che riguarda le classi inferiori, bisogna pensare che le stirpi amoriti
consistessero in una mescolanza levantino-orientalide.
Il centro di gravità della mescolanza amorita era probabilmente dato dalla razza orientalide (descritta più
avanti), punto di partenza di tutti i popoli di lingua semitica.
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La domanda di quando e dove gli amoriti abbiano ricevuto la loro componente nordica, non può ancora
ricevere risposta. Secondo Peake, gli antenati degli amoriti, o comunque della loro classe dirigente,
venivano dal basso Danubio (1).
Sta di fatto che la classe guerriera delle stirpi amorite siro-palestinesi, che era quella con il massimo
contenuto di sangue nordico, successivamente entrò a far parte del misto razziale ebraico. I canaaniti del
Vecchio Testamento erano in parte di origine amorita; e difatti nel Vecchio Testamento “canaanita” e
“amorita” sono parole spesso intercambiabili, anche se, a quanto sembra, la prima era usata piuttosto per
indicare popolazioni costiere e la seconda per indicare genti delle colline e delle montagne. Sayce (cit., 176
e 179) pensa che anche gli Jebusiti e i Hewiten, che poi contribuirono alla formazione della popolazione
dello stato ebraico, fossero gruppi amoriti.
Anche gli [Horiter] oriti, una stirpe che finì per stabilirsi in una zona posta a Sud di quella occupata dagli
ebrei, fecero probabilmente parte della “migrazione canaanita o amorita”.
Gli oriti sono i charu dei documenti egiziani antichi; mentre in ebraico gli oriti sono detti chorîm, che vale
per “nobili”. Si è ipotizzato che questa denominazione sia in relazione con quella indo-persiano di ârya
(”ariano”), che ha lo stesso significato; e si è perciò voluto vedere negli oriti un popolo di lingua
indogermanica a razza prevalentemente nordica (2). Una citazione biblica (1 Mosé 36,20) classifica gli oriti
come semiti, ma questo può avere qualche importanza come indicatore della loro appartenenza linguistica e
non della loro appartenenza razziale. Secondo Winckler il nome ‘orita’ è in relazione con lo hari delle
iscrizioni di Boghaz-köi e ne deduce che gli oriti dovevano essere di provenienza nord-europea (3). Se tutto
questo fosse vero, allora dovevano essere una stirpe di origine nordica molto vicina a quella indiana; in
quanto Hüsing ha dimostrato che gli indiani, o almeno una parte di loro, quando ancora occupavano una
zona corrispondente all’odierna Armenia, chiamavano sé stessi hari, ovverossia ‘i biondi’ (1).
e) I mitanni
Anche il regno dei mitanni, che si formò verso il 1.600 a.C. in Mesopotamia, aveva una classe dominante
prevalentemente di razza nordica. Verso il 1.500 a.C. esso raggiunse la Siria e nel 1.400 a.C. c’erano già in
Siria stirpi che portavano nomi indogermanici. Sempre attorno a quella data è possibile attribuire tratti
dolicocefali alle classi dirigenti Siriane (2). Quanto al popolo mitanno, bisogna immaginarselo come
prevalentemente levantino; e anche la sua lingua che, come l’elamita appartiene alla famiglia alarodica
(caucasiana), indica commistioni levantine (3).
I famosi ritrovamenti di Tell-el-Amarna, in Egitto, hanno dato importanti informazione sulla classe
dirigente mitanna della Siria e della Palestina. Lì si è trovata la corrispondenza fra i re egiziani Amenhotep
III e Amenhotep IV, del XV secolo a.C., che contiene valide precisazioni sulle relazioni diplomatiche che
allora c’erano fra l’Egitto e il Medio Oriente. In queste lettere, attorno all’anno 1.400 a.C., troviamo un
elenco dei nomi di diversi capi di città-stato siro-palestinesi, tutti chiaramente indogermanici e di una qualità
di indogermanico che li pone vicini da una parte all’indogermanico arcaico, e dall’altra, ancora di più,
all’antico indiano. Così, per esempio, il re della città di Kelte vicino a Gerusalemme, si chiamava Suwardata,
corrispondente all’indiano s(u)wardatta, “donato dal dio-Sole”. Questa casta nobiliare guerriera siropalestinese,
viene detta marjanni, probabilmente equivalente all’antico indiano marya, “guerriero, eroe”. Ma
anche se la classe dirigente dei mitanni, strettamente imparentata con gli indiani antichi, ancora
prevalentemente nordici, doveva già allora aver adottato la lingua alarodica dei loro vassalli, aveva
comunque preservato i nomi indogermanici. E i mitanni invocano dèi di origine indogermanica come
testimoni dei loro giuramenti: Indra, Varuna e Mitra, i primi due di origine indiana, il terzo conosciuto anche
in Persia. Anche il nome dell’ittita Uria, che attorno al 1.000 a.C. fu un ufficiale al servizio del re ebraico
David, è probabilmente di origine mitanna (1).
Eduard Meyer, basandosi sullo studio delle rappresentazioni pittoriche nella tomba del re egiziano
Haremhab, ha potuto trarre le seguenti conclusioni sull’aspetto somatico dei guerrieri mitanni: “Fra i
prigionieri portati dalla Siria, rappresentati nei bassorilievi della XIX dinastia, risultano delle figure molto
diverse da quelle, perfettamente identificabili, dei semiti e anche da quelle, pure diverse, dei chetiti. Si tratta
22
di teste qualche volta barbute e altre volte glabre, qualche volta di vecchi, dai tratti facciali sottili e il cranio
lungo, appiattito nella parte alta e leggermente compresso lateralmente. … All’interno del mondo levantino
queste figure appaiono completamente estranee, e sono dello stesso tipo che riscontriamo fra gli europei e i
persiani; e quindi confermano le testimonianze linguistiche sull’origine dei ‘marjanni’” (2).
Esistono indicazioni precise di una classe dirigente mitannica dalla Siria alla Palestina settentrionale fino
alla Giudea. Può darsi che quell’ondata di popolazione di tipo nordico, che poi divenne la nobiltà nel regno
dei mitanni, abbia portato il cavallo nel Medio Oriente. Per i popoli del Medio Oriente arcaico gli animali
caratterizzanti furono l’asino e il cammello. L’asino, animale domestico caratteristico del Medio Oriente, è
discendente dell’asino delle steppe dell’Africa orientale. Il cammello fu introdotto dal Turchestan e l’Asia
centrale, mentre il cavallo, derivato dal cavallo selvatico dell’Europa centrale, accompagnò sempre le stirpi
di lingua indogermanica che penetrarono nell’Asia occidentale.
L’introduzione del cavallo nel Canaan sarà discussa più avanti.
La moglie del re egiziano Amenhotep IV, madre dell’eretico Echnaton, si dice fosse una principessa
mitanna (3). Di lei rimangono certi dipinti che sembrano dimostrare tratti non-europei, quasi negroidi, o
comunque vicini alle razze negridi; mentre, viceversa, c’è un altro dipinto, riprodotto da Petrie Researches in
Sinai [Ricerche nel Sinai], 1906, che dimostra quei tratti che al giorno d’oggi sono piuttosto caratteristici
della mescolanza razziale medio-orientale. Ma ci sono anche delle testimonianze egiziane secondo le quali
la regina Teje avrebbe avuto gli occhi azzurri (1). È quindi probabile che anch’essa condividesse, sia pure in
piccola misura, la qualità nordica della nobiltà mitanna.
Che in tutto il Medio Oreinte preistorico, e perfino nella Persia Meridionale e in India, ci possa essere
stato un certo influsso negroide, è qualcosa che è stato sospettato dagli antropologi da parecchio tempo. I
capelli crespi sulle tempie dei siri, descritti dallo storico romano Manilio (ai tempi dell’imperatore Augusto),
potrebbero essere dovuti a influenze del genere (1). Stuhlmann presuppone una popolazione preistorica dalla
pelle scura e dai capelli crespi che un tempo si sarebbe estesa dall’Africa e dall’Arabia occidentale attraverso
tutta l’Asia meridionale fino all’Indonesia e all’Australia (2), popolazione che alla fine del Terziario si
sarebbe diffusa partendo dall’Asia meridionale. Già de Lapouge aveva indicato gli négritos indigènes
[negritos indigeni] della zona attorno a Susa, che egli equiparava ai “negritos” dell’India (3). Anche Hüsing
presuppone che la popolazione preistorica del Medio Oriente consistesse di “negritos” o di una qualche altra
“razza pigmoide” dai capelli crespi, e pensa di vederne l’impronta anche nell’odierna Persia meridionale (4).
Forse bisognerebbe vedere in queste tracce genetiche, che si manifestano continuamente da una parte
all’altra senza però poter essere definite in modo chiaro dal punto di vista razziologico, i residui di una
popolazione preistorica di pigmei, ancora più o meno riconoscibile, secondo Hüsing, nel Belucistan (4). In
piccola misura, anche questa influenza pigmoide sarebbe entrata come parte nella formazione del popolo
ebraico. La razza corrispondente sarebbe stata caratterizzata da gambe corte, brachicefalia media, fronte a
cupola, naso corto e largo, orecchie corte e amplie, labbra carnose, labbro superiore incurvato all’infuori,
capelli crespi e pelle bruno-scura.
Dei teschi provenienti da sepolture sire, studiate da Blake, dimostrano forme corte levantine accanto a
forme lunghe orientalidi; ma fra le forme corte alcune mostrano un certo prognatismo (mascella proiettata
all’infuori), nel qual caso è lecito sospettare un’influenza della razza pigmoide e non, come propone Sayce,
un’influsso “turco-tartaro” (1). Forse anche i tratti di Teje tradiscono un’influenza del genere? Prima del
1.500 a.C. è comunque difficile ammettere che ci potessero essere influenze negroidi vere e proprie nel
Medio Oriente.
Concludendo, attorno al 1.400 a.C., in base a tutto quanto esposto sopra, la popolazione della Palestina
dovette consistere fondamentalmente di una miscela levantino-orientalide-nordica. Fu allora che le stirpi
ebraiche irruppero in questo particolare misto razziale.
23
III. GLI EBREI ALLA VIGILIA DELLA LORO MIGRAZIONE IN
CANAAN
Più sopra si è parlato di una “migrazione amoritica o canaanita” di stirpi di lingua semita, migrazione della
quale gli ebrei sarebbero stati l’ultima ondata. In ciò che segue si farà una disamina dettagliata delle più
importanti fra queste ondate di popolazioni semitiche.
In termini generali si possono distinguere quattro migrazioni:
1. La migrazione semitico-babilonese, che raggiunse Babilonia verso il 4.000 a.C. Già nel 3.500 a.C. (vedi
più sopra) i sumeri furono sottomessi, oppure i loro territori erano stati parzialmente occupati da stirpi di
lingua semitica.
2. La migrazione amorita o canaanita che verso il 2.500 a.C., o anche prima, vide stirpi semite provenienti
da Babilonia espandersi in Siria e in Palestina. Fra questi popoli i fenici furono quello che si spinse più ad
Occidente; gli ebrei invece furono gli ultimi.
3. La migrazione aramaica, che incomincia ancor prima che quella amorita fosse conclusa e che, a partire
da circa il 1.200 a.C., ha per obiettivo la Siria.
4. La migrazione araba, che raggiunge la Siria verso il secolo IX a.C. ed ha la sua massima diffusione
dopo le vittoriose campagne islamiche nel secolo VII d.C.
Tutte queste migrazioni hanno portato con sé lingue semitiche. Oggigiorno l’area geografica dove si
parlano queste lingue si estende dal Golfo Persico fino all’Africa occidentale (cfr. mappa III); quindi include
territori nei quali l’influenza razziale delle genti che erano state inizialmente il veicolo portante di quelle
lingue è quasi scomparsa.
Ma dove stava l’”Urheimat” [il territorio primevo d'origine] dei popoli di lingua semitica? Lo si è voluto
localizzare nell’Arabia meridionale, una terra che in tempi preistorici era abbastanza popolata, relativamente
fertile e meno torrida di oggi, quindi appropriata per accogliere una grande varietà di popolazioni (1). Ma
ora vi sono molti dubbi sull’origine araba dei popoli di lingua semitica. Ungnad la rifiuta senz’altro: “I semiti
non si sono diffusi a partire dall’Arabia, ma più a Nord, dalla Siria” (1). L’akkadiano, cioé l’insieme dei
dialetti assiro-babilonesi, è, secondo Ungnad, la più antica lingua semitica: la più vicina al “paleosemitico”,
anche se nella pronuncia delle consonanti essa doveva aver subito una forte influenza sumera. Questo, a sua
volta, potrebbe indicare proprio la zona originariamente occupata dai primi semiti. Secondo Ungnad, la zona
nella quale il semitico primordiale avrebbe acquisito la sua fisionomia caratterizzante, sarebbe la Siria
orientale e la Mesopotamia.
Uno studio di quella che poteva essere la forma del ’semitico’ arcaico e originario forse potrebbe permetterci
altre conclusioni. Sempre secondo Ungnad, il ’semitico arcaico’ era una lingua unica ed “essenzialmente
isolata” che non aveva ancora raggiunto l’odierna struttura caratterizzante le lingue semitiche. Forse
un’indicazione di Hommel (che lo stosso Ungnad qualifica come “sorprendente”) acquista un particolare
significato per quel che riguarda l’Ursitze [terra di stanziamento primordiale] dei semiti: ci sarebbe una
“concordanza totale” fra la sintassi semitica e quella malese (2). La parentela linguistica semito-camitica
sposterebbe allora il problema dell’origine delle popolazioni semitiche facendolo coincidere con quello della
sede arcaica di un’ipotetica popolazione semito-camitica.
Ma tutte queste problematiche riconducono alla domanda: quali erano le caratteristiche ereditarie,
somatiche e psicologiche, proprie dei gruppi umani che originariamente diffusero le lingue semitiche e
camitiche? Non c’è alcun dubbio che i primi “semiti” dovevano appartenere alla razza orientalide e i primi
“camiti” alla razza camitica (etiopica) (1). Sembrerebbe in ogni caso, che la terra d’origine della razza
orientalide, nei millenni che seguirono l’ultima glaciazione, andrebbe cercata nell’Europa sud-orientale, o
nella zona delle steppe poste fra l’Europa sud-orientale e l’Asia occidentale (1); mentre quella della razza
camita sarebbe da ricercarsi nella zona del Golfo Persico. Ma queste problematiche dovranno essere
affrontate di nuovo più avanti, quando considereremo in dettaglio le due razze.
24
Sembra comunque certo che le stirpi di lingua semitica non provenissero dall’Arabia, come si era pensato
un tempo, ma che siano penetrate, provenienti dalla Siria e dall’Asia Minore, nelle zone a popolazione
prevalentemente levantina. In questo modo, con la sovrapposizione su una popolazione prevalentemente
levantine di una classe dirigente prevalentemente orientalide, ebbe origine verso il 4.000 a.C. il popolo
babilonese che, nel suo insieme, adottò la lingua semitica della sua classe dirigente esogena. Sembra
comunque che questa classe dirigente costituisse una ragguardevole porzione della popolazione totale, in
caso contrario la lingua delle classi sottomesse si sarebbe mantenuta. Secondo Ungnad, già citato, i dialetti
babilonesi ed assiri dimostrano una certa deviazione da quelli che dovevano essere i suoni originali semitici,
in ragione dell’influenza di uno spirito linguistico esogeno. Questa medesima osservazione era stata fatta
anche da Worrell, il quale atribuiva questo fenomeno a mescolanza razziale. Ci furono certamente influenze
sonore sumere nella lingua akkadica; e i sumeri erano sì un misto razziale, ma diverso da quello akkadico
(2). I teschi antichi, piuttosto scarsi, che si sono potuti trovare in Mesopotamia, soprattutto provenienti dagli
scavi di Kisch (fra il Tigri e l’Eufrate), dimostrano, secondo Buxton (3), che già verso il 3.300 a.C. c’erano
forme sia levantine che orientalidi. Buxton vorrebbe vedere in queste ultime delle forme piuttosto
occidentali (mediterranee). A voler giudicare dai teschi trovati nelle vicinanze di Sidone, i fenici erano
prevalentemente orientalidi, con un quoziente cranico lunghezza-larghezza medio di 79,31 (4). Anche i
fenici emigrati a Cartagine, i Punici, continuarono ad essere, secondo Bortholon e Chantre (1), una
popolazione prevalentemente orientalide, dolicocefala all’82%; ma non manca un’influenza brachicefala,
probabilmente levantina, e anche una negroide, non particolarmente forte. Bortholon, secondo il quale i
tunisini moderni sarebbero discendenti degli antichi punici, ha dato una descrizione dei loro tratti somatici
che non lascia dubbi sulla loro appartenenza razziale orientalide (2).
Bisogna pensare che gli ebrei, nei tempi immediatamente anteriori all’entrata in Palestina, fossero
prevalentemente di razza orientalide. In termini generali, bisogna anche ammettere che le stirpi di lingua
semitica rimasero razzialmente abbastanza pure finchè mantennero la vita nomade. Ancora adesso la razza
orientalide e lo spirito linguistico semitico conservano una relativa purezza solo presso gli arabi nomadi: i
beduini. Essi sono quella stirpe di lingua semitica presso la quale l’elemento razziale orientalide è più forte
(cfr. mappa III); e di questo fatto sono orgogliosamente consapevoli. Volney ci informa che si vantano della
loro “purità razziale”, purità che li distinguerebbe dai popoli vicini (1). I semiti preistorici allora, non esclusi
gli ebrei dei primi tempi, bisogna immaginarseli come molto simili agli odierni beduini, anche se un po’ più
liberi da commistioni negroidi.
Secondo i già citati Bertholon e Chantre (p. 347), ci sarebbero in Tunisia, a nord delle montagne della
Medjerda, alcune stirpi arabe “particolarmente pure”, ancora adesso prevalentemente orientalidi e con
scarsissimi influssi negroidi o levantini. 25 crani arabi trovati a Aden e descritti da Chantre (p. 350) sono
allungati, e Aden è una regione caratterizzata da popolazioni arabe orientalide-camitiche. Gli studi fatti da
Mocchi su teschi arabi indicano che le teste rivenute in Africa e a Palmira erano allungate mentre quelle
provenienti dall’Asia e dalla Siria erano medie o corte, probabilmente in ragione di mescolanza con la razza
levantina (2). Da misure fatte da Chantre su beduini egiziani, Pittard ha calcolato che oltre il 90% erano
dolicocefali (3). L’alta statura di alcuni gruppi beduini dell’Egitto fa sospettare un qualche incrocio con la
razza camitica, e la forma del loro naso un qualche influsso negroide. Le richerche di von Luschan indicano
che presso gli arabi del Golfo Persico ci deve essere un influsso levantino, in quelle zone del tutto naturale;
ma nel complesso anch’essi sono prevalentemente orientalidi (4).
a) La razza orientalide
La razza orientalide un tempo era detta, e anche ora continua spesso ad essere chiamata, “razza semitica”,
il che ha portato, e continua a portare, alla confusione fra appartenenza razziale e appartenenza linguistica.
Si incontra anche la denominazione di “razza araba”, soprattutto nei testi inglesi. Questa denominazione
porta ad un altra confusione, quella fra popolo e razza. Reche ha chiamato questo tipo umano homo
mediterraneus var. orientalis, per enfatizzarne la parentela con la razza occidentale (mediterranea). La
denominazione di “razza orientalide” è dovuta ad Eugen Fischer. Ma non bisogna confonderla con la razza
“balto-orientale” di Deniker e Nordenstreng, né con la “race orientale” di Deniker. Clauss ha chiamato la
25
razza orientalide “tipo desertico”, in quanto intravede una correlazione fra il paesaggio del deserto e le sue
qualità psichiche: correlazione che hanno voluto vedere anche tutti quelli che l’hanno studiata. Non c’è
dubbio che ci sia una reciprocità fra il deserto e la razza orientalide. Le stirpi di questa razza hanno un
comportamento specifico riguardo all’ambiente, per cui esse trasformano, e hanno sempre trasformato,
terre coltivabili in deserti.
Una fenomenologia discussa spesso da Darré (1).
La razza orientalide è di media statura, ma piuttosto alta che bassa; piuttosto magra e spesso striminzita.
Nel sesso maschile si riscontra sovente una conformazione corporea con petto a volta e muscoli forti; le
figure nervose non sono rare. Nel sesso femminile sono frequenti le figure elegantemente arrotondate con i
fianchi larghi e spesso dall’aspetto pesante.
E’ una razza decisamente dolicocefala e dal viso stretto, con la parte posteriore della testa che si proietta
visibilmente oltre la nuca. Il naso è stretto, generalmente angolato nella sua terza parte verso la punta (Figg.
53, 67, 85) e qualche volta anche nella sua terza parte verso la radice (Fig. 66); esso non è particolarmente
protrudente e anzi, soprattutto nel sesso maschile, è alquanto appiattito; la radice è occasionalmente
profonda, ma sempre stretta (Fig. 70).
Le labbra, di massima, sono leggermente carnose, e anche nei casi dove sono sottili, hanno un profilo
sorridente ‘a beccuccio’, come se fossero tirate all’infuori e, agli angoli, ritorte all’insù. L’apertura orale è
piuttosto corta (”bocca piccola”). Le labbra e la parte inferiore del mento sono spesso proiettati all’infuori,
mentre il solco che va dal mento al labbro inferiore (sulcus mento-labialis) è profondo. Ma questo medesimo
solco è più alto che fra altre razze (Figg. 56, 68, 110), il che costituisce un tratto caratteristico dei visi
orientalidi. Ne risulta che il labbro inferiore appare, e di fatto frequentemente è, leggermente protrudente.
Spesso le occhiaie sono a mandorla (anche se questo è più visibile fra i bambini, i giovani e nel sesso
femminile); cioé il loro angolo interno è più rotondo e quello esterno più appuntito, a differenza delle forme
oculari normali in Europa che sono affusolate. Inoltre, l’apertura oculare tende a prendere, nella direzione
longitudinale, un andamento all’infuori e all’insù (Figg. 56, 57). Gli occhi della razza orientalide danno
spesso l’impressione di essere infossati, soprattutto quando le palpebre sono magre e rinsecchite, il che è un
caso frquente. Le sopracciglia sono spesso fortemente arquate e arrotondate e le ciglia lunghe. Le orecchie
sono relativamente piccole, e spesso appiattite sulla testa.
La pelle è olivastra chiara, spesso apparentemente più chiara di quella della razza occidentale
(mediterranea); però per quanto chiara possa essere resta sempre opaca, mai rosea. I capelli sono castanoscuri
o neri, generalmente ricciuti; il capello singolo è sottile e flessibile; l’iride degli occhi è bruno scuro.
Soprattutto fra le donne ci sono molti individui di razza orientalide i cui occhi hanno una cornea più
incurvata, sia verticalmente che orizzontalmente, che non nelle altre razze (con la possibile eccezione di
quella camitica, nella quale sono frequenti gli individui con il globo oculare fortemente incurvato).
La barba è abbastanza fitta. Sono anche frequenti le barbe nelle quali le tre parti, guance, mento e baffi,
sono nettamente separate; mentre non è infrequente neppure il caso contrario, dove queste tre parti sono fuse
dando origine ad una barba abbondante e ininterrotta. Il tipo di barba che ci viene mostrato nelle
rappresentazioni egiziane antiche di genti di lingua semitica, e di razza prevalentemente orientalide, è un
tipo nel quale mancano i baffi, mentre la barba c’è sulle guance e sul mento dove finisce a punta (cfr. Fig.
116) Ma questo corrisponde ad una detrminata moda non ad un tratto ereditario.
La donna orientalide invecchia presto, raggiungendo la sua più bella età fra i 12 e i 20 anni, che è anche
quella dove è più evidente la bellezza specifica del suo viso sottile con il mento femmineamente arrotondato.
Essa ritiene un certo slancio nella forma, anche se i fianchi sono caratteristicamente larghi, con una tendenza
ai seni massicci.
26
Quanto alla forma dei seni delle donne orientalidi, relativamente rari sono quelli a coppa o ad emisfero,
frequenti invece quelli a pera o conici, cioé dei seni nei quali la lunghezza è minore della larghezza.
Secondo Lagneau, questo tipo di seni è riscontrabile in donne del Sud della Francia, presumibilmente
discendenti da saraceni stabilitisi là durante il Medioevo, e prevalentemente di razza orientalide (1).
I ’seni caprini’ riscontrabili fra le donne di tante popolazione del Medio Oriente e anche fra le donne
ebree: seni a pera protrudenti e con il capezzolo fortemente indirizzato all’infuori, sono più probabimente il
risultato di un’influsso razziale negroide che di uno orientalide; infatti, questo tipo di seni si riscontra con la
massima frequenza nelle zone dove la presenza negroide è importante.
La razza orientalide è probabilmente imparentata con quella occidentale (mediterranea). Queste due razze
potrebbero essere sorte come due ramificazione da una terza, più antica, almeno per quel che riguarda i tratti
somatici. Dal punto di vista psichico le differenze comunque sono molto importanti.
La migliore idea che ci si possa fare delle caratteristiche animiche della razza orientalide, proviene
senz’altro dallo studio del comportamento psicologico dei beduini arabi, soprattutto quello del passato. Fra
loro si è sempre constatata una dignità chiusa in se stessa unita ad una certa rigidità e ottusità nei sentimenti
il chè, probabilmente, ha ostacolato lo sviluppo di una musica araba e di un teatro arabo, almeno fino alla
mescolanza con la razza levantina. Gli osservatori, con altre appartenenze razziali, hanno invariabilmente
notato come i popoli prevalentemente orientalidi abbiano sempre avuto un’idea sciatta e inflessibile del
divino, con una vita religiosa la cui intolleranza verso altre forme di culto poteva sfociare nella
persecuzione. Non solo nella vita religiosa, ma anche in quella quotidiana l’orientalide esplica una sinistra
serietà, continuamente spezzata da assalti di passione sfrenata. Così anche il suo dignitoso autocontrollo
viene improvvisamente rovesciato da eruzioni violente di sensualità. La condizione psicologica
dell’orientalide oscilla sempre fra una pigrizia noncurante e ottusa e un attivismo esagitato.
Una capacità di osservazione non profonda ma acuta, una volontà tenace, un’astuzia calcolatrice, una
fredda crudeltà e un carattere vendicativo all’eccesso, sono tratti psicologici che egli tiene al guinzaglio,
esercitando un vigilante raziocinio pratico. La sua accentuata litigiosità è controllata da uno spirito
calcolatore. Caratteristico della natura orientalide poi è l’attacco a sorpresa, dall’esito quasi certo, a scopo di
saccheggio.
L’orientalista inglese Sayce (1) dà una esposizione delle qualità animiche dei “semiti” che,
approssimativamente, è lo stesso della razza orientalide, con l’aggiunta di qualche tratto levantino. Quando
ad esempio dice che i “semiti” sono eleganti e abili, e quando a loro attribuisce una buona memoria e un
forte senso della famiglia e del profitto ma che, nel contempo, pur dotati di un temperamento essenzialmente
guerriero difficilmente si sottomettono alla disciplina militare, egli nomina dei tratti caratteristici della razza
orientalide. Sayce vorrebbe riassumere il carattere delle stirpi semitiche, di razza prevalentemente
orientalide, con le parole seguenti: “intensità nella fede, ferocia, esclusivismo, immaginazione (intensity of
faith, ferocity, exclusiveness, imagination).
Io sospetto però che l’immaginazione (imagination) delle stirpi semitiche non sia altro che un segno di
commistione con elementi levantini. L’immaginazione essendo una qualità poco conforme al tagliente senso
pratico della psiche orientalide. Anche la lingua araba può essere un testimone della qualità animica della
razza orientalide, in quanto ha preservato al massimo i tratti paleosemitici, e ancora oggi è parlata da quelle
stirpi semitiche, i beduini, che razzialmente rimangono orientalidi quasi puri. Secondo Bergsträsser,
attraverso la lingua araba traspare la natura psicologica dei “beduini paleoarabi”: “senso pratico, capacità di
osservazione e un esplicito interesse per l’espressione verbale”. La lingua araba ha un carattere
“razionalistico”, “ha pochissime capacità espressive dirette”, ma “è insuperabile per lo stile scientifico” (1).
Lo spirito delle lingue semitiche dev’essere visto come un’espressione dell’anima orientalide. Un esposto
psicologico delle lingue semitiche nel loro insieme, e in particolare delle forme di arabo parlate dai beduini,
verrebbe ad essere contemporaneamente anche un esposto della psicologia orientalide. Questo è stato
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indicato da Renan, nell’introduzione alla sua Histoire générale des langues sémitiques [Storia generale delle
lingue semitiche] (3a. edizione, 1878) (2).
Il primo a dare una descrizione dettagliata della qualità animica della razza orientalide, o per lo meno del
lato religioso della psiche orientalide, fu Clauss: Von Seele und Antlitz der Rassen und Völker [Anima e
volto di razze e popoli] (1928). Egli chiama la razza orientalide “tipo desertico” e lo descrive, in base alle
sue estrinsecazioni animiche, “tipo della designazione (o della chiamata o vocazione)”. Questo libro, che
raccomandiamo, per ragioni di spazio non può essere recensito in questa sede.
(Il libro di Clauss poi cambierà il titolo in “Razza e Anima” ndr)
Fuori dalle zone indicate nella Mappa III, dove la razza orientalide è preponderante, essa è presente sotto
forma di incroci più o meno importanti nelle terre del Mediterraneo orientale, e in particolare nella parte
occidentale dell’Asia Minore, in tutto il Medio Oriente fino all’India e al Turchestan occidentale, nell’Europa
sud-orientale, in Grecia e nelle isole greche, in Sicilia, nell’Italia meridionale e a Malta (dove ancora si parla
una lingua semitica), e nel Sud della Penisola Iberica. Una forte impronta orientalide è percepibile nelle
coste africane fino al Sud, di Zanzibar nell’Est e fino all’estremo occidentale del Marocco a Nord; nonché
nel Nord ed Est del Madagascar. Un certo influsso orientalide esiste nell’Inghilterra meridionale, soprattutto
nella parte occidentale, e nell’Irlanda meridionale, in massima parte dovuto alla presenza commerciale
fenicia. Gli eserciti spagnoli dei tempi di massima potenza della Spagna potrebbero avere diffuso, sia pure in
misura molto limitata, influssi orientalidi. Comunque, nell’Occidente europeo dei nostri tempi, la presenza
orientalide e levantina è dovuta quasi esclusivamente agli ebrei che vi abitano (1).
b) L’immigrazione ebraica
La sede originaria degli ebrei, cioé il luogo dove possono essere rintracciati per la prima volta, bisogna
localizzarla nella Mesopotamia settentrionale, o forse nell’Aramea (2). Il Vecchio Testamento poneva “il
punto d’origine primevo dell’umanità vicino a Babilonia” (3). La storia dell’immigrazione ebraica in
Palestina non è ancora del tutto chiara. Questa immigrazione, in ogni caso, dev’essere avvenuta attraverso
un lungo periodo di tempo, da 100 a 200 anni, durante il quale stirpi singole o piccoli gruppi sono penetrati
in Palestina da direzioni diverse. Come ebrei devono essere classificati non solo gli israeliti, ma anche i
moabiti, gli ammoniti e gli edomiti. Questi gruppi non saranno più presi in considerazioni nel seguito di
questa trattazione, per cui quando si parla di “ebrei”, d’ora in avanti ci si riferirà soltanto agli antenati degli
israeliti, successivamente detti anche giudei.
La denominazione di “ebrei”, nel Vecchio Testamento, è quasi invariabilmente un sinonimo di “israeliti”:
il termine “ebreo” sembrerebbe essere quello usato soprattutto dalle popolazione straniere, mentre “israeliti”
era il temine usato da loro per indicare sé stessi [1]. Il termine “giudei”, originariamente solo una delle molte
stirpi ebraiche fra quelle che più tardi fondarono il regno meridionale delle Giudea, solo nel Nuovo
Testamento viene usato per indicare tutto il popolo ebraico.
Si possono riconoscere due migrazioni principali: una proveniente dal Nord, che raggiunse il territorio poi
occupato dal regno di Israele, e una da Sud, che raggiunse il territorio dove successivamente si ebbe il regno
di Giudea (2). Il nome della stirpe proveniente da Sud, i ‘cabiri’, passò poi ad indicare tutto il popolo, cioé gli
“ebrei” (in ebraico ‘ibrim).
Questi cabiri costituivano probabilmente quella parte del popolo ebraico (israelitico) che per un certo
periodo aveva soggiornato in Egitto. Fra il 1.500 e il 1.400 a.C. il regno egiziano esercitò una specie di
dominio sui piccoli principi palestinesi, cioé (vedi più sopra) i già citati dirigenti delle città-stato canaanite.
Dalle già menzionate lettere di Tell-el-Amarna risulta che in quel periodo stirpi di lingua semita, provenienti
dai deserti dell’Arabia e del Sinai, tentarono di penetrare in Palestina. Questi raggruppamenti vengono detti
chabirî. Un riceratore del calibro di Eduard Meyer giudica che “L’identità linguistica fra gli ebrei, o israeliti,
con quella parte dei ‘cabiri’ delle scritte di Amarna che sono penetrati in Palestina, è del tutto indubitabile”
(1). Sembrerebbe che alcuni re di città-stato canaanite abbiano contrattato i cabiri come mercenari, salvo poi
non poter più liberarsene.
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Ma gli ebrei nel loro insieme non soggiornarono mai in Egitto. Soltanto la “stirpe di Giuseppe”, e forse
quella dei cabri, due stirpi che poi finirono per confondersi, erano penetrate in territorio egiziano. Oggi ci
sono alcuni ricercatori che mettono anche questo in dubbio, in quanto l’influenza culturale egiziana in Israele
sarebbe stata infima. Le storie del Vecchio Testamento, a proposito della permanenza in Egitto, sono
fiabesche come i personaggi ebraici menzionati. In ogni caso, una stirpe ebraica deve aver raggiunto la
Palestina meridionale verso il 1.250 a.C. proveniente dalla frontiera nord-orientale dell’Egitto, o dal deserto
del Sinai; mentre gli altri gruppi ebraici cominciarono ad arrivare provenendo da Nord e da Nord-est a
partire dal 1.400 a.C. I ritrovamenti archeologici indicano anch’essi il periodo dal 1.400 al 1.200 a.C.. “La
conquista di Giosué ebbe luogo verso la fine dell’Età del Bronzo, poco dopo il 1.200 a.C.; ma ci sono
indicazioni di un’occupazione parziale della Palestina centrale (Hare Ephraim) da parte di ebrei circa tre
secoli prima” (1).
Per quel che riguarda la razza, come abbiamo già detto, bisogna pensare che gli ebrei arcaici fossero
fondamentalmente orientalidi. I loro tratti forse erano quelli rappresentati dagli artisti egiziani per una parte
degli Hyksos e altre popolazioni verso il 2.000 a.C. e, dopo, per altri gruppi di lingua semita che
occasionalmente irruppero in Egitto (cfr. Fig. 116).
È probabile che ci fosse già allora un leggero influsso levantino negli ebrei, così come nei medianiti e nei
ceniti. La mescolanza con medianiti e con moabiti, testimoniato in 4 Mosé 25, non dovette portare ad alcun
cambiamento importante nella composizione razziale ebraica, in quanto quelle stirpi erano, probabilmente,
loro stessi in prevalenza orientalidi come gli ebrei. Lo stesso vale per la mescolanza con i ceniti,
testimoniata in Giudici 1, 16. Quella stirpe ebraica che aveva soggiornato in Egitto, probabilmente assorbì
degli elementi razziali della popolazione egiziana. Influssi razziali del genere, anche se non devono essere
necessariamente ricondotti ai tempi del soggiorno in Egitto, sono certamente riconoscibili nella popolazione
ebraica. Sarà perciò istruttivo dare in questa sede una visione d’insieme di quella che probabilmente era la
composizione razziale dell’antico Egitto.
c) La composizione razziale della popolazione egiziana antica
La civiltà egiziana antica è, in termini generali, una creazione di un ramo della razza camitica (etiope)
oppure di una determinata mescolanza camitico-orientalide (2).
Già nel tardo Paleolitico, gruppi umani provenienti dall’Etiopia e dalla Nubia, di razza prevalentemente
camitica (etiope) del tipo B, o tipo “rozzo”, di Münter (3), erano arrivati nell’alta valle del Nilo per poi
continuare verso Nord seguendone la sponda orientale. Avevano come animale domestico un tipo di asino
derivante dall’asino selvatico nubiano, e coltivavano certe piante mangerecce originarie dall’Arabia
meridionale. Tratti culturali della massima importanza quando si vuol rintracciare i movimenti preistorici
dei camiti, argomento che sarà considerato in dettaglio più avanti.
I gruppi camitici (etiopi) moderni sono le popolazioni più simili ai primissimi egiziani; in particolare le
stirpi Bedscha della zona di Bischarin, che ora abitano il deserto a Est del corso medio del Nilo (1). È
possibile che questi immigrati si siano incontrati con un tipo umano già presente e che, quale componente
secondaria, ancora oggi affiora continuamente nel popolo egiziano: gente tozza, con tendenza alla
pinguedine, spalle larghe e il torace ampio; bacino stretto e gambe deboli; piuttosto dolicocefala, con il viso
mediamente stretto e una tendenza alle guance grasse; il naso corto e dritto, o con leggera angolatura, dalle
narici all’insù; leggermente prognata con le labbra spesso carnose. Questo “tipo rozzo” è più comune fra la
classi più basse della popolazione egiziana, e la sua classificazione razziale rimane problematica (1).
Dopo la penetrazione delle genti prevalentemente camitiche (etiopi) fino al corso medio del Nilo, in
Egitto ci fu un’altra immigrazione (attorno al 4.475 a.C.?). A partire dalle odierne zone di Koffëir (sul Mar
Rosso) e di Rene (sul Nilo) avviene la penetrazione nella valle del Nilo di gruppi del tipo A (più “elegante”)
di Müster, quindi essenzialmente di razza orientalide, le quali però dovevano avere già incamerato una
leggera influenza levantina, visto che portarono coltivazioni di origine microasiatica. Insorse prima un regno
del Sud, la cui popolazione era essenzialmente camita (etiope), e più tardi, sul corso medio e settentrionale
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del Nilo, un regno del Nord, dalla popolazione prevalentemente orientalide. Furono questi i cosiddetti regni
‘predinastici’. Verso il 3.300 a.C., un signore meridionale, il mitico Menes, riuscì a unificare i due regni in
una sola nazione. Così si stabiliì una simbiosi fra la “forza camitica” e l’”intelligenza semitica”, come ebbe a
dire il già citato Grühl (cit., p. 11).
All’unificazione del regno seguirono quattro secoli di grande sviluppo politico e culturale che diede
all’Egitto la sua particolare fisionomia, quella poi sempre ammirata dagli storici.
La lingua egiziana arcaica può essere rintracciata fino a circa il 3.000 a.C., e ne esistevano ancora della
’sacche’ nell’Egitto meridionale verso il 1.500 d.C. Essa, rispecchiando così la composizione razziale degli
egiziani antichi, si pone a mezza via tra la famiglia linguistica camitica e quella semitica, e diversi linguisti
l’hanno classificata come appartenente sia all’una cha all’altra di queste due famiglie. Hommel, che però
dubita dell’esistenza di una vera e propria famiglia linguistica camitica, presume che l’egiziano antico,
nonché le lingue berbere dell’Africa nord-occidentale ad esso secondo lui imparentate, si sarebbero
differenziate in tempi preistorici dal ramo babilonese delle lingue semitiche (1). Oggigiorno si tende,
seguendo Erman (2), a vedere nell’egiziano una lingua di tipo più che altro semitico, mentre nel passato la
tendenza era stata quella di classificarla come camitica. Secondo Erman, l’egiziano, pure lingua semitica, si
sarebbe differenziato dalle altre già molti millenni prima di Cristo, sottostando ad uno sviluppo del tutto
autonomo. Peake e Fleure riassumono la storia linguistica ed etnica egiziano come segue: “Sembra che la
lingua dell’Egitto antico sia stata inizialmente camitica, per poi semitizzarsi con il trascorrere del tempo” (3).
A parte l’influenza razziale camitica (etiope), alla quale si deve attribuire lo spirito linguistico camitico, e
all’influenza orientalide, alla quale si deve attribuire lo spirito linguistico semitico, nella popolazione
egiziana antica, soprattutto nel Basso Egitto, ci dovette essere una componente razziale occidentale
(mediterranea); e addirittura qualche influsso nordico e anche Cro-Magnon.
Il leggero influsso cro-magnoide nella composizione razziale degli egiziani si è parzialmente mantenuto
fino ai nostri giorni (lo si è già detto prima). Esso potrebbe essere stato in relazione con i costruttori di
megaliti del Mediterraneo paleolitico.
L’influsso nordico nella popolazione egiziana antica, a parte la presenza della già menzionata “razza di
Nagada”, probabilmente derivò da mescolanze con i libici, che avrebbero potuto essere un misto razziale
nordico camitico (etiope) e cro-magnoide. Anche il contenuto nordico e cro-magnoide dei libici deve
probabilmente rintracciarsi nelle ondate di popolazione del Paleolitico antico che, provenienti dall’Europa
occidentale, raggiunsero il Nordafrica dove vi costruirono anche dei megaliti. Secondo Möller, le abitudini e
il vestiario dei libici mostrano importanti paralleli con quelli dei guanci delle Isole Canarie, di razza
prevalentemente cro-magnoide. La pratica egiziana dell’imbalsamazione, forse fu mutuata dai libici; una
pratica non sconosciuta dai guanci e da loro usata in modo non dissimile dei primi egiziani (1).
I documenti egiziani ci informano, a partire dal III millennio a.C., di come i libici scorrazzassero nel delta
del Nilo. Fra il 1.350 e il 1.090 a.C. ci furono massicci attacchi libici contro l’Egitto, con i quali i Libici
finirono per occupare interamente la zona del delta. A partire dal 1.100 a.C. li troviamo nell’esercito
egiziano, spesso come ufficiali. Partendo dall’esercito, si infiltrarono in tutti i servizi statali fino a che, nel
945 a.C., un libico, l’intraprendente Scheschonk, menzionato nel Vecchio Testamento (1 Re 11,40; 14,25)
come ‘destino’, divenne faraone e non pochi signori libici, per circa 200 anni dopo di lui, esercitarono
posizioni di potere. Sotto la XXVI dinastia, dal 663 al 525 a.C., la dea libica Neit divenne dea dello stato
egiziano.
Una parte dei libici dovevano essere chiari, biondi e con gli occhi azzurri: così essi sono rappresentati
nelle tombe di Tebe verso il 1.300 a.C.; e inoltre con dei tratti facciali che lasciano intravvedere la razza
nordica più che quella cro-magnoide che pure, in ragione dei legami linguistici e razziali dei libici con i
guanci e i berberi biondi dell’Africa settentrionale, doveva essere presente, anche se non in grande misura,
nel misto razziale libico. Secondo Sayce, le rappresentazioi egiziane antiche indicano che i libici dovevano
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essere dolicocefali (1). Anche scrittori ellenici ed ellenistici, Callimaco, Scillace, Procopio, fra gli altri,
parlano dei libici biondi della Cirenaica (2).
È improbabile che quel ramo ebraico che aveva soggiornato in Egitto abbia ricevuto dai libici un qualche
contributo nordico; è invece più probabile che ci sia stato un qualche incrocio con gli egiziani camiti.
Occasionalmente, tratti camitici (etiopi) affiorano fra gli ebrei, tratti che potrebbero essere riconducibili al
soggiorno egiziano di una particolare stirpe ebraica.
Ci sono indizi che, in Egitto, gli ebrei si siano mescolati con elementi provenienti dalle classi infime e
disprezzate della società egiziana, forse di origine esogena, almeno secondo un passo poco chiaro del
Vecchio Testamento (2 Mosé 11,4): “Anche molti fuggiaschi si unirono a loro”(1). Anche in 4 Mosé 11,4 si
parla una volta di “gentaglia”. Lutero traduce qui, come anche sopra, “popolaccio”: forse alcune componenti
delle stirpi ebraiche che venivano considerate di classe inferiore.
Secondo 4 Mosé 12,1, sembrerebbe ci sia stato del meticciato con schiave negre. L’innegabile influsso
negroide nel popolo ebraico è stato spesso segnalato, ed è stato generalmente ricondotto ai tempi del
soggiorno egiziano. Questo è però poco credibile. In mezzo alla popolazione camitico (etiopico)-orientalide
dell’Egitto antico ci potevano essere, già prima del 1.500 a.C., piccoli gruppi di negri, o di meticci camiticonegroidi,
importati come schiavi probabilmente soltanto dalle famiglie socialmente più elevate. Solo verso il
1.500 a.C. egiziani e negri si scontrarono per la prima volta, quando stirpi negroidi avanzarono verso Nord
fino alla quarta cateratta del Nilo e, in Africa orientale, fino alla costa somala (1). Fu solo da allora che il
popolo egiziano cominciò ad essere pervaso da sangue negroide, prima nel Sud, e poi, in proporzione
sempre decrescente, anche nel Nord. Nel Sud dell’Egitto la progressiva negrizzazione ha portato alla
dissoluzione culturale, mentre nel Nord lo sviluppo culturale continuò ancora (2). Forse, come suggerisce
Worrell, l’assunzione di dei dall’aspetto teriomorfo da parte dei sacerdoti egiziani è da ricondursi
all’influenza dello spirito negroide, in quanto gli egiziani ancora prevalentemente camiti (etiopi) avrebbero
adorato soltanto dei antropomorfi (3).
È improbabile che l’influsso negroide abbia potuto raggiungere quella zona del Basso Egitto dove aveva
soggiornato una stirpe ebraica, prima del secolo XIII a.C. quando essa emigrò. Gli ebrei acquisirono un
importante contributo razziale negroide solo dopo la loro emigrazione in Palestina. Questo sarà discusso più
avanti.
L’adozione di alcuni nomi egiziani, come Mosé (4), Pinea e altri da parte di una particolare stirpe ebraica
dimostra, secondo Giesebrecht (5), che ci fu un certo “scambio di ospitalità” fra ebrei ed egiziani. Può darsi
che in quelle circostanze possa esserci stata una certa mescolanza fra i due popoli. Anche Livi (6), quando
considera il soggiorno degli ebrei in Egitto, afferma che “Non si può escludere che ci siano stati casi
frequenti di meticciato (mistioni di sangue)”. Se così fosse allora gli ebrei, oltre ad aggiunte di sangue
orientalide e levantino, già in loro presente, avrebbero ricevuto un’aggiunta di sangue camitico (etiope), ma
del “tipo rozzo” menzionato sopra.
Secondo 1 Mosé 41; 45 e 50, Giuseppe avrebbe sposato un’egiziana che si chiamava Asenath. In un luogo di
5 Mosé 23,7 è detto che gli egiziani potevano essere accettati nelle comunità di sangue e nelle stirpi
ebraiche. Già Agar, l’inserviente di Sara nella storia di Abramo, si dice fosse egiziana (1 Mosé 16,3).
d) La razza camitica (etiopica)
La razza camitica (etiopica) è detta da Reche Homo mediterraneus var. africana e da Giuffrida-Ruggeri
Homo sapiens indoafricanus var. aethiopica. Eugen Fischer nega che esista una razza camitica (etiopica) e
vede in questo tipo umano un misto orientalide-negroide. La denominazione “razza camitica (etiopica)” è già
stata discussa, e si è detto che non è un concetto ancora definito in modo del tutto soddisfacente. Essa
proviene da un certo testo veterotestamentario. Questa razza è alta, e in qualche gruppo isolato (come
conseguenza di “selezione interna”) molto alta, con altezze fino a 1,90 metri e anche di 2 metri nel sesso
maschile. È estremamente magra, per cui von Luschan ha espresso il dubbio che le interiora, in qualche
gruppo di camiti (etiopi) particolarmente magri, non abbiano la stessa posizione che hanno nelle altre razze
(1). Questa altezza sproporzionata è dovuta in gran parte alle gambe, lunghe, magre, spesso scheletriche. Si
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è sovente parlato di queste gambe “esageratamente lunghe” in certe stirpi camitiche dell’Africa orientale. Le
spalle, nel sesso maschile, sono fortemente angolose. Le lunghe braccia sono magre quanto le gambe, con i
loro polpacci sottili e cosce ugualmente scarne. Le mani e i piedi sono particolarmente stretti, di fattura
quasi delicata. Il bacino, anche fra le donne, è stretto e dà un’impressione di leggerezza; il seno fa l’effetto di
essere appiattito, le natiche sono poco protrudenti. Nonostante tutta questa magrezza, il corpo, nel suo
insieme, dà un’impressione di eleganza e di forza. Quando, in Africa orientale dove le genti sono
prevalentemente camitiche (etiopiche), ci si incontra con donne più arrotondate o addirittura grasse, si è
davanti non tanto a caratteri ereditari ma a casi esclusivamente individuali dovuti all’abitudine, comune in
Africa orientale, di farle ingrassare per forza.
La razza camitica (etiopica) è decisamente dolicocefala e ha il viso stretto. Le teste hanno un aspetto
stretto e leggero, e nello stesso tempo sono lunghe e a volta; la parte posteriore della testa si slancia oltre la
nuca. La forma del viso è determinata dagli zigomi, leggermente sporgenti, senza che questo pregiudichi
l’aspetto generale di un viso molto stretto lungo e arrotondato; la mascella è molto stretta e leggera con il
mento abbastanza pronunciato. Il naso è mediamente stretto, in ambiente africano, spesso diritto ma anche
leggermente arcuato; le mascelle sono leggermente prognate (mesognatismo) e le labbra sono leggermente
carnose, ma non grosse.
Le orecchie relativamente piccole e, in generale, appoggiate alla testa. La forma dell’apertura oculare fa
spesso l’effetto di essere a mandorla e gli occhi di essere troppo grandi e protrudenti. Quando queste genti
ridono o sorridono, le labbra si contraggono caratteristicamente sulle gengive, mostrando così i denti più che
in altre razze. Il labbro superiore dei camiti è relativamente corto, o per lo meno sembra esserlo quando
ridono.
Il colore della pelle oscilla fra un bruno chiaro rossastro e un bruno molto scuro parimenti rossastro (1). I
capelli sono bruno scuri o neri e ricciuti (non crespi o lanosi); l’iride bruno scura. L’espressione degli occhi è
stata descritta come “infuocata”; ma in ogni caso si distingue per una sua particolare acutezza e mobilità
quando è messa a confronto con quella ottusa degli altri negri loro vicini. L’occhio camitico (etiopico) è
infossato e chiaro, spesso posto dentro ad occhiaie alte e dalle palpebre magre, e possiede un suo particolare
umido luccichìo; invece l’occhio negroide, più protrudente, sta dentro a occhiaie meno profonde con le
palpebre grasse. La pilosità corporale, salvo sulla testa dai capelli abbondanti e ricciuti, è scarsa. La barba è
rada, ma è possibile distinguere fra i baffi e la peluria sulle guance e sul mento, separate da zone senza peli.
I seni della donna sono normalmente piuttosto piccoli, e comunque mai eccessivamente grandi.
Le qualità animiche della razza camitica (etiopica) includono, secondo Reche (1), capacità guerriere, dote
per il comando, intelligenza e abilità organizzativa. È molto probabile che sia stata la razza formatrice di
strutture statali in Africa, e in certe parti di quel continente continua ad esserlo. È una vera e propria
Herrenrasse [razza di signori] che, in ragione delle sue inclinazioni caratteriali, si è imposta come classe
nobiliare dominante al di sopra di molte stirpi negroidi africane. Ci si incontra spesso con fotografie di stirpi
“negroidi” fra le quali la classe dirigente appare nettamente camitica, con scarse mescolanze negroidi,
mentre il popolo comune è negroide con scarse mescolanze camitiche (cfr. Fig. 145). Questa qualità di
’signori’ nelle genti camitiche era già stata segnalata da Klemm (2), che volle vedere nelle stirpi camitiche
(etiopiche) dei rappresentanti di quelle che lui chimava “razze attive”. Più recentemente, Spannaus ha di
nuovo messo a fuoco il ruolo di questa razza come creatrice di strutture statali (3). Il ruolo principale nella
formazione strutturale dello Stato egiziano antico è probabilmente da attribuirsi alla razza camitica
(etiopica), i cui tratti somatici risaltano nelle mummie o nelle raffigurazioni dei principali re egiziani (4).
L’”intelligenza”, che Reche elenca fra le qualità della razza camitica (etiopica), risalta non solo contro il
retroscena delle stirpi negroidi che confinano con loro, ma si manifesta anche come un senso di osservazione
tagliente e indagante che traspare nei tratti di diverse mummie, nonché in quelli della nobiltà Bahima
0dell’Africa orientale. Alla razza camitica (etiopica) è propria un forte orientamento guerriero; ma, anche se
c’è un’inclinazione alla crudeltà e alle azioni e ai sentimenti impulsivi, essa è tenuta a freno da
un’autocontrollo che porta ad un comportamento calmo e all’attenzione per le regole della buona creanza.
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Nell’Egitto antico, e ancora oggi fra le stirpi est-africane prevalentemente camitiche (etiopiche) nonché nel
popolo abissino, si può riconoscere un senso della misura in tutte le forme del comportamento. Nell’uomo
camitico (etiopico) è riconoscibile un particolare orgoglio taciturno che si traduce nell’essere di poche parole
e nel soppesare quello che dice, e quando ha di fronte forestieri, nel mantenere un’attitudine di superiore
distacco. Verso coloro con i quali hanno confidenza osservano una loro tipica fedeltà e onorabilità. I
giovani, ma non di rado anche i vecchi, sono piuttosto sognatori e dalla personalità cupa. Prima della
pubertà i maschi hanno qualcosa di dolce, quasi femmineo, che però non esclude una natura orgogliosa e
guerriera. I camiti (etiopici) hanno l’inclinazione al gioco e allo sport, accompagnata da pignoleria per quel
che riguarda l’attenzione che danno agli ornamenti e ai vari accorgimenti per un aspetto elegante.
Weiss descrive come segue l’impressione che gli fecero i Wahima (Watussi) dell’Africa orientale tedesca
(1): “Sotto lo sguardo dei Wahima ci si sente, senza volerlo, trasportati in Egitto; e questo anche prima di
averli potuti conoscere bene, ma soltanto come conseguenza dell’impressione che danno queste figure alte
due metri, orgogliose, distinte, calme e autoconsapevoli, dalla natura aperta e dalla presenza elegante. Viene
inconsapevolmente il pensiero di essere davanti a rappresentanti di una stirpe di signori e dominatori”.
L’espressione linguistica dell’animo camitico deve essere cercata nelle lingue camitiche che sono ancora
parlate in vaste regioni dell’Africa (cfr. Mappa IV), ma nelle quali, spesso, la popolazione dimostra solo un
piccolissimo influsso razziale di quelle che, un tempo, dovettero essere le genti portatrici di quelle lingue
(1). Influssi razziali camitici si incontrano però anche molto lontano dalle zone di lingua camitica. Le lingue
bantù dell’Africa equatoriale hanno subito forti influenze dallo spirito linguistico camitico e potrebbero
avere avuto la loro origine in un miscuglio di lingue sudanesi che riflettono anche la psiche negroide, dalla
quale anche le lingue camitiche hanno forse avuto la loro scaturigine. La lingua degli ottentotti è stata
probabilmente originata da un incrocio di lingue boscimanesche con lingue camitiche. Von Luschan ha
trovato fra gli zulù e altre stirpi cafre dell’Africa meridionale forse un 0,5% di individui di tipo camitico,
secondo lui “riaffioramenti di vecchie forme camitiche” (3).
La “similitudine fra cafri ed ebrei”, menzionata da Ratzel nella sua “Völkerkunde [Etnologia]” (vol. I,
1885, p. 137), o meglio, l’”aspetto ebraico” di alcuni cafri, è determinato da un influsso camitico negli uni e
negli altri, il quale, in alcuni visi ebraici, fa affiorare tratti che ricordano il tipo camitico, orientalide o
negroide. Un ottentotto che si chiamava Abraham Platje ricevette, in Sud Africa, il nomignolo di “Disraeli”,
che era il nome del ministro inglese Disraeli (Lord Beaconsfield), un ebreo. La “similitudine” fra i due
(Figg. 140 e 141) potrebbe essere spiegata dal fatto che ambedue potevano avere una componente razziale
camitica.
I territori dove ancora c’è una forte prevalenza delle razza camitica sono indicate nella Mappa II. In quelle,
fra queste zone dove è presente un forte influsso razziale negroide, esso si manifesta, in ragione di
ereditarietà preferenziale, in un determinato sesso, soprattutto nelle donne (1). Il popolo abissino, che è di
lingua semitica, è caratterizzato da una forte influenza camitica, se non proprio da una prevalenza di questo
tipo razziale. I copti egiziani, discendenti cristiani degli egiziani antichi, prevalentemente camiti (2), hanno
conservato una forte impronta camitica, soprattutto nell’Egitto meridionale, dove l’influsso orientalide fu
sempre minore che nell’Egitto settentrionale o centrale. Gli abitanti dell’Arabia meridionale e sudoccidentale
dimostrano un forte influsso camitico, soprattutto gli arabi di Tihama sul Mar Rosso (3). Anche
gli ebrei dello Jemen (Arabia meridionale) partecipano di questo influsso. Se questo influsso camitico
nell’Arabia meridionale fosso stato possibile nella preistoria araba, o nei primissimi tempi della storia
ebraica, esso probabilmente avrebbe raggiunto anche quelle stirpi ebraiche che non avevano mai soggiornato
in Egitto.
Fra gli ebrei che adesso abitano in Occidente, l’influsso razziale camitico è scarso. Mi ricordo
personalmente di un ebreo, nato nella Germania orientale, che mi sembrò prevalentemente camita. In un
ambiente di ebrei est-europei che abitavano una grande città tedesca, in ragione del suo comportamento e del
suo aspetto sembrava incarnare una specie di ‘nobiltà’ ebraica, ed era trattato con rispetto dagli ebrei che lo
attorniavano. Von Luschan menziona una ragazza Masai dell’Africa orientale, camitica di razza, che, “nel
suo aspetto generale ricorda certi tipi umani che potei osservare anche a Berlino W. W.” (1). Presso gli ebrei
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e le ebree ci si rende continuamente conto che vi sono certi tratti probabilmente riconducibili più ad influssi
camitici che orientalidi; ma raramente si tratta di un forte influsso, e meno ancora di una prevalenza della
razza camitica.
Dove stava l’Urheimat, la sede primordiale, della razza camitica? Si è già parlato dell’immigrazione di
quella razza in Egitto e che gli immigranti avrebbero introdotto nella valle del Nilo coltivazioni di origine
sud-araba. Sembrerebbe che già nel VI o V millennio a.C. stirpi camitiche, provenienti dall’Arabia
meridionale, siano penetrate in Africa orientale da dove, con ondate successive, i loro discendenti si sono
poi diffusi in tutto il continente africano. La migrazione più importante sembra si sia sviluppata verso Ovest
e poi Sud-ovest, seguita da un’altra, secondaria, da Nord-est verso Sud. L’espansione camitica, partita
dall’Africa nord-orientale, preservò la popolazione della valle del Nilo dalla totale negrizzazione. Le stirpi
camitiche, nomadi e allevatrici di bestiame (e non, come i negri bantù moderni, soltanto possessori di
bestiame), rette da istituzioni patriarcali, sottomisero le stripi negroidi dell’Africa centrale e orientale, che
praticavano l’agricoltura per disboscamento ed erano rette da istituzioni matriarcali (2).
Ai “veneratori della discendenza” (Germani e camitici) viene attribuito l’addomesticamento e la diffusione
del bestiame africano dalle grandi corna, presumibilmente derivato dal bestiame bovino selvatico egiziano
(1). Il riconoscimento dei tratti caratteristici della prima cultura camitica, in particolare, il patriarcato e
l’allevamento del bestiame bovino, è servito, alla cosiddetta ricerca delle cerchie culturali, a gettare luce
sulla preistoria della razza camitica prima del suo soggiorno nell’Arabia meridionale. Schmidt e Koppers
hanno tentato di farli derivare da una “cerchia culturale” preistorica di allevatori patriarcali centroasiatici
(2). Graebner accetta questo presupposto (3). Già Klemm aveva sospettato che la sede primordiale dei
camiti fosse in Asia (4). Queste idee andrebbero d’accordo con quanto hanno affermato Stuhlmann e
Johnston a proposito dell’origine dei camiti, secondo i quali, partendo da posizioni etnologico-razziologiche,
bisogna porre la loro sede originale nella Persia meridionale e nell’Arabia nord-orientale; e con il massimo
di probabilità nella zona del Golfo Persico (5).
Quando si presuma un’origine dei camiti posta nell’Asia occidentale, si potrebbero spiegare anche delle
affinità somatiche che essi hanno con gli abitanti delle zone costiere del vicino Oriente e di territori limitrofi
della Persia. Secondo il razziologo italiano Giuffrida-Ruggeri queste affinità sono tanto importanti che egli,
in una mappa delle distribuzioni razziali dell’Africa nord-orientale e dell’Oceano Indiano occidentale,
attribuisce a tutti questi territori una sola razza primordiale, che egli chiama Homo sapiens indoafricanus
(6).
In ogni caso, dal confronto dei tratti somatici degli uni e degli altri, risulta che la razza camitica e quella
orientalide sono tanto vicine che si può presumere abbiano avuto origine da una medesima razza ancestrale.
Dal punto di vista linguistico, sembrerebbe asserci una parentela fra le lingue originarie, per cui si è
ipotizzata una lingua arcaica semito-camitica dalla quale si sono poi sviluppate, per vie divergenti, le
posteriori lingue camitiche e semitiche. Il luogo originario dove si parlava questa lingua semito-camitica,
deve essere stato anche la sede arcaica di una razza camito-semitica; e questa sede deve essere posta “in
qualche parte nel Medio Oriente” (1).
La linguistica comparata non ha ancora risolto i quesiti legati a questo problema. Se “Cam”, come azzarda
Hommel, viene ad essere “un substrato semitico più antico di suo fratello Sem” (2), il che implicherebbe che
il ’semitico’ deriva dal ‘camitico’, come già sospettava Worrell (3), allora si dovrebbe poter spiegare in che
modo le “radici” lessicali camitiche, consistenti in due consonanti, abbiano dato origine alle “radici”
lessicali semitiche, consistenti in tre consonanti. Sarebbe stato più naturale che dalla contrazione di tre
consonanti in due, le “radici” camitiche avessero potuto derivare da quelle semitiche. Viceversa, ci sono
certi processi lessiciali semitici, difficilmente spiegabili come sviluppi interni di quelle lingue, che
sembrerebbero avvicinarsi al camitico.
Ora come ora si può soltanto affermare che, nello stesso modo che le razze orientalide e camitica
(etiopica) sono strettamente imparentate, c’è anche una parentela linguistica fra le lingue semitiche e quelle
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camitiche. Dal punto di vista sia linguistico che razziale, Christian distingue due stratificazioni fra le
popolazioni di lingua semitica:
1. una stratificazione linguisticamente più antica: akkadiano (assiro e babilonese), mineo-sabeo, lingue
abissine e mahra;
2.una stratificazione linguisticamente meno antica: canaanita, arameo e arabo.
La stratificazione più antica corrispondeva a popolazioni prevalentemente camitiche, quella meno antica a
popolazioni prevalentemente di razza orientalide (Christian dice: “razza semitica”) (4). Questa spiegazione,
secondo me, non è sufficiente per gettare luce sul problema delle relazioni fra semitico e camitico;
soprattutto perché gli assiri e i babilonesi non presentavano un influsso razziale camitico importante.
Invece, il problema dell’origine comune delle razze camitica e orientalide diventa meno difficile quando si
ammetta, con Ungnad (vedi più sopra), che i primi provengono dall’Asia sud-occidentale e i secondi
dall’Europa sud-orientale. La razza orientalide è imparentata con quella occidentale (mediterranea) tanto
quanto con quella camitica; e quindi nasce la domanda se queste tre razze non potrebbero aver avuto
un’origine comune, e non solo: ma anche se queste tre razze non provengano da un ceppo dal quale a suo
tempo insorse anche la stessa razza nordica. Da quando la razza occidentale e quella nordica sono state
studiate e descritte in dettaglio, è generalmente ammesso che esse sono imparentate.
Quando uscì la 3a. edizione della mia “Rassenkunde des deutschen Volkes [Raziologia del popolo
tedesco]” (1923), io indicai la possibilità di un complesso linguistico indogermanico-semitico-camitico,
corrispondente ad un complesso razziale preistorico nordico-occidentale-orientalide-camitico che avrebbe
incluso tutte queste razze snelle, dolicocefale, dal viso e dal naso stretto e dai capelli flessibili. Una
parentela del genere sarebbe riconoscibile anche nei tratti psicologici: la tendenza alla dominazione
guerriera e ad un comportamento cavalleresco misurato e distinto, è propria, più o meno, a tutte e quattro
queste razze. Nelle razze nordica, orientalide e camitica, c’è anche un senso della distanza nelle relazioni
umane non disgiunto da autocontrollo e raziocinio pratico, inclusa la capacità di creare e mantenere strutture
statali. Hentschel, nel suo Varuna (1a. edizione, 1911, 4a. edizione, 1924) presuppone un complesso
razziale ancora più vasto che andrebbe dall’Oceania fino all’Europa nord-occidentale, e quindi dalle
popolazioni dolicocefale dal viso e naso stretto e dai capelli ricciuti delle isole dei Mari del Sud, fino alla
razza nordica dell’Europa nord-occidentale. Kern, nel suo Stammbaum und Artbild der Deutschen und und
ihrer Nachbarstämme [Antecedenti genetici e forma specifica dei tedeschi e delle stirpi a loro confinanti]
(1927), intendeva cercare il territorio originale delle quattro razze appena menzionate in “Eurasia”, così egli
chiamava la zone delle steppe fra l’Europa sud-orientale e l’Asia occidentale.
Sta di fatto che bisogna immaginare che quei processi di selezione che hanno portato all’insorgere delle
razze camitica e orientalide da un ceppo comune, devono essersi svolti proprio in questa zona. Anche la
razza occidentale (mediterranea) deve essere messa in relazione, per quel che riguarda la sua origine
territoriale e razziale, con questa zona geografica e questa razza ancestrale; anche se il suo sviluppo
definitivo deve avere avuto luogo nell’Europa occidentale o sud-occidentale, forse là dove nel primo
Paleolitico è stata localizzata la cosiddetta cultura tardenoisiana. È lecito immaginarsi che anche le lingue
proprie alla razza occidentale (mediterranea), ora scomparse, fossero imparentate con quelle semitocamitiche.
Viceversa, l’”unicità dell’indogermanico” (1) e la sua parentela, se così ci si può esprimere,
estremamente lontana con il semita-camitico, rende malagevole la collocazione territoriale e biologica
dell’origine della razza nordica, di cui sono proprie le lingue indogermaniche, assieme a quella delle altre tre
razze. Darré, nel suo Das Bauerntum als Lebensquell der Nordischen Rasse [Il contadinato come fonte di
vita della razza nordica] (1928), ha tentato di contrastare Kern, indicando che la zona dove la selezione ha
dato origine ai tratti fisici e psichici alla razza nordica non può essere stata la steppa, ma “le foreste
dell’Europa centrale”, dove la razza nordica si sarebbe formata a partire da una popolazione non di pastori
ma di contadini. Perciò, se si deve sostenere che tutte e quattro queste razze provengono da una stessa razza
primordiale come conseguenza di selezione, il chè è anche la mia opinione, bisogna anche ammettere che
quel gruppo umano dal quale, alla fine del Paleolitico, nell’Europa centrale e settentrionale prese forma la
razza nordica, deve essersi staccato da quel ceppo primordiale nella più remota preistoria. Fu dopo che i
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‘protonordici’ si furono staccati, che quel medesimo ceppo si divise a sua volta nei tre frammenti che sono le
razze occidentale (mediterranea), orientalide e camitica (etiopica).
Anche se le razze occidentale (mediterranea) e orientalide appaiono simili, contro la loro origine comune
si potrebbe sollevare l’obiezione che le popolazioni preistoriche prevalentemente occidentali praticavano il
matriarcato (1), mentre le popolazioni protostoriche di razza prevalentemente orientalide e di lingua semitica
praticavano il patriarcato. Ma sembra che le stirpi di lingua semitica abbiano avuto una preistoria
matriarcale. Testimonianze in proposito sono addotte da Benzinger, Hebräische Archäologie [Archeologia
ebraica] (3a. edizione, 1927, p. 113): il matriarcato e la poliandria sono documentate fra gli arabi arcaici (2),
resti di poliandria sono rintracciabili nella vecchia Babilonia e anche fra gli ebrei rimangono tracce di
matriarcato (3). Tracce di un’influenza matriarcale non mancano neppure fra gli egiziani e i libici. Forse che
il cambiamento da matriarcato a patriarcato fu innescato dai camiti? Gli indogermani di origine nordica non
incominciarono a diffondere le loro abitudini patriarcali nel Medio Oriente che molto più tardi, solo dopo il
2.500 a.C.
IV. LA MESCOLANZA DEGLI EBREI CON I CANAANITI
Gli ebrei penetrarono nel Canaan come pastori nomadi, ma già i primissimi documenti scritti ce li
presentano come un popolo prevalentemente contadino. Quando si consideri con quale difficoltà i
raggruppamenti di razza orientalide e di lingua semitica si sono adattati alla vita sedentaria e alla vita
contadina, bisogna anche presumere che gli ebrei nomadi dei tempi trascorsi fra il leggendario Abramo e
Giosué, siano stati razzialmente altro rispetto a quelli dei tempi di Davide e di Salomone.
Gli ebrei dei tempi dell’immigrazione (1.400 – 1.200 a.C.) danno ancora l’impressione di essere pastori
nomadi con i caratteri psicologici della razza orientalide, non dissimili quindi dalle moderne stirpi beduine. I
racconti veterotestamentari sulla vita dei “primi padri” e sulla conquista e occupazione del Canaan, hanno
conservato queste caratteristiche psicologiche nel migliore dei modi. C’è un senso della cortesia e della
misura e, nel “libro dei Giudici”, dei tratti eroici (1), insieme a quell’accortezza e quell’astuzia sottile che
sono caratteristiche degli orientalidi (2). Il carattere vendicativo e la crudeltà illimitata propri della razza
orientalide, tratti che si rispecchiano anche nella qualità del loro dio, Geova, costituiscono sempre un
retroscena pronto a salire in primo piano in ogni momento, combinato con un carattere infido e macchinoso,
con la tendenza a tramare danni nei tempi di riposo.
La dura crudeltà dei pastori nomadi ebrei si manifesta in storie sul tipo di quella dell’espulsione di Agar, il
diseredamento di Esaù e le torture inflitte al Faraone e ad Abimelech, “anche se le vittime erano senza colpa,
ma solo come conseguenza delle maledizioni dei patriarchi” (3).
Uno dei pezzi più antichi del Vecchio Testamento, la canzone di Debora, scritta verso il 1.150 a.C.
(Giudici, 5), contiene sia l’inclinazione guerriera che il sadismo nella vittoria propri dell’anima orientalide.
Tratti analoghi sono riscontrabili nei traffici di Ehud (Giudici 3,15 segg.), dell’ebrea Jael (Giudici 5, 24-27),
di Gedeone (Giudici 8,18 segg.) e di Jefta (Giudici 11,1 segg.).
L’anima razziale orientalide improntava di sé anche l’idea paleoebraica di come doveva essere un’esistenza
umana felice: era la vita dei pastori nomadi, ricchi di cammelli, bovini e pecore (1), la cui stirpe dominava
vaste zone da pascolo e non sentiva che disprezzo per chi costruisce una casa per sè, raccoglie le messi,
coltiva le viti e beve vino. In compenso i pastori nomadi hanno sempre saputo trarre profitto dalla dedizione
al lavoro delle genti sedentarie; e questo è stato messo in risalto soprattutto da Darré, Das Bauerntum als
Lebensquell der Nordischen Rasse [Il contadinato quale fonte di vita della razza nordica] (1927). Anche gli
ebrei dei tempi dell’immigrazione nel Canaan avevano questa inclinazione a trarre profitto dal lavoro altrui:
” Geova, il tuo dio, ti porterà in questa terra e … te la concederà, una terra dalle città grandi e belle che tu
non hai costruito, con case piene di ogni tipo di ricchezze per le quali tu non hai lavorato, con cisterne
scavate nella roccia che tu non hai scalpellato, con vigne e oliveti che tu non hai piantato: quando ne
mangerai, fa attenzione a non dimenticarti di Geova tuo dio” (5 Mosé 6, 10 e 11).
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Questi caratteri, già nel corso della prima storia ebraica, erano passati in secondo piano rispetto a
caratteristiche di tipo contadino e sono ancora riconoscibili, sia pure in forma indebolita, soltanto presso le
stirpi ebraiche del regno meridionale della Giudea. Ma nel Vecchio Testamento si trova l’ordine di Geova al
popolo ebraico di sterminare gli abitanti di Canaan, e la proibizione a mescolarsi con loro (2), per impedire
che lasciassero il culto di Geova e orientarsi verso gli dèi dei canaaniti. Ma né l’ordine né la proibizione
furono osservati. Moltissimi canaaniti divennero, un poco alla volta, ebrei. Gli edomiti, a voler credere a
quanto è scritto in 5 Mosé 23,7, furono interamente assorbiti dagli ebrei. Gli ammoniti e i moabiti, pure
anch’essi prevalentemente orientalidi, furono invece esclusi (5 Mosé 23,3), ma matrimoni misti singoli ce ne
furono ugualmente.
Come “canaaniti” bisogna immaginare quel miscuglio razziale originatosi in Palestina attraverso le
successive stratificazioni e incroci, dei quali si è trattato nel Cap. II. Il risultato fu la mescolanza di popoli
ebraico-canaanitica che immise nella popolazione ebraica, fino allora prevalentemente orientalide, forti
influssi levantini, e meno forti influssi nordici, necessari comunque alla formazione di una psicologia
collettiva capace di rendere possibile il cambiamento dalla pastorizia all’agricoltura e la conseguente
formazione di uno Stato. L’ebraicità prisca, razzialmente orientalide, inizialmente resistette al cambiamento,
ma alla fine fu completamente scavalcata. Geiger, Urgeschichte und Übersetzung der Bibel [Storia antica e
traduzione della Bibbia], 1928, p. 42 segg., ha messo insieme parecchie testimonianze di come, attraverso la
storia ebraica, ci siano state ripetute mescolanze di popolazione, contro le quali ci fu sempre un’iniziale
resistenza che poi finì per essere superata.
A partire dalle stirpi ebraiche originarie, prevalentemente orientalidi, ne risultò così un popolo misto di
orientalide-levantino-nordico-camitico-negroide.
Sembra che gli immigrati ebraici fossero in media più piccoli dei canaaniti. Questi ultimi avevano una
forte componente levantina, cioé di una razza che in media era di statura più bassa di quella orientalide o del
misto orientalide-camitico, quindi la componente nordica nei canaaniti doveva essere sufficientemente
importante da dare agli immigrati ebraici l’impressione di avere di fronte delle genti alte.
Agli esploratori ebraici che attraversarono il Canaan parecchi canaaniti sembrarono “giganti”, davanti ai
quali essi si sentivano delle “cavallette” (1). Provavano paura davanti a questi “figli di Enoch”, enakim, dei
quali si sente spesso parlare (5 Mosé 13, 29 e 34; % Mosé 9,2; Giosué 13,12). Anche gli alti e forti emim e
sammesumim sono menzionati come abitanti pre-ebraici del Canaan e identificati con gli enakim (5 Mosé 2;
10 e 21). Particolarmente “enochiani” sembrano essere stati gli abitanti della zona di Hebron, sconfitti da
Caleb (4 Mosé 13,23). La leggenda finì per fare di queste popolazioni, dall’alta statura in confronto agli
immigrati ebrei, i rephiam: i “giganti”, che avrebbero popolato il Canaan prima degli ebrei, e che
sicuramente sono stati messi in relazione con i monumenti megalitici della Palestina, visti anche come sedi
di fantasmi di abitanti preistorici. Sayce vede nei rephaim una derivazione degli amoriti; e fa degli enakim,
rephaim e sammesumim ramificazioni della “razza bionda” (1).
Gli immigrati ebrei hanno contribuito molto meno dei già stanziali canaaniti alla strutturazione della
cultura ebraica così come prese forma in Palestina: “La vittoria politica dell’Israele sul Canaan significò che
Israele divenne culturalmente un vassallo di Canaan” (2). Quando i nuovi venuti si mescolarono con la
vecchia popolazione, “i canaaniti furono i maestri e gli ebrei gli scolari” (3). L’integrazione culturale
completa delle due popolazioni prese comunque un paio di secoli. Gli immigrati portarono con sé il culto dei
morti, che comportava la costruzione di tombe di famiglia (4) e i sacrifici agli spiriti dei morti, che
continuarono ad essere praticati, nonostante la loro proibizione, fino a oltre il II secolo d.C. (5). Alle
consuetudini legate al culto dei morti si deve ricondurre tutta una serie di pratiche ebraiche sul tipo di
stracciarsi le vesti, vestirsi con tela di sacco, cospargersi il capo con cenere, strapparsi i capelli, digiunare,
ecc.. L’Arca dell’alleanza, il luogo dove si pensava che Geova fosse fattualmente presente, è qualcosa che
appartiene ai tempi pre-canaanitici, e sembra corrispondere al sacrario di una stirpe di pastori nomadi, come
la tenda-sacrario. Si trattava del “sacrario di una stirpe guerriera nomade” e “non ha niente a che vedere con
la vita sedentaria, ma appartiene al deserto” (6). L’abitudine della circoncisione, originariamente non ebraica
ma mutuata da stirpi nomadi arabe, fu una pratica importata dagli immigrati. In 2 Mosé 4,24 segg. è
dimostrato che gli ebrei la presero dai medianiti. Dal fatto che la prima circoncisione di un ebreo fu portata a
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termine “con un sasso”, si può dedurre che l’adozione di questa pratica, da parte loro, risale alla stessa Età
della pietra.
Una vecchia credenza, propria degli ebrei e di tante altre stirpi semitiche da loro portata in Palestina, fu
quella dei serafini, degli esseri serpentiformi utilizzati da Geova come fulmini.
Il loro tratto culturale più importante, introdotto in Palestina dai pastori nomadi ebrei, fu il culto di Geova.
Questo culto ebbe certamente origine nell’area culturale di alcune delle stirpi di lingua semitica che
vagabondavano nell’area del Sinai. I semiti preistorici devono essere stati politeisti; e come da questo
politeismo si possa essere arrivati al culto particolare di un solo dio (enoteismo ebraico), è un problema non
ancora chiarito. Fu comunque dal Sinai, come conseguenza del genio di uno specifico fondatore di religione,
il leggendario Mosé, che derivò la dottrina secondo la quale Geova sarebbe stato il dio particolare di Israele.
Non dissimilmente da quanto succedeva presso altri popoli, che avevano il loro dio o i loro dei particolari.
Gli ammoniti, per esempio, avevano Kamos. “Non è vero che quando il tuo dio, Kamos, viene scacciato, sei
scacciato anche tu; e che quando Geova, il nostro dio, viene scacciato, siamo scacciati anche noi?” (Giudici
11,24).
Il culto di Geova non è quello di un dio unico o di un solo dio accessibile a tutti gli esseri umani, e che
riassumerebbe in sé tutte le forme religiose. Questo tipo di idee si affacciano per la prima volta verso il 760
a.C. in Amos; poi, in modo poco più evidente, verso il 625 a.C., in Geremia, e infine, in modo alquanto più
esplicito, nel 593 a.C. in Ezechiele. Ma si trattò sempre di opinioni di ebrei singoli, mai condivise dalla
popolazione in generale (1). Questa è una caratteristica di tutti i popoli di razza prevalentemente orientalide
e di lingua semitica, che ha poi improntato la fede degli ebrei che vennero successivamente.
Il loro dio è un dio specifico, e il popolo che lo ha per dio è il suo “popolo eletto”.
Geova, o Jaho, quale nome di un dio, esisteva già nella Babilonia di Hammurabi verso il 2.100 a.C., dove
era usato anche come nome proprio (2). È probabile fosse un nome abbastanza comune, che diverse stirpi di
pastori nomadi di lingua semitica del Sinai davano al dio del temporale o dei vulcani prima che quel
leggendario ebreo dal nome egiziano, Mosé, lo utilizzasse per imbastire e dare forma ad una nuova religione.
“La parte significativa dell’opera di Mosé è che egli fece di ‘dio’ – se così ci si può esprimere – un dio della
storia, legandolo indissolubilmente al popolo di Israele e alle sue vicisittudini” (1). Da questa
rappresentazione del divino, che può essere vista come genericamente orientalide in quanto affiora in molti
popoli diversi, ma prevalentemente in questa razza, proviene l’idea dell’”elezione” del popolo ebraico, così
importante nella vita religiosa degli ebrei di allora e dei loro discendenti ora (2).
Haberlandt, adottando un punto di vista etnologico, parla di come gli ebrei antichi e moderni “abbiano
portato all’estremo quella paranoia, comune fra i popoli semitici, di vedere se stessi come ‘eletti’” (3).
Molti nomi propri ebraici contengono la denominazione sacrale ‘el’. Questa denominazione proviene dai
tempi anteriori alla migrazione in Canaan e, in quanto la troviamo anche fra gli arabi, bisogna pensare che
facesse parte del bagaglio linguistico semitico preistorico. Che gli ebrei, in origine, mettessero il loro dio in
relazione con il deserto, sembra essere testimoniato da diversi passaggi biblici: 2 Mosé 3,18; 8,23 segg.;
18,5-12.
È stato dimostrato storicamente che questi tratti culturali appartenevano agli immigrati. Ma gli ebrei poi
acquisirono dai canaaniti anche tutto un bagaglio culturale addizionale: “Non c’è dubbio che gli israeliti
acquisirono dai canaaniti tutte le modalità della vita organizzata: agricoltura, arte muratoria per la
costruzione di case e templi e per la loro ornamentazione, cantieristica navale, macchine da guerra fino al
carro da guerra falciato, utensili per la coltivazione dei campi che adesso, in Siria, qualche volta conservano
ancora le loro vecchie denominazioni ebraiche; ecc. L’agricoltura portò alla misura dell’anno da autunno ad
autunno … Siccome il culto è in stretta relazione con le pratiche agricole, anche le denominazioni delle feste
agricole (del pane dolce, della falciatura ecc.) provengono da espressioni canaanitiche spesso adottate alla
lettera” (4).
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Proprio quelle feste che a noi sembrano tipicamente ebraiche: la pasqua, la pentecoste, i tabernacoli, la
vendemmia, hanno un’origine agraria canaanita; mentre la festa del ‘passah’ era invece propria dei pastori
nomadi ebraici e consisteva in una conferma del patto fra il dio tribale Geova e la sua tribù, Israele. Ai
canaaniti gli ebrei tolsero città vecchie e fortificate, fra le quali Urusalimu (Gerusalemme) che già nel 1.400
a.C. era un centro politico importante; venendo così a conoscere le tecniche architettoniche, ma non al punto
che Salomone (verso il 972 – 933 a.C.) non si vedesse costretto a contrattare architetti fenici per costruire il
suo tempio, e metallurgici di Tiro per la fabbricazione degli arredi.
Anche l’osservanza del sabato fu mutuata dai canaaniti, osservanza che ancor prima era praticata a
Babilonia. Pure l’arte della guerra (strategia) è qualcosa che gli ebrei impararono dai canaaniti. Anche se,
come genti prevalentemente orientalidi, essi non avevano mai difettato di doti guerriere, la loro condotta non
aveva conosciuta altra modalità che l’attacco di sorpresa, e questo sembra confermato in Giudici 3,2.
L’organizzazione di un esercito addestrato fu importata più tardi dai filistei.
I canaaniti rendevano culto a diverse presenze naturali. Fonti, pietre, fra le quali i megaliti di cui si è detto,
e alberi erano per loro, a quanto sembra, luoghi di culto. Geremia, ancora nel VII secolo a.C., attacca il culto
di pietre e di alberi (1).
Sembra che immagini di vitelli e serpenti fossero oggetto di culto da parte di stirpi canaanite, ed altre stirpi
di lingua semitica ad essi imparentate. Nei boschi, abbondanti nella Palestina arcaica, i canaaniti
presumevano l’immanenza di esseri spirituali legati alla natura: gli elohim (2) o bealim. L’insieme di questi
esseri, immaginato come una singola forza sovrannaturale, veniva a costituire il dio Baal, che agli immigrati
ebrei dovette sembrare il nemico per eccellenza del loro dio Geova; e questo, ancora nel IX secolo a.C., è il
soggetto della lotta fra il profeta Elia con i sacerdoti di Baal. Il contrasto fra l’idea del sovrannaturale di
genti prevalentemente orientalidi, e quella di genti miste levantino-orientalide-nordiche, traspare anche
nell’opposizione fra i due autori principali dei “cinque libri di Mosé”: i “geovisti”, la cui simpatia è per le
stirpi meridionali, e gli “elohisti”, la cui simpatia è per le stirpi ebraiche settentrionali (3).
Geova, dio rappresentativo della forma animica della razza orientalide, è severo, razionale, vendicativo. In
Canaan esso si trovò di fronte a un dio dello sfaldamento entusiastico, del potenziamento gioioso dei sensi
fino all’estasi, della crescita e della fertilità, il cui culto era accompagnato da abbondanti libagioni. Si
trattava di un dio corrispondente all’anima razziale levantina e al quale, forse, non mancavano anche tratti
riscontrabili nelle divinità agrarie dei popoli indogermanici di razza nordica come, per esempio, ci appaiono
certe divinità dei primissimi romani.
Questi due dei finirono per combinarsi quando le due popolazioni si incrociarono. Geova fu adorato in
luoghi dove prima era stato adorato Baal, e il vino si mise a scorrere anche nelle feste cultuali di Geova,
cosa che aveva già suscitato l’orrore dei primi gruppi ebraici di pastori nomadi e che poi lo susciterà anche
nei pastori nomadi arabi islamizzati. Né, in occasioni del genere, mancarono le ragazze ebree che si
concedevano ai sacerdoti di Geova, e neppure fenomeni di prostituzione sacra, sempre riscontrabili fra
popolazioni prevalentemente levantine (cfr. più sopra). La prostituzione nel tempio di Gerusalemme è
testimoniata in 1 Samuele 2,22 e 2 Re 23,7.
Anche non pochi profeti ebraici rivelano segni psicologici di tipo levantino. Nella razza levantina c’è una
tendenza al protagonismo, rafforzata dall’amplificazione autocentrica dei sentimenti propria di questa razza
(cfr. più sopra). Questo tipo di possibilità tipiche dell’anima levantina spiega il comportamento degli
“estatici” fra i profeti, i nebiim, santi fanatici e impazziti, spesso riuniti in gruppi, che proclamavano le loro
storie in stato di trance indotto da musica e danza. Può darsi che a queste fenomenologie abbia contribuito
un influsso orientalide, quello del “tipo della chiamata/vocazione”, tipo che ha la tendenza ad esplosioni
passionali incontrollate dopo un periodo di tetra calma. I profeti ebraici spiritualmente più potenti, che sono
anche quelli che hanno lasciato la maggior parte delle testimonianze scritte nel Vecchio Testamento, per
esempio Isaia e Geremia, non furono, di massima, nabiim, anche se occasionalmente rivelano tratti analoghi.
Le notizie che si hanno di loro, per esempio Nataniele ed Elia, sono state trasmesse soprattutto sotto forma
di racconti; fra questi, con molta probabilità, deve essere classificato anche Giovanni il Battista.
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C’è stato chi ha creduto di vedere, nella vita spirituale dei primi ebrei, qualche tratto nordico
(”indogermanico”, “ariano”). Meinhold (1) indica che il racconto veterotestamentario del paradiso terrestre
contiene due indirizzi immaginativi diversi: uno proprio dei pastori nomadi, e un altro proprio delle genti
contadine. Fra questi ultimi sta quello secondo cui Geova abiterebbe una montagna posta a Nord (2). La
saga babilonese conosce una montagna sacra posta a Est; di sedi divine poste a Nord parlano invece le
leggende indiane, persiane e romane, quindi tre popoli di lingua indogermanica e di origini nordiche. Anche
Beer (3) presume che gli ebrei abbiano acquisito queste idee dall’”arianità”; e, a sostegno di questo
presupposto (Beer, cit., p. 8) cita il fatto che, ai tempi delle loro monarchie, essi si misero a chiamare Geova
“padre”. Bertholet (4) ha indicato che gli amoriti della Palestina invocavano il loro dio con l’appellativo di
“padre” oppure di “fratello”. Queste influenze nordiche antiche sulla cultura ebraica devono essere distinte
da altre, posteriori, che l’ebraicità assorbì durante la “cattività di Babilonia” (596/586 – 538) come
conseguenza di contatti con i persiani: per esempio la dottrina di un futuro portatore di salute, il persiano
Saosjant, e da altre ancora di origine ellenistica le quali, anche se essenzialmente di spirito levantino,
portavano comunque messaggi ellenico-nordici.
L’anima orientalide dell’ebraismo si ribellò per lungo tempo a queste penetrazioni esogene: “così possiamo
vedere come, poco dopo l’immigrazione in Palestina, il sangue nomade si ribella in Israele e apprendiamo …
che proprio la stirpe dei ceniti, con i quali Mosé aveva stabilito rapporti di parentela, non riesce a decidersi
per la vita sedentaria e rimane nomade; mentre degli importanti gruppi sacerdotali, come i nasirei, si
astennero dal vino per tutta la vita”. “Cento anni prima di Amos abbiamo notizia della setta dei recabiti
rimasti fedeli alla vita nomade; rifiutavano il vino e si erano dati entusiasticamente a combattere, quali
adoratori di Geova, contro il culto di Baal introdotto da Isabel (2 Re 10,15 segg.). Circa 100 anni dopo
Amos il profeta Geremia tentò, senza successo, di convincerli a bere vino, salvo poi indicarli al popolo
d’Israele come esempio di fedeltà ai costumi dei loro antenati (Geremia 35)” (1).
I pastori nomadi ebraici si intrattennero soprattutto nelle terre a Est del Giordano e nel Sud del regno di
Giuda. La maggior parte della popolazione era composta da agricoltori, certo non per “cambiamento di
professione”, come una volta fu detto, ma come conseguenza della mescolanza con i canaaniti levantinoorientalide-
nordici, mescolanza che dovette indebolire considerevolmente il carattere orientalide originario
del popolo ebraico. A quel punto, per la maggioranza degli ebrei, il fare la vita del pastore nomade dovette
sembrare quasi una disgrazia.
Il contrasto fra l’anima razziale orientalide degli ebrei e gli influssi non-orientalidi acquisiti in Canaan
viene ad essere, probabilmente, anche la causa principale dello scarso senso di unità nella popolazione in
generale, che portò poi alla divisione nei due regni di Giuda e di Israele.
Bisogna ricordare che la conquista di Israele da parte di stirpi ebraiche avvenne da Nord e da Est; quella di
Giuda, da parte di altre stirpi ebree, da Sud (cfr. più sopra). Il regno del Nord, Israele, era molto più fondato
sulla cultura canaanita che non quello di Giuda. Questo lo afferma anche Kittel (2).Nel regno di Israele si
affermò molto di più uno spirito levantino- nordico; fu lì che insorse la maggior parte dei profeti, e dove,
ogni tanto, si incontrano anche tratti di nobile magnanimità.
Nel regno di Israele predominava invece l’”ideale del nomadismo”, come dice Meyer (3),e lì venne a
formarsi una casta sacerdotale che si arrogò una stretta ed esclusiva sorveglianza su tutta la vita religiosa.
Ancora oggi si possono percepire certi contrasti fra gli arabi del Nord e del Sud, che probabilmente
corrispondono a contapposizioni animiche dovute a composizione razziale diversa.
L’unificazione dell’insieme ebraico, portata a termine da Davide partendo dalla Giudea, a lui sottomessa, e
i cui vantaggi furono goduti soprattutto da Salomone, si rivelò instabile già poco dopo la morte di Salomone
(933 a.C.), il cui regno si divise in un regno del Nord, Israele, che si mantenne fino al 722 a.C., e un regno
del Sud, Giuda, che si disfece nel 587 a.C. I “pastori di Giuda” facevano tanto poco parte di uno stato
unitario quanto i “contadini di Efraim” (Kittel, p. 217). Questi due tronconi non sentivano alcuna
appartenenza ad uno Stato unitario. Ai tempi di Salomone, a Gerusalemme si era formata una classe di ricchi
finanzieri costituita probabilmente da elementi razzialmente levantini, e questo in ragione della già
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menzionata particolare abilità di quel tipo razziale per le operazioni commercial. Fu questa ricchezza in
denaro (il culto di “Mammona”, tanto per usare una terminologia tratta dal Nuovo Testamento) che fu
sempre attaccata dai profeti, in quanto si accompagnava ad ogni tipo di vessazioni contro i poveri, le
vedove, gli orfani, con la conseguente disonestà e distorsione del diritto. Ma tutto il territorio finì
comunque per essere dominato da questi finanzieri i quali, con l’acquisto di vasti latifondi, contribuirono
non tanto al consolidamento, ma piuttosto alla dissoluzione dello Stato e del popolo ebraico: “Guai a coloro
che costruiscono una casa addosso all’altra e che accostano un campo all’altro finchè non c’è più spazio, e
che ora sono diventati i padroni del territorio” (Isaia 5,8). Le vecchie abitudini furono dimenticate dopo
Salomone; l’antica semplicità scomparve e oltre alla divisione politica fra Nord e Sud: Israele e Giuda,
subentrò anche la separazione sociale fra ricchi e poveri.
L’opposizione fra Israele e Giuda si acuì anche in ragione delle contrapposizioni, dovute a diverse
psicologie razziali, delle idee religiose. Nell’immaginario religioso di Israele erano penetrati tratti propri
degli elohim (se ne è parlato più sopra). Nella Giudea invece si stabilizzò l’idea di Geova caratteristica
dell’anima razziale orientalide (1): una rappresentazione della divinità che per chiunque non appartenga a
quella razza non può non sembrare gretta e rigida.
La maggiore mescolanza razziale di Israele, in confronto a Giuda ancora prevalentemente orientalide,
forse si rivela anche attraverso la sua storia interna molto più instabile, con frequenti sostituzioni di re, e dal
fatto che in Israele spesso, dalle classi inferiori, emersero possenti personalità che arricchirono la religione
ebraica di nuovi pensieri e la sospinsero a nuovi sviluppi (1).
I sentimenti della razza orientalide si affermarono nell’ebraicità anche nel fatto che il maiale fu dichiarato
impuro e portatore di impurità. Darré (2) ha indicato che il maiale, un animale originario dalle zone boscose
e umide dell’Europa centrale e settentrionale e lì addomesticato per la prima volta, è un animale domestico
indicatore dei luoghi raggiunti dalle ondate di popolazioni di lingua indogermanica. Nel contempo
presume che gli orientalidi (i “semiti”) abbiano sempre rifiutato il maiale perché la fisiologia della loro
digestione sarebbe diversa da quella nordica, perciò la carne suina per loro risulterebbe dannosa. Non fu se
non più tardi che il commercio di maiali, come conseguenza di contatto con raggruppamenti non semitici,
indusse alcune stirpi di lingua semitica a praticarne un limitato allevamento.
Invece il rifiuto del cavallo non si perpetuò fra gli ebrei. Questo animale arrivò assieme a diverse ondate di
popolazione di lingua indogermanica e di razza prevalentemente nordica, provenienti dall’Europa centrale
attraverso i Balcani, in Asia Minore e poi nel Medio Oriente (3), per raggiungere la Palestina con gli ittiti o
gli amoriti (a quanto si può presumere da Giosué 11, 3-9). Nel Medio Oriente erano autottoni il cammello e
l’asino. I popoli di quelle zone conoscevano il cammello e l’asino ancora nella preistoria e se ne parla nel
Vecchio Testamento. Il cavallo, invece, non lo metteva a profitto neppure Davide; egli infatti fece tagliare i
garretti ai cavalli dei 1.700 cavalieri del re di Zoba (a Sud di Damasco), esattamente come circa duecento
anni prima aveva fatto Giosué con i cavalli degli eserciti canaaniti (4).
A voler credere a 1 Re 10,25 e 26, Salomone fu il primo a possedere carri da guerra (Fig. 148) trainati da
cavalli e forse, volendo dare valore storico a quanto dice lo storico ebreo Josephus (sul quale si ritornerà più
avanti) anche un maneggio con cavalli da cavalcatura. Isaia 2,6 e 7, nell’VIII secolo, e Zaccaria 9,9 e 10,
ancora nel VI secolo, si esprimono contro l’abitudine dei re di viaggiare su carri trainati da cavalli; e
Zaccaria raccomanda di cavalcare un asino.
In questo modo, anche la contrapposizione e la mescolanza delle diverse tendenze culturali può essere
fatta derivare dalla mescolanza di popoli e razze. La presenza di una parola particolare nel vocabolario
giudaico per indicare il figlio di un matrimonio misto ebraico-non ebraico, la parola mamser (1) usata spesso
nel Vecchio Testamento e nel Talmud, può essere un indicatore del fatto che quegli incroci dovevano essere
molto frequenti. Un paragrafo di Giosué 16,10 parla esplicitamente di una popolazione canaanita che si
sarebbe perpetuata in Palestina. Nelle terre a Est del Giordano le popolazioni che si fusero con gli ebrei
sembrerebbero essere state soprattutto aramei; a Ovest del Giordano, amoriti.
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Fra i guerrieri di Davide si sente menzionare un ittita, certo Abimelech (1 Samuele 26,6). Uria, uno degli
ufficiali di Davide, sposato con l’ebrea Bathsabea (2 Samuele 11,3), era pure ittita. Egli è descritto come un
uomo dallo spirito guerriero, dalla forte volontà, ligio al dovere e dalle abitudini semplici. In lui si può
probabilmente scorgere un rappresentante della classe dominante ittita a predominanza nordica. Il suo nome
era, presumibilmente, di uso corrente fra gli antichi mitanni (2).
È diffile quantificare quante stirpi amorite e ittite hanno contribuito alla costituzione del popolo ebraico; ma
certamente non furono poche, a giudicare da quanto Ezechiele (16,3) ebbe a dichiarare nel 593 a.C.: “La tua
origine e i tuoi antenati provengono dalla terra dei canaaniti: tuo padre era amorita e tua madre ittita”. Fra gli
ufficiali di Davide stavano anche un ammonita, un arabo e un siro (3).
Molte delle mogli di Salomone e di Davide erano di origine straniera (4). Nel libro di Ruth, la moabita
Ruth è classificata fra gli antenati di Davide. Fra le mogli di Salomone (oltre 1.000, a quanto è stato detto)
c’erano, oltre a moabite, anche ammonite, edomite e sidonite, quindi appartenenti a popolazioni molto vicine
a quella ebraica, poi una egiziana e diverse ittite. Il metallurgo Iram aveva per padre un uomo di Tiro e per
madre un’ebrea (2 Cronache 2,14).
Questa citazione di Ezechiele lascia presupporre che non pochi amoriti erano confluiti nelle stirpi
ebraiche. Sembra che anche i gibeoniti siano stati assorbiti dagli ebrei (1), nonostante che, secondo Samuele
(2 Samuele 21,2), essi fossero “non figli di Israele ma resti degli amoriti”, ai quali Davide consegnò sette
discendenti di Saulo perché fossero giustiziati. Essi dovettero trasmettere agli ebrei, assieme ad altre stirpi
amorite, quei tratti somatici che Amos (2,9) lodava ancora nel 760 a.C. paragonandoli per la loro altezza ai
cedri e per la loro forza alle querce. Bisogna supporre che attraverso queste e altre mescolanze gli ebrei, nei
loro primi tempi nel Canaan, ricevettero influssi nordici suffficientemente importanti da renderli molto
simili agli amoriti, almeno secondo certe raffigurazioni egiziane. Questo lo afferma anche Petrie: “Le
rappresentazioni delle classi superiori delle città ebraiche dei tempi di Schischak, coincidono con quelle di
siri e amoriti” (2). Le classi guerriere e dirigenti ebraiche dell’VIII secolo a.C. dovevano possedere ancora un
forte contenuto nordico. I più distinti fra gli ebrei sono descritti, ancora verso il 580 a.C., come
prevalentemente nordici. Su questo si ritornerà più avanti.
Non è chiaro a quali processi storici si riferisse Ezechiele (16,26-29; 23,5-17) quando accusava i suoi
corrreligionari di avere “praticato il meretricio” con i “figli dell’Egitto” con “quelli dell’Assiria” e da
“Canaan fino alla Caldea”. Egli potrebbe riferirsi allo scambio, per lui esiziale, di tratti culturali, ma forse
anche a svariate mescolanze di popoli.
Anche la lingua ebraica lascia intravvedere una certa misura di mescolanza razziale. Già nei suoi primi
documenti scritti, essa non si presenta come una lingua di spirito semitico puro, almeno facendo il confronto
con l’arabo “classico”, che sembra essere la migliore approssimazione linguistica allo spirito orientalide.
Bergsträsser, a proposito dell’ebraico, dice: “L’ebraico è una lingua ricca di ombre e di colori, molto
appropriata per l’espressione di esperienze forti ma anche per le descrizioni vivide e i racconti obiettivi;
senza però mai raggiungere un alto grado di profondità di pensiero. È una lingua per poeti e profeti, non per
pensatori” (1). Si faccia il confronto fra questa caratterizzazione della lingua ebraica con quella che il
medesimo Bergsträsser (p. 80) fa della lingua araba; viene subito il sospetto che l’ebraico sia stato
modificato dall’anima razziale levantina, fra le cui caratteristiche sta quella di esagerare i sentimenti e una
spiccata tendenza al protagonismo, oltre alle altre di cui si è già parlato. Se gli ebrei fossero rimasti
orientalidi puri, è probabile che anche la lingua ebraica avrebbe conservato quel carattere di praticità che
Bergsträsser dice essere peculiare all’arabo.
Nel corso dei secoli precristiani gli ebrei smisero di parlare in ebraico e adottarono l’aramaico, ad esso
strettamente imparentato. Già nei secoli VIII e VII a.C. l’aramaico era diventato la lingua di uso corrente in
tutto il Medio Oriente, funzione per la quale era particolarmente appropriata vista la sua struttura fortemente
semplificata (1). Gli ebrei usarono ambedue le lingue in parallelo per molto tempo, ma l’ebraico divenne un
poco alla volta sempre più una lingua solo liturgica. Le parole, attribuite a Gesù, conservate nel Nuovo
Testamento (Marco 5,41; 7,34; 15,34), sono aramaiche. Ai tempi di Gesù l’ebraico era già diventato una
lingua per eruditi, appresa soltanto dagli scribi. L’aramaico (2), in ragione della sua struttura semplice e
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ancora più per il fatto di aver perduto alcuni suoni tipicamente semitici di tipo gutturale, si rivelò già allora
come una lingua di genti razzialmente miste, dove il contenuto orientalide si era già indebolito.
La mescolanza con schiavi e liberti sarà discussa più avanti, quando si considererà la possibilità di influssi
negroidi. Qui si darà un breve riassunto delle vedute ebraiche sull’eugenetica e l’igiene razziale.
Al popolo ebreo fu imposto di “essere fecondo e di aumentare il proprio numero” (1 Mosé 1,28); e gli fu
spesso ricordato che se avesse rispettato le imposizioni di Geova, non esclusa quella della fecondità, esso
sarebbe aumentato “all’infinito” (3). Presso gli ebrei, o per lo meno fra i più potenti e abbienti, avere una
famiglia numerosa era facilitato dalla poligamia, allora praticata, e dall’ordinamento patriarcale della
famiglia ebraica (cfr. più sopra). Le ebree libere, che un ebreo si era comprato con mire matrimoniali,
avevano tutte gli stessi diritti. Assieme a loro l’ebreo poteva avere un numero qualsiasi di concubine non
libere, i cui figli comunque potevano essere classificati come appartenenti alla famiglia nel suo insieme.
Questa accettazione di figli di madri non libere, ma anche la prolificità di tante famiglie ebraiche, è
menzionata in 1 Mosé 30,1-24. Una donna che avesse molti figli godeva di notevole prestigio sociale, come
è indicato in 1 Mosé 24,60. Un certo Gedeone aveva 70 figli (Giudici 8,30) e la prolificità di Davide e di
Salomone sono state rese note dai racconti veterotestamentari. La poligamia, che rendeva possibile quella
prolificità, fu praticata dagli ebrei fino a Medioevo inoltrato.
Il Talmud consiglia i matrimoni giovani; sia maschi che femmine dovrebbero sposarsi appena arrivati a
maturità sessuale. Il Vecchio Testamento condanna l’uccisione, l’esposizione e la vendita di bambini. Gli
ebrei, come gli arabi, praticavano il cosiddetto matrimonio per levirato. Se qualcuno moriva senza lasciare
figli, suo fratello doveva sposarne la vedova, e il figlio primogenito di questo nuovo matrimonio era
considerato figlio del defunto per quel che riguardava sia il nome che i diritti all’eredità. Livi (1) ha fatto
qualche calcolo approssimato della consistenza numerica ebraica in diversi tempi storici:
Ai tempi di Mosé ……………………. 2.760.000
Ai tempi di Davide ………………….. 6.275.000
Ai tempi di Gesù Cristo ……………… 5.000.000
Ma gli ebrei si preoccupavano non solo della quantità ma anche della qualità della loro discendenza. Nel
vecchio Testamento (3 Mosé 21,17) sono indicati una serie di difetti fisici che precludevano il sacerdozio.
Nel Talmud (se ne riparlerà al Cap. VI) sono enumerati 417 difetti del genere. È probabile che alcuni di quei
difetti pregiudicassero le scelte matrimoniali e la fondazione di una famiglia. La legge ebraica antica
proibiva i matrimoni con donne epilettiche o lebbrose. Chi avesse convissuto in matrimonio con una donna
senza avere figli per dieci anni doveva, secondo il Talmud, separarsi da lei e sposarne un’altra (1). Il Talmud
indica che i rabbini potevano vietare il matrimonio a persone che avessero tare ereditarie, per esempio agli
epilettici, che potevano annullare i matrimoni sterili e che combattevano, con successo a quanto sembra,
l’ubriachezza in quanto causa di danni genetici. Secondo Grotjahn-Kaup (2) nel Talmud si parla anche di
bambini degenerati “che avrebbero dovuto essere uccisi ancora piccoli”, il che sembra indicare che anche
nel popolo ebraico c’era una certa attenzione per la selezione biologica.
Presso gli ebrei, anticamente, erano frequenti i matrimoni fra parenti; “fra i patriarchi, i connubi fra parenti
stretti erano caratteristici” (3) e anche i matrimoni fra fratello e sorella, tutti successivamente interdetti (4),
ma che, a quanto sembra, continuarono ad essere praticati anche parecchio tempo dopo la proibizione (cfr.
Ezechiele 22; 10 e 11). Ciò portò inevitabilmente ad una certa riproduzione fra consanguinei. Questo,
attraverso le generazioni, deve avere causato, in alcuni casati, ma difficilmente nella popolazione in
generale, l’accumularsi di tratti ereditari recessivi di tipo teratologico che, in genere, si saranno manifestati
in certi individui portandoli a morte prima di avere raggiunto la maturità sessuale. La scomparsa di casati
interi come conseguenza di matrimoni fra consanguinei, in passato era molto più frequente rispetto ad oggi,
dove i diversi tipi di cure possono far sopravvivere anche quelli colpiti da simili mali.
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Anche la relativamente vasta diffusione della lebbra potrebbe indicare che fra gli ebrei ci fu
un’importante accumulazione di tratti ereditari teratologici come conseguenza di matrimoni fra
consanguinei. La lebbra palestinese infatti (greco lepra) sembra diffondersi meno per contagio che per
ereditarietà. Diversi ricercatori hanno concluso addirittura che essa si diffonde solo per ereditarietà;
viceversa ci sono stati molti casi di contagio del tutto documentati, ma anche casi nei quali non ci fu
contagio, nonostante una convivenza prolungata. In ogni caso si può essere sicuri che un lebbroso deve
aspettarsi che i suoi discendenti, presto o tardi, diventeranno anch’essi lebbrosi. I popoli del Medio Oriente
vedevano negli ebrei, fino all’inizio del Medioevo, i principali diffusori di lebbra, il che significa che fra loro
i lebbrosi dovevano essere una proporzione relativamente alta.
V. INCROCI DI POPOLI E RAZZE IN PALESTINA DOPO LA
COLONIZZAZIONE EBRAICA
I documenti egiziani ci dicono che ai tempi dei faraoni Merneptah (1.233 – 1.227 a.C.) e Ramsete III
(1.180 – 1.150 a.C.), le zone costiere del Mediterraneo orientale furono messe a soqquadro dai “popoli del
mare”. Ramsete III combatté contro alcuni di loro nelle terre libanesi. Questi “popoli del mare” sembra
fossero prevalentemente di lingua indogermanica e di razza nordica. Gli akaiuascha e i donauna, classificati
dagli egiziani come popoli del mare, sembrerebbero spezzoni delle stirpi elleniche degli achei e dei danai
che erano calati in Grecia fra il 1.400 e il 1.300 a.C. Fra i popoli del mare gli egiziani ne contavano anche un
altro, che chimavano i puraschati o purschati, i quali, siccome gli egiziani tendevano a sostituire la l, per loro
impronunciabile, con una r, probabilmente si chiamavano ‘pulaschati’. Forse si tratta della stessa popolazione
che gli assiri chiamavano pilaschti e gli ebrei pelischti: i filistei.
Il nome greco della Palestina: Palaistina, il Canaan degli ebrei, deriva dal nome di questi popoli. ‘Palestina’
significa ‘terra dei filistei’.
a) I filistei
I filistei possono essere rintracciati sino alle loro sedi originarie nell’angolo sud-occidentale dell’Asia
Minore. Sembrerebbe si sia trattato di ondate di popolazioni di razza nordica, non dissimili da traci e frigi,
anch’essi prevalentemente nordici, che scossero il regno ittita verso il 1.200 a.C., o di achei e dori elleni che,
provenienti dal basso Danubio, penetrarono poi in Asia Minore circa un secolo dopo. Bisogna immaginare la
lingua primitiva dei filistei come indogermanica, probabilmente simile al greco. Storicamente vengono
riconosciuti per la prima volta come un popolo di lingua semitica e, razzialmente, come popolazione
prevalentemente orientalide con una classe dirigente nordica. Nel composto razziale filisteo è probabile ci
fosse anche un’importante componente occidentale (mediterranea). Oggi è molto difficile determinare in
quale zona geografica ebbe luogo quella stratificazione fra popolazione orientalide-mediterranea e una
classe dirigente prevalentemente nordica che diede poi origine ai filistei.
Verso il 1.400 a.C. forse attaccarono via mare l’isola di Creta e, attorno a quella stessa data, marciarono
attraverso il Tauro fino in Siria, per poi procedere, come tutte le altre stirpi di razza nordica, in cerca di terra
coltivabile accompagnati dalle donne e dai bambini su carri trainati da buoi, insieme a tutti i loro beni
mobili. L’arrivo in Palestina può essere posto attorno al 1.200 a.C., in coincidenza con la penetrazione delle
ultime stirpi ebraiche. Verso il 1.050 a.C., cioé ai tempi dei regni di Saulo e Davide, la zona costiera della
Palestina, dal Carmelo a Nord fino a Gaza a Sud, era occupata dai filistei; fu allora che cominciarono gli
scontri con gli ebrei. Il Vecchio Testamento menziona (1 Mosé 10,14), nel IX secolo a.C., che ‘Kaphtor’ era
la terra d’origine dei filistei. Il profeta Amos (9,7) parla, verso il 760 a.C., di ‘Kaphtor’, cioé Creta, come
terra dei filistei. Sembra che Blaufuss sia riuscito a leggere e a capire la lingua semitica dei filistei, ma la
sede originaria dei ‘kaphoriti’, che avrebbe dovuto essere Creta, secondo le iscrizioni di Blaufuss sarebbe
invece stata la penisola del Sinai, da dove sarebbero poi arrivati nella zona di Gaza e da lì, via mare, fino a
Creta (1). Se le iscrizioni in questione dovessero essere veramente opera di una stirpe filistea, bisognerebbe
comunque cercare il loro Urheimat [terra d'origine], o almeno la terra d’origine della loro classe dirigente,
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nell’ambito del Mare Egeo. Questo è inevitabile quando si considerano le descrizioni e la qualità degli
utensili, dei vasi e delle armi filistee che sono state ritrovate. “La loro ceramica, quella di Geser, è una forma
micenea degenerata. Anche l’armatura di Golia, i suoi gambali, il suo elmo, e la sua ricerca della tenzone
singolare, che per gli ebrei era tanto spaventosamente incomprensibile, corrisponde alla personalità degli
eroi omerici” (2). Queste caratteristiche sono enfatizzate sia da Schuchhardt che da Macalister (3).
I filistei, come tutte le altre popolazioni di razza nordica arrivate nel Medio Oriente (vedi più sopra),
conoscevano bene il cavallo, sia come animale da tiro, per il carro da guerra, che come animale da
cavalcatura (1). Sembra anche probabile che siano stati i filistei ad inventare la scrittura letterale (al posto di
quella geroglifica o sillabica). Macalister (cit., p. 130) indica che difficilmente si può sostenere che sia
esistito un “alfabeto arcaico” fenicio dal quale possano derivare tutti gli alfabeti semiti meridionali,
nordafricani, asiatici occidentali, ellenici e italici e dunque anche quelli occidentali moderni. Si dovrebbe
invece presupporre l’esistenza di tutta una serie di modalità di scrittura imparentate derivanti da una delle
scritture sacrali (hyerogliphic syllabaries) della zona attorno al Mare Egeo. Una di queste modalità di
scrittura sarebbe stata trasmessa ai fenici dai filistei. I nostri alfabeti, perciò, potrebbero essere di origine
filistea.
Sembra che fossero un popolo molto dotato. Anche la storia di Sansone descrive una cultura filistea ricca e
varia, dalla quale gli ebrei ebbero molto da imparare. Come era la regola fra le stirpi di origine nordica,
anche i filistei avevano un ordine statale e un esercito bene addestrato. Proprio l’esercito filisteo servì agli
ebrei come modello. Combattendo contro di loro, così dice Macalister (cit., p. 130), gli ebrei impararono
tante cose che alla loro cultura mancavano, e conobbero anche il valore di una unità statale (learned their
own essential unity). A voler credere a 1 Samuele 13, 19-22, sembra che gli ebrei avessero acquisito dai
filistei l’arte di estrarre e lavorare il ferro. Ma essi erano arrivati in Canaan armati di armi di bronzo.
Le raffigurazioni egiziane ci mostrano i filistei come genti alte e magre, con teste abbastanza allungate e
dei visi di tipo palesemente nordico, facilmente riconoscibile perchè si radevano la barba. I capelli erano
tagliati corti, portavano in testa cappelli ornati di piume oppure una specie di elmo ornato di pennacchi a
pettine, e si proteggevano con uno scudo di tipo centroeuropeo. Il “gigante” Golia era probabilmente tanto
rappresentativo della nobiltà filistea quanto lo potevano essere i quattro “giganti” filistei menzionati in 2
Samuele 21, 15-22.
Si trattava di “giganti” prevalentemente nordici alla testa di uno stato maggiore orientalide-occidentale; e
questo poteva far sì che l’aspetto dell’esercito filisteo incutesse terrore a stirpi in cui la componente nordica
era più debole. Dopo che il “gigante” Golia, esattamente come gli eroi delle saghe e della storia indiana,
persiana, ellenica, romana, celtica e germanica, era uscito dai ranghi per sfidare il capo dei nemici a singolar
tenzone, pensando che anche quello fosse animato dalla sua stessa etica guerriera, fu colpito a morte dal
sasso scagliato da lontano da un ebreo: il giovane Davide, almeno a quanto si racconta.
Stähelin riassume le caratteristiche del popolo filisteo come segue: “Audacia gioconda, sensibilità
intellettuale e volontà di accettare ogni contributo culturale superiore: ecco la natura dei filistei” (1). Io
credo di vedere qui l’effetto di un forte e duraturo influsso nordico, poi rimasto appannaggio delle città
filistee della Palestina sud-occidentale nei tempi ellenistici, che avevano acquisito anche molto dello spirito
greco antico. Stark ha dimostrato che nelle città che erano state filistee c’era una vita culturale
particolarmente vivace (2). Sotto gli imperatori d’Oriente Anastasio e Giustiniano (secolo VI d.C.), a Gaza
c’era una famosa scuola di retorica e filosofia. Gli ebrei, invece, nei tempi ellenistici, avevano sviluppato una
particolare ripugnanza per la cultura greca, anche se a quei tempi essa era già stata fortemente alterata da
influenze levantine.
I discendenti attuali dei filistei sembrerebbero aver perduto del tutto il loro contenuto nordico. Sayce però
ci informa che nella zona costiera a Sud di Gaza è ancora percepibile una leggera impronta nordica, molto
più che nel resto della Palestina (3).
Dopo che gli ebrei, uniti e rafforzati sotto Davide (circa 1.011 – 972), riuscirono a far retrocedere e ad
indebolire politicamente i filistei, tra i due popoli cominciò una mescolanza più o meno pacifica. La storia di
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Sansone dimostra quanto certe giovani filistee potessero sembrare interessanti agli ebrei, ma descrive anche
la resistenza dei genitori di Sansone contro la nuora filistea; il che lascia supporre che molti ebrei fossero
contrari a queste unioni miste (4). Già Davide aveva una guardia del corpo filistea: i ‘kreti’ e ‘plehti’; cioé
mercenari provenienti da Creta e appartenenti al popolo dei ‘pelischti’. Questi “kreti e plehti” (2 Samuele
8,18; 15,18) fanno venire in mente i mercenari libici dei re egiziani (vedi più sopra), nonchè tanti altri
mercenari di origine nordica che tanta parte ebbero nella storia delle nazioni d’Europa e dell’Asia. Nello
stesso modo che alcuni libici divennero ufficiali d’alto rango nell’esercito egiziano, anche il filisteo Ithai
divenne ufficiale nell’esercito di Davide (2 Samuele 15,19; 18,2); egli comandava un terzo dell’esercito
ebraico (1).
Le sue parole coraggiose, riportate in 2 Samuele 15,21, sono tipiche del dovere di fedeltà che i nordici
sentivano verso i superiori da loro liberamente scelti; una fedeltà che non di rado aveva conseguenze
negative per il loro proprio popolo. Si è tentati di percepire il suono della fedeltà nordica nelle parole di
Ithai; e se ciò fosse il caso, sarebbero le prime parole pronunciate da un uomo prevalentemente nordico delle
quali si ha notizia storica: “Come è vero che Geova vive e come è vero che il mio re e signore vive, nel
luogo dove sarà il mio re e signore, per morire o per vivere, là sarà anche il suo servitore”.
La mescolanza con i filistei non poteva costituire, per gli ebrei, un importante cambiamento nella loro
composizione razziale, in quanto gli uni e gli altri erano composti razziali affini, anche se l’influsso nordico
nei filistei era probabilmente più forte che negli ebrei. Al massimo, la mescolanza poté rafforzare un poco il
contenuto nordico degli ebrei.
b) Cimmeri e sciti
Le scorrerie dei cimmeri e degli sciti, tra la fine del secolo VII e gli inizi del secolo VI a.C., veicolarono
un leggero rafforzamento dell’influsso nordico (comunque poco importante) nel popolo ebraico.
Dall’Armenia e dalla costa orientale del Mar Nero (2), raggruppamenti cimmeri, di sangue nordico, si
riversarono in Asia Minore verso la fine del secolo VIII. Si trattava dei gômer, menzionati da Ezechiele
(38,6) nel VI secolo a.C., attivi conquistatori ai quali alludeva probabilmente Geremia (47,2) già nel VII
secolo a.C. I cimmeri sospinsero gli sciti, anch’essi peraltro nordici. Alcune stirpi scitiche destabilizzarono
verso il 700 a.C. i confini settentrionali dell’Assiria. Altre, si spinsero ripetutamente, fra il 624 e il 591,
attraversando l’Asia Minore e la Palestina, fino ai confini orientali dell’Egitto. Questi furono gli attacchi sciti
di cui parla il profeta Zefania (1, 8 segg.), che li interpretò come un castigo di Geova, e il cui ricordo, anche
dopo un secolo entrò a far parte del racconto di Giuditta (1 – 3). L’avanzata degli sciti in direzione dell’Egitto
è menzionata anche da Erodoto (I, 103-106; IV, 11). Dalle notizie date da diversi scrittori ellenici e romani
si deduce che gli sciti, genti di lingua indogermanica, erano stati, originariamente, di razza prevalentemente
nordica. Il popolo caucasico degli osseti, che ancora oggi dimostra una forte componente nordica, discende
verosimilmente dalla stirpe scitica (sacia) degli alani. Nella zona di Bethsan, sembra che gli sciti si fossero
fermati per abitare stabilmente, e Flavio Giuseppe menziona che quella parte della Palestina era detta
Scitopoli (1). Gli ebrei si devono essere resi conto che tutta la parte settentrionale del Medio Oriente era
stata penetrata da stirpi di razza nordica. Le persone provenienti da quelle parti dovevano avere spesso un
aspetto diverso, con il colorito, gli occhi e i capelli chiari; e le stirpi conquistatrici provenienti da Nord
dovevano presentare percentuale relativamente alta di uomini biondi e dagli occhi azzurri.
Le genti provenienti da Nord e da Ovest vengono classificati come la stirpe di Giapeto nella “tabella dei
popoli” (1 Mosé 10), della quale si è già parlato: ad essa apparterrebbero i ‘gomer’, i cimmeri, i ‘madai’, cioé i
medi, i ‘jawan’, cioé gli ioni, gli ‘aschkenasim’ – come venivano probabilmente chiamati i frigi, e altre stirpi
dall’identità non ancora accertata. I popoli di lingua indogermanica e di razza nordica venivano, a quanto
sembra, messi genericamente insieme sotto il nome di “Giapeto”; non esclusi i filistei. Secondo Beer (1) è
possibile che questa denominazione derivi da quella del titano Giapeto della saga ellenica. Hommel (2) dice
che la voce “Giapeto” è semitica, e sarebbe stata, originariamente, una parola di genere femminile che
significava “bella, bianca, chiara”. In lingua assira si trova la parola ippatu, “bianco”. È quindi possibile che
per indicare gli apparteneti alla stirpe di Giapeto si sia utilizzato un vocabolo che, in origine, esaltava la loro
caratteristica somatica più saliente: il colorito chiaro.
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c) La razza negroide
Il problema di come gli ebrei abbiano acquisito un forte influsso negroide, è stato già discusso. L’influssso
negroide proviene probabilmente solo in piccola parte da incroci avvenuti in Egitto, dove alcune stirpi
giudaiche si soffermarono prima di passare in Canaan. questa componente, nel popolo ebraico, proviene in
massima parte dagli schiavi, come fra gli arabi. Gli schiavi liberti e le schiave, non di rado di razza negroide,
o portatori di influssi razziali negroidi, venivano anche ammessi nella comunità religiosa e sociale ebraica.
Diversi ricercatori hanno individuato una palese impronta negroide negli ebrei moderni: “Non ci si sbaglia
di certo quando si attribuiscono i capelli spesso crespi, le labbra carnose e il prognatismo di tanti ebrei a
mescolanze con elementi negroidi, probabilmente avvenute in Egitto” (3). “Colorito bruno, fronte bassa,
capelli crespi, labbra grosse e prognatismo”: ecco, secondo Judt (1) i segni che possono far sospettare un
influsso negroide; e secondo lui un influsso del genere sarebbe riscontrabile soprattutto fra gli ebrei della
Palestina meridionale, cioé del regno di Giuda. Anche Schleich parla delle “labbra negroidi, protrudenti”
(2), e Schaafhausen del prognatismo evidente di molti ebrei (3).
La razza negroide, linguisticamente tipificata dalle lingue monosillabiche sudanesi, non è stata ancora
descritta soddisfacentemente dal punto di vista somatico. È anche difficile circoscrivere la figura “pura” di
questa razza, né si può escludere che ci possa essere più di una razza che presenta caratteri di tipo
“negroide”. In definitiva, si può prendere come “negroide” ciò che rimane della figura africana (4) dopo che
la si è concettualmente ‘ripulita’ da influssi camitici, occidentali (mediterranei), orientalidi e levantini, ma
anche, in minor misura, di razze di Cro-Magnon e nordica, nonché di razze i cui portatori sono ottentotti,
boscimani e pigmei. Ne rimarrà una razza di statura media, qualche volta brachicefala e qualche volta
dolicocefala, nella cui testa la proporzione facciale è molto più grande che quella cerebrale, con gli zigomi
proiettati sia all’infuori che lateralmente, mani e piedi relativamente grandi e con la pianta dei piedi poco
arcuata. La fronte è incurvata verso l’alto e lateralmente, il naso piuttosto corto e largo, con narici larghe e
carnose e con la punta spinta all’insù. La parte inferiore del viso è massiccia, in ragione della mascella che,
sotto il naso, si proietta all’infuori (”prognatismo subnasale”). Le labbra sono carnose, e qualche volta sono
tanto tumide che il labbro superiore disegna una linea curva molto marcata, visibile lateralmente, al di sopra
della mascella. I capelli del negro sembrano “lanosi”, cioé, sono molto crespi, e spesso si aggrovigliano fra
loro per formare glomeruli. La figura è caratterizzata da una certa angolatura della colonna vertebrale nella
zona lombare e ad una tendenza del cinto pelvico a proiettarsi in avanti, per cui le natiche e le gambe
sembrano spostate all’indietro. La gamba è più lunga sotto il ginocchio che sopra. Nel sesso femminile i seni
sono grassi e di forma caprina (questa forma di seni è già stata descritta). La pilosità corporale, in ambedue i
sessi, è scarsa e i maschi non hanno barba.
Sembra che la razza negroide si sia mantenuta al massimo pura nelle zone boscose dell’Africa occidentale
e centrale.
Nei luoghi dove le popolazioni, come per esempio in Egitto, hanno ricevuto un influsso negroide, le
caratteristiche appena descritte affiorano continuamente, anche quando gli individui prevalentemente
negroidi o i negri puri possono essere molto rari (1). Un segno attardato di un influsso negroide già molto
debole è stato individuato in Nordamerica, dove si dà grande importanza alla problematica dei possibili
antenati negri: si tratta di una macchia bluastra in forma di mezzaluna alla base delle unghie. Per il gusto
americano-occidentale, i capelli crespi dei negri sono poco attraenti; per cui i negri dell’America del Nord,
ma anche ebrei singoli che hanno i capelli crespi, usano pomate speciali per rendere i loro capelli lisci. Delle
statistiche americane indicano che l’1% degli ebrei hanno i capelli crespi (1).
Si può facilmente ammettere che il contenuto negroide nell’ebraicità sia diminuito dopo la dispersione
degli ebrei in mezzo alle popolazioni occidentali. Questo deve essere successo anche perché, fra ebrei che,
almeno in parte, avevano adottato punti di vista occidentali, individui con evidenti caratteri negroidi saranno
stati evitati come partner matrimoniali; come in precedenza fu il caso anche in Palestina fra le classi medie o
superiori. I caratteri negroidi pronunciati vanno anche contro i gusti delle popolazioni levantino-orientalidi.
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Nel popolo ebraico i più forti influssi negroidi cominciarono ad esserci dopo che gli arabi dell’Arabia
meridionale e della costa occidentale ebbero assorbito un notevole quantitativo di elemento negroide, che,
ancora oggi, li distingue dalle altre stirpi arabe. Come successe agli arabi, anche gli ebrei, in conseguenza
del traffico di schiavi con l’Africa, devono avere subito una certa mescolanza di sangue negro. Il Vecchio
Testamento menziona i figli di padre ebreo e madre schiava egiziana; ma le schiave, in Egitto, erano quasi
tutte meticce con un forte contenuto negroide. “Ebed-Melech, l’”etiope” che salvò la vita a Geremia, era
probabilmente un negro (Geremia, 38, 7 – 13); e negro fu probabilmente anche Kuschi, il “cuscita”, bisavolo
di Giuda l’ebreo (Geremia 36,14)” (2).
Gli schiavi degli ebrei erano in maggioranza stranieri, o prigionieri di guerra, o individui comprati e
comunque appartenenti ad altre popolazioni. Gli schiavi erano assegnati alle famiglie e, sotto determinate
circostanze, lo schiavo poteva sposare la figlia del suo padrone, come fu il caso dello schiavo egiziano
Jarcha che sposò la figlia dell’ebreo Sesan (1 Cronache 2, 34, 35). Il figlio di uno schiavo poteva diventare
erede del suo padrone, se quello non aveva figli (1 Mosé 15,2; 24,2 segg.). Le schiave ebree erano spesso
concubine del loro padrone; quelle straniere quasi sempre (1). In un simile contesto, e anche perché molti
schiavi venivano liberati, un influsso negroide si diffuse a partire dalle classi più basse. 5 Mosé 21, 11 segg.
indica che donne di altri popoli, prese prigioniere, potevano diventare mogli di ebrei. È possibile che fra le
mogli di Davide e di Salomone ce ne fossero diverse che provenivano da stirpi parzialmente negrizzate.
In ogni caso gli scambi fra gli ebrei e i popoli confinanti, devono aver contribuito ben poco a modificare la
loro composizione razziale, in quanto anche quei popoli avevano una composizione razziale non dissimile da
quella ebraica, compresa la componente negroide, come si può facilmente notare quando si osservano i loro
discendenti odierni.
La popolazione della capitale, Gerusalemme, ai tempi del re Erode, menzionato nel Nuovo Testamento,
deve avere aumentato leggermente il suo contenuto (comunque debole) di sangue nordico in ragione della
presenza dei mercenari germanici galli e traci assoldati da Erode, almeno secondo le notizie trasmesse dallo
storico ebreo Flavio Giuseppe (2).
d) L’influsso nordico nel popolo ebraico
Il problema del biondismo nell’ebraicità, fatto che molto spesso ha portato a scontri prolungati fra i diversi
ricercatori, non sarà discusso qui ma più avanti, quando verrà considerata la composizione razziale degli
ebrei moderni. In ciò che segue considereremo solo il problema dell’influsso nordico negli ebrei
dell’antichità.
Le ondate di popolazione prevalentemente di razza nordica, oppure portatrici di un qualche influsso
nordico che raggiunsero la Palestina nei due o tre millenni prima di Cristo, sono già state prese in
considerazione abbastanza dettagliatamente una per una, questo perchè il contenuto nordico degli ebrei è
stato palesemente esagerato o considerato improbabilmente alto da alcuni ricercatori, mentre altri l’hanno
semplicemente negato. Questi ultimi, a parer mio, hanno giudicato senza avere potuto usufruire di tutti i
risultati delle ricerche più moderne sull’antico Medio Oriente.
Comunque sia, quanto o quanto poco importante sia stato l’influsso nordico nell’ebraicità antica, non potrà
mai essere valutato se non approssimativamente. I risultati delle ricerche razziologiche fatte sugli attuali
ebrei d’Europa, che hanno rivelato centinaia di casi di colorito occhi e capelli chiari, non permettono alcuna
conclusione su quello che fu il contenuto nordico degli ebrei dell’antichità. Il colorito chiaro di tanti ebrei
ora residenti in Europa, non deriva soltanto da un contenuto nordico esistente già in Palestina, ma
dall’acquisizione, in Europa orientale di sangue nordico, o, più spesso, di sangue balto-orientale.
L’importanza della componente nordica negli ebrei dell’antichità può essere valutata soltanto attraverso lo
studio di quei gruppi ebraici moderni che non sono stati esposti alla mescolanza con genti europee; oppure
dei discendenti di quelle popolazione, un tempo confinanti con gli ebrei, la cui composizione razziale è
lecito supporre fosse simile a quella ebraica. Disgraziatamente, fatta eccezione dei samaritani, ricerche del
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genere non sono ancora state fatte, per cui ci si deve accontentare delle notizie sparse date da viaggiatori e
visitatori occasionali le quali, dal punto di vista razziologico, sono spesso ben poco utilizzabili.
Secondo Beddoe, il biondismo non è raro fra gli ebrei di Costantinopoli, Rodi, Smirne e della Siria, invece
lo è meno fra quelli dell’Egitto. Si tratterebbe di raggruppamenti ebraici che si erano dispersi in tempi ancora
precristiani come conseguenza dell’esistenza, già allora, di un’estesa rete commerciale ebraica. Escludendo
improbabili acquisizioni di sangue nordico ai tempi delle Crociate, essi non poterono acquisire, da allora,
alcun influsso nordico; e questo vale anche per gli ebrei della Palestina. Beddoe menziona una notizia,
trasmessagli da un missionario, secondo la quale egli avrebbe visto dei biondi fra le genti dei dintorni del
lago di Genezaret; e una certa misura di biondismo infantile ci sarebbe fra gli ebrei di Aden, nell’Arabia
meridionale (1). Già Pickering aveva dato notizia di bambini ebrei biondi ad Aden: “Alcuni fra i bambini
avevano una fisionomia aggressiva e i capelli lisci, che mi fecero ricordare certe fisionomie che avevo visto
sotto climi settentrionali” (2). Czekanowski conferma la presenza di individui biondi fra gli ebrei di Aden
(3).
Più sopra si è già menzionato quanto Sayce dice nel suo The Races of the Old Testament [Le razze del
Vecchio Testamento] (1925): “Io stesso ho visto bambini biondi e con gli occhi azzurri nei villaggi montani
della Palestina, e questi tipi sono particolarmente frequenti nella zona costiera a Sud di Gaza”. von
Luschan, dalle sue impressioni di viaggio e dalle sue ricerche fra gli ebrei della Siria e della Palestina,
ricorda di avere visto centinaia di biondi che “assomigliavano agli ebrei biondi che ci sono in Germania” (4).
Questo potrebbe significare che l’influsso nordico in questi gruppi ebraici è più forte che negli ebrei della
Germania, il cui biondismo e i cui occhi azzurri sono probabilmente più di origine balto-orientale che
nordico. R. Pöch ci dice che “Nei dintorni di Betlemme mi fece una particolare impressione la presenza di
un tipo biondo che non sembrava essere né “ebraico” né “semitico” (o “orientalide”)” (5).
La composizione razziale odierna delle stirpi druse della Siria e del Libano, soprattutto nel Hauran, è
probabilmente analoga a quella degli antichi ebrei, o per lo meno a quella popolazione del regno di Israele.
Anche in Palestina la componente nordica deve essere diminuita con la scomparsa di coloro che erano meno
adatti per la sopravvivenza in quelle latitudini; ma essa potrebbe essersi mantenuta meglio nelle zone
montane, climaticamente più favorevoli a genti dal contenuto nordico, oppure nelle parti più nuvolose della
Siria.
I drusi sono una popolazione sira di lingua araba che da parecchi secoli vive in isolamento e senza
mescolanze. Un misto razziale, quindi, che, per quel che riguarda la sua composizione, ha probabilmente
conservato il tipo umano della Siria antica. Molte stirpi aramaiche e amorite dovevano avere lo stesso
aspetto dei drusi moderni, anche quando si ammetta che le immigrazioni arabe devono aver rafforzato, fra i
drusi come anche fra gli altri siri, la componente orientalide; ma le faide continue fra le diverse stirpi druse
devono aver assottigliato quella componente nordica che in esse poteva esserci. Che fra i drusi e, in
generale, in Siria, ci sia una componente nordica, è stato notato dai viaggiatori da molto tempo. Il francese
Volney, nel suo “Viaggio in Siria e in Egitto” (vol. I, 1788, p. 278), dice che: “In Libano e nelle terre dei
drusi, per quel che riguarda il colore della pelle, gli abitanti non sono molto diversi dai nostri compatrioti
nella Francia centrale. Le donne di Damasco e di Tripoli sono celebri per la biachezza della loro pelle e
anche per la regolarità dei loro tratti”. L’obbligo islamico del velo, che un poco alla volta sta scomparendo,
rendeva impossibile l’osservazione delle donne. Adesso la popolazione di Haleb (Aleppo, nella Siria
settentrionale) si dice sia particolarmente chiara. In concordanza con le vedute generalizzate sulla bellezza
femminile che ci sono nel Medio Oreinte (vedi più sopra), anche i drusi pensano che una donna bella deve
essere grassa; questo lo dicono Volney (cit., p. 279) e anche Worbs (1). Langerhans dice dei drusi: “Fra loro
gli occhi azzurri e i capelli biondo-rossi sono frequenti” (2). Il viaggiatore inglese W. B. Seabrook fece
visita al sultano druso Atrasch, duce dei drusi nell’opposizione alle truppe francesi in Siria, e lo descrisse
come un uomo di colorito molto chiaro con gli occhi azzurri. Un capo druso del secolo XVII, Fakr-ud-Din-
Maan II, probabilmente per calcolo politico, tentò di diffondere la nozione che i drusi fossero discendenti
dei crociati. Anche fra le stirpi beduine palestinesi la componente nordica che ci doveva essere nella
Palestina antica, non è ancora del tutto scomparsa; e Sayce racconta, quando menziona questo influsso
nordico, che “Uno sceicco locale, che una volta incontrai nella via del deserto fra El-Arisch e le rovine di
Pelusio, aveva non solo il colore della pelle, degli occhi e dei capelli, ma anche i tratti facciali che gli artisti
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di Ramsete III attribuivano ai principi amoriti presi prigionieri” (1). Huxley, che viaggiò in Palstina nel
1901, notò che c’erano dei biondi fra i samaritani (2). Szpidbaum ha intrapreso una ricerca razziologica dei
samaritani (3). Ne è risultato che sono, mediamente alti, con un’altezza media fra gli uomini di 171,07
centimetri, i più alti in tutta la Siria e in tutta la Palestina. Szpidbaum trovò un 8,3% di bambini biondi, un
8% di bambine bionde e, dopo l’oscuramento che avviene nell’età adulta, un 3,7% di uomini biondi.
Avevano gli occhi azzurri l’11,1% degli uomini e il 7,4% delle donne e gli occhi grigi, riscontrabili soltanto
fra le donne, il 3,7%. I capelli rossi furono riscontrati, fra le donne, al 7,4%; mentre il 26,9% degli uomini
avevano la barba rossa. Gli occhi a mandorla furono trovati nel 40,7% degli uomini e nel 59,3% delle donne;
nei bambini queste percentuali sembrerebbero essere più alte (1). I sacerdoti samaritani si distinguono dal
resto della popolazione in ragione dei loro tratti più “eleganti”. I tipi di ordito dei capelli trovato da
Szpidbaum fra i samaritani sono i seguenti:
Uomini Donne Ragazzi Ragazze
lisci 48,1% 29,6% 63,1% 12,6%
leggermente 51,9% 44,4% 24,6% 43,7%
ondulati
ondulati 22,3% 8,2% 43,7%
crespi 3,7% 4,1%
I “tipi” che Szpidbaum, usando uno specifico calcolo di correlazione, ha incontrato, fra i samaritani, tipi
dai quali egli poi voleva dedurre la loro reale composizione razziale, ma non sono vere razze, nel senso di
gruppi umani dalle caratteristiche ereditarie che si ripetono attraverso le generazioni; solo gruppi di
individui le cui caratteristiche si presentano con un massimo di frequenza. I singoli individui, di generazione
in generazione, possono spostarsi da ‘tipo’ a ‘tipo’.
Quando due o più razze si incrociano i singoli tratti vengono ereditati separatamente, quindi non è proprio il
caso di aspettarsi che nel popolo samaritano, dopo secoli di mescolanze, le attuali correlazioni fra i singoli
tratti possano dare una indicazione esatta di quelle che potevano essere le razze originarie che lo formarono.
L’influsso “chiaro” che risulta da queste ricerche, nonché quei fattori genetici che determinano l’altezza,
sono da attribuirsi ad una componente nordica, in quanto un’influsso falico nella Palestina antica è
improbabile e uno balto-orientale quasi impossibile.
I samaritani, che originariamente erano correligionari degli ebrei, dovettero essere anche affini per sangue.
Come gli ebrei, dai quali avrebbero potuto essere facilmente assorbiti, essi erano stati adoratori del dio
Geova, ma se ne separarono fra il 429 e il 424 a.C. avendo rifiutato la legislazione di Esdra e di Neemia.
Neppure avevano mai accettato la pretesa che Gerusalemme dovessere essere l’unico luogo appropriato per il
culto centralizzato di Geova, avanzata dai sacerdoti e dalle classi ricche gerosolimitane. Essi eressero il loro
proprio santuario sul monte Garizim, vicino a Sichem, che ancora oggi resta il loro luogo centrale di culto.
Da quando si separarono dagli ebrei hanno costituito una comunità chiusa, che non può essere stata
modificata da incroci esogeni e quindi non può avere subito cambiamenti razziali, se non quelli causati da
ereditarietà differenziale dei diversi filoni genetici GIA’ presenti al suo interno.
I samaritani chiamano sé stessi Beni Israel, “figli di Israele”, e affermano di essere gli unici discendenti
puri dei primi ebrei. Si presentano come un misto levantino-orientalide-camitico-nordico, che potrebbe
benissimo essere identico a quello dell’ebraicità antica, soprattutto come poteva essere nel regno d’Israele, e
ad essa molto più vicino dei moderni ebrei palestinesi, che non si sono mai isolati come i samaritani.
Se posso avanzare un’ipotesi sul contenuto nordico del popolo ebraico del Vecchio Testamento, in base a
quanto già detto sul biondismo di ebrei e samaritani, posso dire che dal 5 al 10% della sostanza genetica
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degli ebrei antichi era nordica, e che questa percentuale rimase invariata, grosso modo, sino ai tempi di
Gesù.
Anche i risultati ottenuti dallo studio del biondismo negli ebrei di Kotschin (inglese: Cochin), nell’India
meridionale, sembra confermare che l’influsso nordico negli ebrei moderni è probabilmente, in massima
parte, di origine palestinese antica. Gli antenati di questi ebrei sono emigrati nel Kotschin verso il 68 d.C. e
quindi rappresentano un campione di quello che gli stessi ebrei dovevano essere ai tempi del Nuovo
Testamento. Kaufmann ci dice che alcuni fra loro sono sorprendentemente “biondi chiari e con gli occhi
azzurri” (1). Anche Katharina Zitelmann descrive dei biondi fra gli “ebrei bianchi” del Kotschin “bambini
biondi dai tratti eleganti” e una madre con due figlie “dai capelli biondi dorati e visi pallidi e delicati dai
tratti nobili”. Gli ebrei “neri”, sempre secondo Katharina Zitelmann, odiano quelli “bianchi”, perché da
questi si sentono disprezzati per la loro razza (1).
L’influsso nordico negli “ebrei bianchi” del Kotschin non può essere rintracciato in eventuali mescolanze
avvenute in India, in quanto gli indiani nordici, eredi genetici dei conquistatori di lingua indogermanica,
erano già praticamente estinti ai tempi del loro arrivo. Inoltre, sembra che gli ebrei si siano mescolati ben
poco con gli indostani. Essi convertirono un piccolo numero di indigeni al credo mosaico, i cui discendenti
sono i cosiddetti ‘ebrei neri” del Kotschin. Ma i due gruppi, per quanto ambedue di fede giudaica, non si
sono mai mescolati, per cui gli “ebrei neri” non possono essere classificati come formanti parte del popolo
ebraico in generale, come non possono esserlo gli “ebrei neri” dell’Abissinia, gli scarsi Falascià (1).
In altre fotografie sono riconoscibili anche tratti “ebraici”, soprattutto orientalidi, in particolare nella forma
della bocca della punta del naso. [NOTA ALLA FIG. 174]
Pruner-Bey disse una volta: “Ho fatto ricerche sugli ebrei di diverse parti della Terra, e mi sembra
inconfutabile che ce ne sono molti biondi (très-blonds) che non sono meticci” (1). Ma dal punto di vista
delle leggi di Mendel, quegli ebrei erano certamente “meticci” (métis). Ma ciò che Pruner-Bey voleva dire,
era che nel popolo ebreo ci sono individui biondi da molto tempo e che il biondismo, in certi
raggruppamenti ebraici, non era attribuibile a matrimoni misti recenti fra ebrei e non-ebrei.
VI. CONCEZIONI EBREICHE SULLA BELLEZZA CORPOREA
In diversi miei libri di razziologia ho tentato di spiegare come un certo indicatore della stratificazione
razziale, oppure della composizione razziale di un popolo, sia dato dalle concezioni che quel popolo ha sulla
figura della persona bella o nobile, cioé, dalle sue concezioni estetiche. Inoltre, ho indicato come molto
spesso accada che la scomparsa di una determinata componente razziale, nonostante che i suoi tratti
caratteristici diventino rari, o proprio in quanto sono diventati rari, non è mai un impedimento perché
continuino ad essere considerati belli o nobili. Quindi, per esempio, presso le popolazioni di lingua
indogermanica, ancora fino ai loro ultimi tempi particolarmente poveri di sangue nordico, il tipo nordico
continuò ad essere visto come bello e nobile; e la figura e il movimento dell’uomo nordico continuarono ad
essere considerati come esemplari anche da genti che ormai, di quel sangue, ne dovevano avere molto poco.
Anche l’idea della bellezza che ebbero gli ebrei nella loro antichità fino all’inizio del Medioevo, almeno
così come ci lascia intravedere il Vecchio Testamento e il Talmud, può servire da indicatore sulla
composizione razziale ebraica. Allo stesso scopo possono servire alcune menzioni di tratti fisici, alcuni nomi
di stirpi o persone, oppure le indicazioni di come venivano scelti i sacerdoti in base alle caratteristiche
somatiche.
Il primo biondo menzionato nel Vecchio Testamento sembra essere stato il “rosso” (’admônî) Esaù (1), a
meno che si voglia indicare un colorito rossiccio della pelle e non dei capelli. Siccome un colorito rossiccio
della pelle dei neonati non è raro, e siccome Esaù è poi descritto come un individuo del tutto particolare, è
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più probabile che si voglia indicare un colore dei capelli poco frequente, e che per questo attirava
l’attenzione. In 1 Mosé 36 sono enumerati i discendenti che Esaù ebbe con le sue due mogli, canaanita e
ittita, e si spiega che i suoi discendenti furono gli edomiti, il cui nome proviene proprio da ‘admônî (2). Già
Beddoe aveva posto il quesito se, di conseguenza, non si dovesse pensare che anche gli edomiti erano
biondi. L’abitudine di scegliere i nomi delle stirpi in corrispondenza di tratti somatici esiste infatti anche fra
gli arabi (1). Judt (2) pensa che gli edomiti fossero biondi. Secondo Dubnow (3) il nome di Sansone
significa “Solare”, o “Uomo del Sole” e, com’è capitato spesso, classifica Sansone come una specie di eroe
solare o figura solare. Beer (4) vedeva in Sansone una figura simile a quella di Eracle, e nella storia di
Sansone percepiva un’influenza “ariana”, cioé, proveniente dall’insieme dei popoli di lingua indogermanica e
di razza nordica. Se ciò fosse vero, la figura di Sansone, sia per la sua origine storica che per la sua natura di
eroe solare, deve essere immaginata come bionda. Solo i capelli biondi infatti possono valere come
simbolo dei raggi solari.
Judt (5) concede che Samuele avesse probabilmente i capelli rossi, senza però entrare maggiormente
nell’argomento. Saulo (verso il 1.030 – 1.011) era comunque alto, “sovrastava con la testa tutto il resto del
popolo” (6) ed era un bell’uomo: “Non ce n’era uno di più elegante fra i figli di Israele” (1 Samuele 9,2;
10,23). Era figlio di un contadino, non di un pastore nomade; quindi si può presumere, a giudicare dalla sua
origine e dalla sua statura corporea, che in lui ci fosse un’influenza nordica. Anche i tratti animici di Saulo,
almeno da quanto si può giudicare dalle notizie lasciate più tardi da persone a lui sfavorevoli, sembrerebbero
confermare questa presunzione. I lamenti funebri di Davide, diretti a Saulo e ai suoi figli (2 Samuele 1,17
segg.) sono del tipo che ci si potrebbe aspettare da una persona portatrice di una componente razziale
nordica; non a caso Davide, re della stirpe di Giuda fra il 1.011 e il 1.004 e di tutto il popolo ebraico fra il
1.004 e il 972 a.C., viene descritto come biondo o biondo-rosso (’admônî) e di bell’aspetto (6). I suoi “begli
occhi” erano particolarmente ammirati. Anche qui c’è stato chi ha voluto attribuire il colorito “rosso”
(’admônî) non ai suoi capelli ma alla sua pelle, ma negli scritti ebraici non si trova alcuna menzione del fatto
che qualcuno che avesse la pelle “rossa o rossastra” fosse visto come “bello”. Se invece l”admônî dovesse
indicare soltanto il colorito del viso, non si potrebbe riferire che a guance chiare e rosee, caratteristiche dei
tratti ereditari della razza nordica. Il colorito olivastro delle razze orientalide e levantina e quello brunorossiccio
di quella camitica non dovevano sembrare niente di particolare, e anche i coloriti chiari, che
occasionalmente affiorano nella razza orientalide, non sono mai rosei, ma sempre opachi o pallidi. È
probabile allora che il colore “rosso” si riferisca ai capelli. Secondo Judt, certe “leggende bibliche”
contengono indicazioni che sia Davide che Gesù devevano essere biondi (1); ma Judt, disgraziatamente, non
cita le sue fonti. Krauss (2) dà notizia che Ester, una figura derivata, nella tarda leggenda ebraica, dalla dea
babilonese Ischtar, è classificata nel Talmud come una delle quattro donne più belle, e bisogna pensare che
avesse i capelli biondi.
Quando poi vogliamo rappresentarci la personalità di Davide, basandoci sui resti che lo descrivono
esclusivamente come individuo esemplare dal punto di vista politico e da quello religioso, allora questi tratti
non possono essere capiti se non presupponendo in lui un influsso, se non addirittura una preponderanza, di
razza nordica. Davide, “il vero fondatore del regno israelitico, che ha unificato Israele e Giuda”, era “un
uomo di stato e un dirigente nato” e nel contempo “il più grande re che il suo popolo abbia avuto”; così
Benzinger (3). E Benzinger procede a descrivere come il suo crudele senso della guerra, il grande coraggio,
la sua astuzia e la sua superiorità spirituale, fossero accompagnate da cortesia e sottile sensibilità, ma anche
da quella passionalità che, per usare una terminologia propria dell’occidente europeo, deve essere chiamata
infamia, come nella sua “lettera a Uria”.
Un’influenza nordica si è potuta presumere anche in Assalonne, figlio di Davide e di Maacha, figlia di un
re di Gesur (2 Samuele 3,3). Si dice che gli abbondantissimi capelli di Assalonne fossero diventati
eccessivamente lunghi, anche se egli se li faceva tagliare tutti gli anni (2 Samuele 14,26), e che li aveva
lasciati crescere tanto da rimanere appeso per i capelli ad un ramo (2 Samuele 18,9) quando, a cavallo, passò
sotto una quercia. Questo lascia sospettare che anche in Assalonne ci dovette esser un influsso nordico,
perché i capelli delle razze scure della Palestina non crescono molto. Più avanti si dirà come Judt proponeva
che Assalonne avesse i capelli rossi. I capelli biondo-dorati o biondi-rossastri, sono quasi sempre un tratto
della razza nordica; ma il colore rosso volpino dei capelli è un fenomeno (non dissimile dall’albinismo) che
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può affiorare anche in altre razze (rutilismo, eritrismo); perciò il colore rosso che Judt attribuisce a certi suoi
personaggi (senza citare le sue fonti bibliografiche) non può essere utilizzato come indicatore di
composizione razziale. Pruner-Bey proponeva che Assalonne fosse biondo: io invece penso che la lunghezza
dei suoi capelli dev’essere vista come un tratto nordico. Secondo Pruner-Bey, Assalonne può essere
paragonato al biondo Achille dell’Iliade (1).
Anche Assalonne era “bello”, e non aveva alcun difetto dal sommo della testa alla pianta dei piedi (2
Samuele 14,25). In quanto segue analizzeremo se, fra gli ebrei, i capelli biondi e altri tratti fisici della razza
nordica siano visti come “belli”.
Un esempio di come in un popolo progressivamente denordizzato metta mano ad ogni tipo di coloranti per
imbiondire i capelli (2), risulta dalla descrizione data dallo storico ebreo Flavio Giuseppe della toeletta di
Salomone. (Si tratta comunque di un testo messo per iscritto verso il 90 d.C., 1.000 anni dopo che Salomone
era stato re.) Giuseppe ci descrive come gli inservienti a cavallo di Salomone fossero un raggruppamento
scelto: “I cavalli erano a loro volta un ornamento per gli inservienti, tutti in piena gioventù, diversi dal resto
dei giovani per la loro alta statura e il loro bell’aspetto. Portavano i capelli lunghi e i loro vestiti erano fatti
con drappi colorati con la porpora di Tiro. Si strofinavano i capelli ogni giorno con polvere d’oro, in modo
che tutta la loro testa irraggiasse quando il Sole si rifletteva sull’oro” (1). Ci si ricordi (se ne è parlato più
sopra) che il cavallo fu portato nel Medio Oriente e in Palestina da stirpi di razza prevalentemente nordica, e
che gli israeliti avevano imparato ad utilizzarlo soltanto ai tempi di Salomone, facendo da tramite i
discendenti di quelle stirpi. È quindi molto probabile che Salomone avesse reclutato quei giovani fra le
popolazioni della Palestina che allevavano cavalli, da qui si può presupporre che avessero un’influsso
nordico ancora relativamente elevato. L’esempio di certi imperatori romani i quali, anche se naturalmente
biondi, rafforzavano il loro biondismo cospargendosi i capelli con polvere d’oro, indica che gli inservienti
menzionati da Flavio Giuseppe, e descritti come individui particolarmente alti, non dovevano essere di
capigliatura scura. Non si può nemmeno escludere che Flavio Giuseppe abbia trasferito una usanza, già in
voga nella Roma denordizzata dei suoi tempi, ai tempi di Salomone.
Il problema di quali tratti gli ebrei antichi e i loro discendenti del primo Medioevo considerassero “belli” e
quali “brutti”, e se, oltre alla notevole altezza, altri tratti nordici fossero considerati “belli”, potrebbe essere
risolto in modo soddisfacente solo facendo riferimento alle testimonianze del Vecchio Testamento, e poi del
Talmud. Ma bisogna presupporre che quegli scritti dimostrino una sufficiente sensibilità per la descrizione
della bellezza corporea (2). Purtroppo però, nei testi menzionati, testimonianze del genere sono scarse.
L’anima levantina presente nel popolo ebraico, con la sua conosciuta tendenza a reprimere i sensi e la
“carne” (cfr. più sopra), rese impossibile le descrizioni della bellezza fisica, almeno nelle descrizioni
storiche e nel genere poetico nel suo complesso. Dove queste descrizioni ci sono, come in certi poemi, non
sono mai incluse per l’”ammirazione distaccata” (”interesselose Anschauung” – Kant), come avveniva nei
grandi artisti ellenistici, ma tradiscono o il senso ardente della bellezza sensuale della razza orientalide,
oppure quell’altra sfaccettatura dell’anima levantina, che è discesa nel sensuale puro.
Il greco voleva poter incarnare il bello e il buono (vigoroso) nelle stirpi umane; il suo obiettivo era la
kalok’agatheia; l’ebreo invece voleva essere giustificato davanti al suo dio particolare, Geova. Ma questa
giustificazione era più agevole per il devoto che martirizzava “la carne”, che non per il “senza dio” che si
sentiva più orientato alla cura e all’ornamentazione del corpo (1). Di conseguenza tutto ciò che era attinente
al corpo era classificato come “carne”, e necessariamente causa di peccato. Da questo deriva la ripugnanza
ebraica per la nudità corporea che si tradusse anche in feroce inimicizia per la mentalità greca, non appena
ebrei e greci vennero in contatto. Attitudine che le chiese cristiane ereditarono dall’ebraismo e dalla vita
religiosa di altre popolazione prevalentemente levantine. Questo tipo di approccio ha impedito che negli
scritti ebraici si sviluppasse il senso della bellezza che invece, pur con espressioni diverse, è proprio delle
razze orientalide, camitica e nordica. Eppure, non poche figure del Vecchio Testamento sono descritte come
“belle”, “amabili”, “eleganti” (2). Sara, Rebecca, Rachele, Giuseppe e Abigail; Saulo, Davide e Assalonne
sono descritti come “belli”; anche se, esclusi gli ultimi tre, non è chiaro a quali tratti corporei gli altri
dovessero la loro bellezza. Per quanto alcuni ebrei dimostrassero sensibilità per la bellezza, per le ragioni
esposte non era possibile che la sua descrizione trovasse posto negli scritti ebraici: “L’avvenenza è falsa e la
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bellezza un alito passeggero; un uomo dovrebbe amare una donna che teme Geova” (Proverbi di Salomone,
31,30). Tutto questo era valido per lo meno nei tardi tempi ebraici, verso il 200 a.C. (3). Verso il 180 a.C.,
Gesù Sirach ammonisce (9,8): “Distogli il tuo sguardo dalle donne belle”.
Un versetto dei Proverbi di Salomone (5,19), dove una bella donna è paragonata ad una cerva o ad una
capriola, può forse essere visto come una indicazione che l’autore considerava la snellezza come una
condizione della bellezza. Questo sospetto è rafforzato dal fatto che il nome aramaico Tabitha (gazzella), era
anche quello di una ragazza ebrea (a voler credere agli Atti degli Apostoli, 3,96). Il Talmud dà notizia che
diverse donne si allacciavano il busto molto strettamente (1). Se questo fosse vero, significherebbe proprio
che la snellezza era presa come un riferimento della bellezza e, nel contempo, come un chiaro rifiuto della
corpulenza levantina. Eppure, sempre secondo Krauss, anche la corpulenza poteva essere segno di bellezza;
non a caso la donna grassa è considerata attraente fra tutti i popoli levantini e fra molti popoli africani (cfr.
più sopra). Ciò avviene spesso anche fra gli ebrei moderni. Il gusto estetico di molti ebrei residenti in
Occidente e dei gruppi ebraici dell’Algeria e della Tunisia si orienta normalmente verso la donna grassa (2).
Invece, nella poesia araba è bella la donna snella con i fianchi non esageratamente larghi.
Un versetto dei Proverbi di Salomone (6,12) potrebbe indicare che presso il popolo ebraico le persone
dalle inclinazioni cattive hanno una bocca brutta, o considerata tale; e la stessa idea traspare da un altro
versetto (16,30), che parla di persone dalle cattive intenzioni che avrebbero la capacità di indicare gli oggetti
con le labbra e che quindi, presumibilmente, hanno labbra larghe o carnose; comunque particolarmente
mobili e non sottili e aderenti alla mascella. Queste labbra corrisponderebbero di massima a genti levantine
o aventi un importante influsso negroide. Fra gli ebrei, si doveva concedere una certa attenzione alla
correlazione relativa fra certe proprietà del carattere e i tratti fisici già verso il 180 a.C. Al riguardo vale la
testimonianza di Gesù Sirach (19; 29,30): “Si riconosce l’uomo dal suo aspetto; e dal contatto con lui si
riconosce il suo modo di essere. Il vestiario di un uomo, il modo in cui egli cammina e quello in cui mostra i
denti quando ride rivelano la sua qualità”.
Nel quarto lamento sulla caduta di Gerusalemme, composto verso il 580 a.C., c’è un dato estremamente
interessante dal punto di vista della razziologia, perché vi è descritto quale doveva essere l’aspetto delle
genti più distinte nel popolo ebraico a quei tempi, o per lo meno quello che esse, allora, avrebbero voluto
che fosse il loro aspetto: “I nobili di Gerusalemme erano più puri della neve, più bianchi del latte, il loro
corpo era più roseo del corallo” (versetto 7). E il loro opposto è “l’aspetto che essi dopo acquisirono, più
nero della fuliggine” (versetto 8). Il fatto che fra gli ebrei i tratti della razza nordica dovessero valere come
parametri di bellezza è quindi rintracciabile ancora nel VI secolo a.C. Più tardi, questo ideale di bellezza si
indebolisce, e nel Cantico dei cantici appare molto sbiadito.
Il Cantico dei cantici fu composto verso il 150 a.C. a partire da varie canzoni cantate in occasione di
matrimoni. Gli ebrei devoti, che altrimenti l’avrebbero trovato scandaloso, lo interpretarono come un
simbolo dell’amore di Geova per Israele; come più tardi le chiese cristiane lo interpretarono come simbolo
dell’amore di Cristo per l’anima umana o per la sua chiesa. La canzone, o l’insieme delle canzoni, non ha
alcun obiettivo spirituale e il suo contenuto è interamente mondano, come è il caso di tante canzoni analoghe
degli egiziani antichi: si tratta solo dell’amore sensuale fra uomo e donna. Ma nel Cantico dei cantici ci sono
testimonianze molto utili per gli studi razziologici.
Viene data importanza ad un’altezza corporea considerevole. La ragazza fa notare che il suo fidanzato è
“più alto di centomila altri” (5,11); mentre il fidanzato canta che la sua ragazza è “più lunga di una palma”
(7,7). Questi confronti potrebbero riferirsi sia all’altezza che a una forma snella. Nella Palestina antica una
statura alta era un tratto derivante essenzialmente da influssi razziali nordici o camitici, e il fatto che una alta
statura fosse apprezzata è testimoniato anche dal Talmud (vedi più sopra). Livi parla di alcune figure
dall’alta statura nella storia ebraica, per esempio Mosé, Davide e Gesù, ma non cita le sue fonti (1).
La ragazza innamorata dice (1,5) di sé stessa; “O figlie di Gerusalemme, io sono bruna, eppure carina”. -
Siccome essa dice di essere “nera”, doveva avere un colorito molto scuro della pelle, probabilmente bruno
scuro (1). Se ne deduce in ogni caso che un colorito scuro era sfavorevole all’esame di bellezza o che per lo
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meno ci voleva un colorito chiaro per essere veramente bella. In un versetto (7,3), il corpo dell’amata è
paragonato a un mucchio di frumento. Kautzsch fa notare che ancora adesso nel Medio Oriente il colore del
frumento – un bruno molto chiaro – è considerato il più bel colore per la pelle. Giovanni damascieno, nel
secolo VIII, facendo riferimento a trasmissioni orali, descrive Gesù come un personaggio il cui viso aveva il
colore del frumento.
Dell’uomo innamorato del Cantico dei cantici, che è ‘bello’ (5,11), si dice che fosse “bianco e rosso”, certo
con riferimento al colorito della sua pelle, in quanto il colore dei capelli nello stesso versetto è descritto
separatamente. Per quanto forse non si vuol dire che il suo colorito fosse quello nordico, con le
caratteristiche guance infiammate, pure ci si riferisce a un colorito che, per gli ebrei, doveva appartenere ai
tratti di una bella persona. Anche nel Talmud è detto che una pelle chiara rende una donna desiderabile:
“Chi voglia rendere bianca sua figlia, deve, nei suoi anni di pubertà, farle bere latte e nutrirla con pollame”
(2). Secondo Krauss (3), fra gli ebrei era in uso un belletto color rosso vivo; ora, i belletti per colorarsi di
rosa chiaro sono in uso ancora presso diverse popolazione dell’Asia centrale e orientale (i cui antenati
avevano un influsso nordico) che vorrebbero così imitare l’aspetto delle loro classi dirigenti nordiche, ormai
in massima parte estinte. Non si può certo escludere che questo fosse il vero motivo anche fra gli ebrei.
Il colorito normale fra loro doveva essere un bruno chiaro, come descritto da un rabbino verso il 120 d.C.:
“I figli di Israele sono come il legno di faggio, né bianchi né neri, ma una via di mezzo” (4). Secondo Krauss
(cit., p. 702), nel Talmud si dice che il capezzolo della donna è nero, probabilmente con riferimento al suo
colore bruno presso le razze scure dell’antica Palestina. In una occasione il capezzolo di una donna si dice
sia di “colore argenteo”, dove probabilmente si voleva descrivere un capezzolo non pigmentato, derivante da
tratti ereditari nordici che agli ebrei doveva fare l’effetto di un rosa chiaro.
I capelli più comuni dovevano essere neri o castano scuri, comunque visti come “neri”. La parola ebraica
schâchôr – “nero” – significa anche “capelli” e “gioventù”, in quanto anche nei giovani i capelli erano neri o
sembravano tali. Una disposizione di legge attribuita a Mosé (1) non lascia dubbi sul fatto che i capelli scuri
erano i più comuni. Un versetto del Nuovo Testamento (Matteo 5,36) indica che nessuno può rendere un
singolo capello “nero o bianco”, il che sembrerebbe significare che gli unici colori presi in considerazione
per i capelli erano il nero dei giovani e il grigio o bianco dei vecchi.
I capelli dell’innamorata, nel Cantico dei cantici, vengono descritti nello stesso verso (5,11) una volta
come biondi e un’altra come neri: “La sua testa è d’oro e d’oro filato; i suoi riccioli una grande criniera e neri
come il corvo”. Kautzsch, al quale si deve la traduzione, non commenta questo strano fatto. Hauser, nella
sua Geschichte der Judentums [Storia dell'ebraicità] (1921), p. 29, propone che in questo caso si tratti di
parole intercambiabili, scelte a seconda del colore dei capelli del fidanzato nelle svariate canzoni a cui si è
messo mano nel comporre il Cantico dei cantici. I conoscitori della metrica ebraica possono decidere
facilmente sulla giustezza di questa spiegazione. Siccome comunque l’innamorato è alto di statura e chiaro di
pelle, non deve sorprendere, quando si affronti razziologicamente il problema, che anche i suoi capelli siano
biondi.
I capelli biondi potevano essere apprezzati anche fra le popolazioni scure del Medio Oreinte. La bionda
Ajischa (2) fu la moglie favorita di Maometto; e Musil (3) poté ascoltare, fra i beduini di ‘Amarin, una
canzone che incominciava con le parole: “O bionda”.
Nel Nuovo Testamento (Marco 15,21), un certo ebreo, figlio di Simone di Cirene, racconta che il suo
nome è un nome romano, Rufus, perché a suo fratello era stato dato un nome greco, Alessandro. Fra i
romani, quando c’erano due parenti con lo stesso nome, quello con i capelli scuri era soprannominato niger,
“nero”, quello biondo rufus o flavus (4). Allora, il figlio di Simone di Cirene acquisì il suo nome romano
senza che questo non avesse nulla a che fare con il colore dei suoi capelli, oppure si trattava di un ebreo
biondo?
Questa notizia secondo la quale sarebbe stato biondo e alto (cfr. più sopra), non ha un particolare valore
storico. Ma è interessante. Beddoe [1] si era chiesto se non si trattasse di un dato veramente storico il fatto
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che già nel primo Medioevo Gesù veniva raffigurato come biondo. Al contrario, la cosiddetta Lettera di
Lentulo, qualche volta citata come fonte storica, ce lo descrive come di media statura e gli attribuisce capelli
lisci, ma che divenivano crespi sotto le orecchie ed erano color nocciola, dal colorito rossastro delicato,
dagli occhi raggianti e dalla barba dello stesso colore dei capelli (2). Wilpert, che ha messo insieme tutti
documenti sull’aspetto fisico attribuito a Cristo nella sua opera “Die römische Mosaiken und Malereien [I
mosaici e i dipinti romani]” (1916), nella tavola IV riproduce la prima immagine conosciuta di un Cristo
biondo, originaria dei tempi di Costantino (286 o 287 – 337) (Fig. 181).
Nel Cantico dei cantici si fa ripetutamente il paragone fra la capigliatura umana e una mandria di capre
(4,1; 6,4); così anche in un versetto di Ezechiele (8,3), il che potrebbe indicare che la capigliatura
abbondante era frequente ed era vista come attraente. La calvizie nella donna era considerata vergognosa,
come indica Isaia (3,24), e nell’uomo diventava bersaglio di canzonature, come è riportato in un resoconto
del secolo VIII a.C. (2 Re 2,23).
Coloro che avevano i capelli rossi erano visti come appassionati e inclini al tradimento. I primi documenti
cristiani ci dicono che Giuda aveva i capelli rossi (1). Judt scrive – senza dare riferimenti – che “secondo la
leggenda”, oltre a Giuda, anche Esaù, Saulo, Assalonne e Maria Maddalena avevano i capelli rossi (2); e
Preuss, nella sua opere appena citata, ci dice che secondo il Talmud coloro che hanno i capelli rossi sono
individui sanguinari. Ma qui si tratta probabilmente del pregiudizio, presente in tanti popoli, contro quel tipo
di capelli rossi dovuti a rutilismo o eritrismo, di cui si è già parlato, e non ai “capelli rossi”, per esempio, di
un Davide, descritto favorevolmente in tutti i testi tramandati.
La barba era segno di bellezza maschile presso gli ebrei. Della barba ebraica antica si è già parlato, e cfr.
anche la Fig. 116.
Degli occhi dell’amata, il Cantico dei cantici (7,6) dice che assomigliavano agli specchi d’acqua di Hesbon.
Forse si trattava di un paragone con il colore dell’acqua in quei piccoli laghi. Buhl parla di una fonte, “chiara
e fresca”, a Nord della città di Hesbon, dove sono ancora visibili i resti di antichi specchi d’acqua e di vecchi
acquedotti (3). Il confronto fatto dal Cantico dei cantici non si riferiva, probabilmente, al colore, ma alla
trasparenza e alla chiarezza, uguale negli specchi d’acqua e negli occhi dell’amata. Musil, in Arabia, ha
trascritto una canzone beduina che ricorda il Cantico dei cantici.(4)
Anche se gli occhi chiari non sono infrequenti fra gli ebrei palestinesi, e meno ancora fra i samaritani e i
drusi dei nostri tempi, resta il fatto che gli ebrei consideravano gli occhi scuri la regola, almeno da quanto si
può dedurre dalla descrizione delle parti orbitali date dal Talmud: “Ad un esame superficiale si può
distinguere nell’occhio la parte bianca, lâbân, da quella nera, schâchôr” (5).
Nel Cantico dei cantici (7,6), il naso dell’amata è paragonato alla “torre del Libano, che si affaccia su
Damasco”. Forse, se ne potrebbe concludere che per gli ebrei il naso grande della razza levantina era un
segno di bellezza. In ogni caso, i nasi con la radice piatta erano rifiutati. Il fatto che queste forme nasali
fossero spesso descritte in modo specifico, dimostra che nel popolo ebraico ci dovevano essere influssi
evidenti di razze con un naso di questo tipo. Si può concludere che probabilmente si trattava più di influssi
negroidi piuttosto che mongolici; ma non si possono escludere influssi di razze pigmoidi (cfr. Cap. III) e
neppure casi di ereditarietà patologiche. Coloro che avevano quel tipo di naso erano esclusi dal sacerdozio,
il che significa che contraddicevano l’ideale di bellezza o nobiltà professato dagli ebrei. Secondo il Talmud,
quelli in cui “ambedue gli occhi possono essere imbellettati con un solo tratto” sono detti charûm; sono
coloro che quando si truccano le palpebre, spostando il pennello imbellettatore da un occhio all’altro, non
trovano un ostacolo alla base del naso. Ci si imbatte anche nella denominazione di salûd – “naso camuso” -
ma anche coloro il cui naso corrisponde a questa denominazione non possono essere sacerdoti (1). Un ebreo
che si chiamava Charum – “Naso Camuso” – viene classificato in 1 Cronache 4,8 fra i discendenti di Giuda; e
si trova un certo Charumaph in Neemia 3,10.
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Una buona altezza e una certa forza muscolare erano classificate come indicatori di bellezza, almeno
secondo le vedute dei rabbini talmudici. Come appartenenti al Sinedrio potevano essere eletti soltanto
uomini alti. L’altezza ‘perfetta’ sembra essere stata di circa 1,76 metri. La capigliatura doveva essere
abbondante e gli occhi grandi. Nel Talmud sono elencati 147 difetti fisici che impedivano l’accesso al
sacerdozio. Si è già parlato del naso piatto o camuso; ugualmente brutte o ripugnate erano le labbra carnose,
segno di un influsso negroide, il collo corto, un ventre grosso, i piedi piatti o la figura striminzita (2).
Una testa troppo rotonda era considerata brutta. Gli ebrei vedevano in questo tipo di testa un indicatore di
origine babilonese e la attribuivano alla scarsa professionalità delle levatrici babilonesi (3). Qui, forse, si
tratta di un rifiuto della forma cranica levantina a favore di quella orientalide. Krauss (cit., p. 249) riporta
che nel Talmud, in una occasione, si contrappone una “bella” testa ad una “allungata”.
Infine Isaia (3, 16 – 24) indica in che modo si ornasse il popolo ebraico, soprattutto le donne. Molto diffusa
era l’abitudine di imbellettarsi le sopracciglia e le palpebre con antimonio, così da renderle luccicanti (4).
VII. GLI EBREI DALLA DIASPORA AL SECOLO XIX
Dopo la morte di Salomone, nel 933 a.C., il suo regno si divise in due parti: nel Nord, Israele, con capitale
Samaria, nel Sud, Giuda, con capitale Gerusalemme. Il regno del Nord passò sotto gli assiri di Sargon II nel
722 a.C. e divenne la provincia assira di Samaria. Sargon prese prigionieri i più abbienti fra gli ebrei – i
documenti da lui lasciati parlano di 27.290 persone – e li portò in Mesopotamia e in Media. Al loro posto,
sul territorio di quello che era stato il regno di Israele, egli mise aramei, babilonesi, cutei/Kuthäer e altre
genti appartenenti a diverse stirpi del suo regno, tutte di razza prevalentemente levantina. Ma era rimasto
indietro un numero sufficiente di ebrei da rendere possibile, nel 720 a.C., una loro alleanza con altri vassalli
degli assiri, a Damasco, nella Fenicia settentrionale, e a Hamath, i quali inscenarono una rivolta comunque
facilmente repressa.
Nel 597 a.C., il re di Babilonia fra il 605 e il 562, Nabu-kuduri-ussur (Nabucodonosor) mandò un esercito
formato da guerrieri caldei, aramei, edomiti e ammoniti che sottomisero il regno di Giuda prima che egli
stesso si accingesse all’assedio e alla conquista di Gerusalemme. L’ultimo re di Giuda, e assieme a lui tutti
gli ebrei più notabili e ricchi, vennero fatti prigionieri e spediti a Babilonia. Nabu-kuduri-ussur istallò
Zidkijahu (Zedechia), che era già stato re di Giuda (637 – 607), come suo rappresentante; ma costui si lasciò
convincere dagli egiziani a sollevarsi, con la conseguenza, nel 587, che Gerusalemme fu di nuovo assediata
e conquistata. Zedechia e i suoi figli, nonché la maggior parte della popolazione di Gerusalemme e una parte
del resto della popolazione di Giuda, ancora una volta vennero trasportati a Babilonia. Quelli che rimasero
indietro, quasi tutti appartenenti alle classi più basse, furono sottoposti al governo di funzionari caldei con a
capo un certo Gedalia. Dopo che queso Gedalia fu assassinato da un ebreo, molti temettero una spedizione
punitiva babilonese e fuggirono in Egitto, qui si sitemarono a Tachpanhes, vicino alla frontiera. Sembra che
ci siano state altre rivolte, più o meno limitate, nel 582 o nel 581, con la conseguenza che altri ebrei furono
deportati, sempre a Babilonia.
Nelle zone conquistate della Giudea arrivarono dal Nord i resti della popolazione ebraica dell’ex-regno di
Israele, dall’Est ammoniti e dal Sud chelebiti e jerachmeeliti – tutte stirpi che, razzialmente, dovevano essere
molto simili agli ebrei antichi, anche se probabilmente avevano conservato un contenuto di sangue
orientalide molto più alto.
Nell’anno 539 a.C., il re di Persia Kurasch (Ciro) rovesciò la potenza babilonese e, nel 538, permise agli
ebrei di ritornare in Palestina e di ricostruire il tempio di Gerusalemme. Molti di loro, che intanto si erano
arricchiti esercitando il commercio, rimasero a Babilonia, dove, per molto tempo, esistette una influente
comunità ebraica che mandò spesso denaro agli ebrei ritornati in patria. Ma la maggior parte, soprattutto i
più devoti, erano ritornati in Giudea e a Gerusalemme.
È probabile che in qualche caso fossero accompagnati da mogli di origine babilonese, ma in generale la
mescolanza con i babilonesi dev’essere stata scarsa e, dal punto di vista razziale, dovette rafforzare in scarsa
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misura il contenuto levantino nella popolazione ebraica. Ad ogni modo si manifestarono subito attriti con
quella parte della popolazione che era rimasta in Palestina. Quelli che ritornavano erano mal tollerati
soprattutto per la separazione che intendevano mantenere con i loro correligionari rimasti, convinti della
loro superiore devozione, e questo li rendeva particolarmente odiosi. I dirigenti dei principali casati ritornati
(i “più antichi”), avvantaggiandosi della protezione persiana, presero nelle loro mani gli affari pubblici. Ma
con il tempo questi attriti si smorzarono, e gli incroci fra i servitori di Geova e le genti di altre origini e di
altra religione aumentarono, mettendo in pericolo la permanenza sia della fede che della stessa identità
popolare.
a) Neemia ed Esdra
Fu allora che intervenne Neemia, un ebreo ricco e importante, nominato governatore di Gerusalemme nel
445 a.C. In 52 giorni egli fece ricostruire le mura di Gerusalemme, nonostante l’opposizione dei non ebrei e
anche dei suoi stessi compatrioti. Convocò un convegno popolare, dove fece proporre e giurare una serie di
leggi. Fra i tanti obblighi e le tante proibizioni, ce ne fu una secondo la quale era interdetto agli ebrei
imparentarsi con gente di altra religione: “Allora vidi che c’erano ebrei che avevano sposato donne asdodite,
ammonite e moabite. Dei loro figli, la metà parlavano l’asdodita e non capivano più l’ebraico, oppure un’altra
lingua, a seconda del popolo di provenienza della madre. Allora mi lagnai davanti a loro e li maledissi;
alcuni li percossi e li trascinai per i capelli. E dopo imposi a loro, in nome di Dio: non darete le vostre figlie
ai loro figli né i vostri figli dovranno prendere le loro figlie per mogli” (Neemia 13,23 – 25).
Ciò che Neemia aveva cominciato fu proseguito dal sacerdote Esdra il quale, nel 433, ottenne il permesso
di ricondurre da Babilonia a Gerusalemme un gruppo di forse 1.750 ebrei. Ma prima ancora, basandosi su
leggi ebraiche più antiche, aveva messo insieme una serie di nuove imposizioni legislative in un libro che
egli chiamò la “Thorà di Mosé”, questo gli sembrò che potesse essere la base più appropriata per il
rinnovamento dell’ebraicità palestinese.
Secondo Esdra, le circostanze in Palestina erano soddisfacenti, fatta eccezione dei matrimoni sempre più
frequenti con gente di altra religione. Egli riuscì, attraverso un nuovo convegno popolare, a far approvare
provvedimenti più radicali: tutte le donne straniere e i loro figli dovevano essere espulse (Esdra 9, 10-12;
10,3). Il capitolo 10, 18-44 di Esdra fa un elenco di tutti i sacerdoti che avevano sposato donne non ebree, e
che dovevano essere espulsi come tutti gli altri ebrei imparentati con stranieri. Queste misure portarono
all’allontanamento dei samaritani dai devoti ebrei di Geova (cfr. più sopra).
Dall’azione di Esdra derivarono quei cambiamenti nella vita religiosa ebraica che la portarono poi ad
essere una rigidissima religione della legge. Questo implicava tutta una serie di norme riguardanti
purificazioni e sacrifici insieme ad obblighi religiosi che regolamentavano ogni atto quotidiano nel senso
della giustificazione o del peccato. Con ciò fu aperta la porta per lo sviluppo di tutte le sottigliezze dei vari
“conoscitori delle scritture”, insieme a quell’opprimente senso del peccato che da allora affligge tanti devoti
ebrei.
All’origine di questi cambiamenti si può riconoscere l’effetto dell’anima orientalide presente nell’ebraicità.
Nella vita religiosa delle stirpi prevalentemente orientalidi è riconoscibile una caratteristica tendenza,
evidente anche nell’islam, di concepire come condizione essenziale della devozione l’osservanza
“LETTERALE” delle prescrizioni religiose. Altra caratteristica della razza orientalide è quella di onorare la
“parola”, che si ritiene rivelata, nella sua forma FOSSILIZZATA; mentre la caratteristica della razza
levantina è quella di “commentarla”. I farisei diedero allora alla religione ebraica la sua forma ultima e
durevole. Essi fecero della devozione un’attitudine spirituale alla continua ritualità, “uno studio e un’arte, che
doveva essere appreso scolasticamente e praticata virtuosamente” (1).
Dal punto di vista razziale, l’operato di Esdra ebbe l’importante effetto di isolare geneticamente gli ebrei
dagli altri popoli. Il ripudio delle donne straniere e dei loro figli fu presentato come una “purificazione” del
popolo (cfr. Neemia 13,30), i popoli stranieri adesso erano “impuri” (cfr. Esdra 8,11) e con loro gli ebrei non
dovevano mischiare il loro “sacro seme” (Esdra 9,2). Questa chiusura e questa paura di “rendersi impuri”
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non era concepita da un punto di vista razziale, le altre popolazioni palestinesi infatti erano, razzialmente,
molto simili a loro, ma dalla paura della scomparsa del culto di Geova e del popolo ebraico in quanto
depositario di quel culto. Con il passar del tempo si dispersero in tutte le terre del Medio Oriente e
dell’Africa del Nord e più tardi in tutto il bacino del Mediterraneo, per cui si videro costretti a vivere nello
stesso territorio con popoli razzialmente diversi; NE VENNE CHE LA CHIUSURA RELIGIOSA E
NAZIONALE AGI’ COME L’ISOLAMENTO GENETICO DI UNA DETERMINATA
MESCOLANZA RAZZIALE.
Ancora fino a circa l’anno 1.000 d.C., individui singoli, o anche gruppi di stranieri che si convertivano alla
fede mosaica, vennero accettati nella comunità di sangue; ma non c’è dubbio che dopo Neemia ed Esdra la
chiusura fu sempre più rigida. Lo stesso Esdra non sembra fosse troppo soddisfatto di poter attirare donne
straniere e i loro figli al culto di Geova; egli nutriva scarsa fiducia per le caratteristiche psicologico-razziali
che queste donne potevano avere. È difficile indovinare, basandosi sui dati storici che rimangono, il senso
reale delle leggi di Esdra e di Neemia e le intenzioni che avevano quando le promulgarono. Ma, a partire da
Esdra, è sempre riconoscibile la tendenza alla chiusura, sia fra gli ebrei palestinesi che fra quelli
trapiantati in Occidente, e non solo dal punto di vista religioso, ma anche da quello genetico.
Ma dai tempi di Neemia e di Esdra, è riconoscibile un continuo aumento del senso del peccato, un senso
che predomina sempre nella vita religiosa delle popolazioni di razza prevalentemente levantina, e che fece la
sua apparizione anche fra i tardi greci, denordizzati e fortemente misti di sangue levantino (1).
Si diffonde la convinzione, già affiorata anticamente (1 Mosé 8,21) ma ora dichiarata con più forza, che le
inclinazioni degli uomini sono “cattive fin dalla gioventù”. Si insegna che l’uomo è “generato da una
semenza peccaminosa” e che è “concepito nel peccato” (Salmi 51,7); che tutti sono sulla strada sbagliata,
che nessuno fa del bene (Salmi 14,3). Verso il 250 a.C., Giobbe domanda (14,4) “Chi potrà trovare un puro
dove non ce n’è alcuno?” Si diffonde il senso dell’impurità umana, e che il “peccato” è qualcosa di ereditario
e connaturato all’uomo: è il “peccato originale”. La convinzione che il corpo umano sia la “carne” che
trascina al “peccato” (cfr. più sopra) si combina bene con questi punti di vista che non esistevano, in questa
misura, nell’ebraicità originaria (cfr. 5 Mosé 4, 7-11).
Queste idee sono state accettate anche dalle varie chiese cristiane. Goethe le rifiutò, parlando piuttosto
di una “virtù originale”. Davanti a tali concezioni ci si deve per forza domandare come una popolazione
con simili sentimenti non possa vedere sé stessa, anche geneticamente, come “assemblata”, e nei cui
precedenti genetici dovettero circolare certe irregolarità di tipo morale. Al concetto del “peccato originale”
sembra fosse legata la convinzione che esso non provenisse dal singolo ma dalla collettività di sangue. In
ogni caso, sembra anche che la stessa nozione di un “peccato” che pesa collettivamente su tutto un popolo
sia insorta, storicamente, solo fra gli ebrei della Palestina nei loro ultimi tempi, e che non fu accettata da
tutti se non dopo una certa resistenza (cfr. Geremia 31, 29; Ezechiele 18,1). Ci si può chiedere se a questo
acuirsi del senso del peccato non abbia contribuito l’atmosfera psicologica dei tempi di Neemia, secondo il
quale la mescolanza con sangue straniero rendeva il popolo “impuro”. Può darsi che certe tensioni e
contraddizioni fra le diverse anime razziali presenti nel popolo ebraico, soprattutto fra quella orientalide e
quella levantina, abbiano generato in tutta la popolazione la sensazione di essere ereditariamente
spregevole.
Anche Hueppe sospetta che “Un popolo veramente puro dal punto di vista razziale non avrebbe mai
potuto inventarsi una storia come quella dell’albero della conoscenza e del frutto proibito” (1).
Gli ebrei sembrano essere, in ogni caso, un popolo dalla “cattiva coscienza”, almeno quando se li si
confronta con persiani, elleni, romani e germani, che in confronto a loro risultano essere popoli “con la
coscienza in ordine” (2).
Le leggi di Neemia e di Esdra ebbero l’effetto di creare un senso di esclusività fra quei discendenti degli
ebrei antichi dai quali è derivata quell’ebraicità ora dispersa per il mondo. L’uso della parola Juden [giudei]
al posto di quella di Hebräer [ebrei] corrisponde all’uso lessicale del Vecchio e del Nuovo Testamento [ma
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solo in alcuni paesi - n.d.t.]. Le leggi di Esdra hanno contribuito a creare l’idea dell’ebraicità come fu
percepita da elleni e romani, e poi dall’intero mondo occidentale.
Non si deve pensare che il numero degli ebrei discendenti dagli antichi, ancora presenti al tempo di Esdra,
fosse tanto ridotto quanto può apparire dalle cifre riportate nel Vecchio Testamento, quando parla della
caduta di Giuda e di Israele e del ritorno da Babilonia. Se Israele, al tempo della sua caduta, aveva almeno
150.000 abitanti e Giuda 100.000 – secondo i calcoli di Petrie – bisogna ammettere che solo un sesto della
popolazione di Israele e un trentesimo di quella di Giuda fu deportato a Babilonia (3). Le cifre date dai
“conoscitori delle scritture”, che consideravano ebrei soltanto coloro che sapevano a memoria la “legge”
parola per parola, sono sicuramente inferiori al numero reale della popolazione ebraica. Petrie presume che
al tempo della dominazione romana, doveva essere grosso modo numerosa come ai tempi di Salomone.
b) La diaspora
Dopo la battaglia di Isso, nel 333, Alessandro il Grande divenne signore anche della Siria e della Palestina.
Era iniziata l’epoca ellenistica, e tutto il Medio Oriente e il Mediterraneo orientale divenne una zona
integrata di libero scambio nella quale lo spirito universalistico, in piena espansione, permetteva una libertà
generalizzata dei costumi insieme ad ogni mescolanze di popoli e razze. Negli ultimi secoli prima di Cristo
cominciò la diffusione degli ebrei, prima fra i popoli e gli stati ellenistici, e poi in tutto l’impero mondiale
dei romani. Come le possibilità commerciali dei tempi ellenistico-romani avevano attratto individui di razza
prevalentemente levantina, con l’impero romano attraversato continuamente dai commercianti siri, così si
diffusero anche gli ebrei.
Si è già parlato degli ebrei a Babilonia. Da Babilonia, sembra che già molto presto si siano trasferiti in
Armenia e nelle altre terre del Caucaso dove, già nel II secolo a.C. li troviamo abbastanza numerosi. Al
tempo dei diadochi dell’impero macedone comunità ebraiche si formano in Siria, ad Antiochia, in Egitto e in
Cirenaica, e poco più tardi anche in Grecia. A Pergamo, a Efeso, a Cesarea e soprattutto ad Alessandria ci
furono quartieri ebraici. Nei tempi ellenistici cominciò l’emigrazione volontaria dei commercianti ebrei in
tutto il mondo, in particolare verso l’Egitto e poi verso Roma e Babilonia (1).
Mommsen, nella sua “Römische Geschichte”, vol. III, 1856, descrive la sinistra influenza che esercitavano
a Roma già prima di Cesare. Cicerone (106 – 43 a.C.) lascia intravedere, nella sua orazione “Pro Flacco”
(28), quanto forte fosse l’influenza ebraica. Alcuni degli imperatori romani si comportarono
amichevolmente, ma altri furono loro nemici. Nerone favorì gli ebrei e i siri, tutta gente, secondo Cicerone,
incline ad un temperamento servile (2).
Quanto fossero dispersi già all’inizio dell’era cristiana, è indicato dal filosofo ebreo Filone di Alessandria,
nato nel 20 a.C., in una lettera della sua “Ambasciata a Caio”: “Io imploro perché la mia patria venga
favorita, e credo che si possa dire che Gerusalemme sia la capitale non solo della Giudea, ma anche di tanti
altri posti. Io imploro per le colonie ebraiche diffuse per il mondo da tantissimo tempo, dentro alle frontiere
dell’Egitto, in Fenicia, in Siria e in Celesiria, in Panfilia, in Cilicia e in altre zone dell’Asia fino alla Bitinia e
alle più distanti insenature del Mar Nero, in Europa, in Tessaglia, in Sicilia e in Macedonia, in Etolia, in
Attica ad Argo e nei luoghi più importanti del Peloponneso. E non solo le terreferme sono sommerse da
colonie ebraiche, ma lo sono anche le isole più importanti e conosciute, come l’Eubea, Cipro e Creta, per
non parlare delle terre al di là dell’Eufrate”. Manfrin, che cita questo brano, è dell’opinione che Filone non
stesse esagerando (1).
“Il famoso geografo Strabone, un coetaneo di Cristo, dice che si erano infiltrati dappertutto e non c’era
luogo al mondo dove essi non fossero importanti. Diversi altri scrittori, nonché iscrizioni e papiri, indicano
che questa affermazione è del tutto giusta. Dalle spiagge della Crimea e dall’interno dell’Asia fino alla
Spagna si estendeva una ragnatela di comunità ebraiche, grandi e piccole, che non solo erano in stretto
contatto fra loro, ma che lo erano anche, in continuazione, con Gerusalemme” (2). Fu in quei tempi di
dispersione che si formò quel senso di solidarietà che permise loro di mantenere il carattere di popolo anche
dopo che non ebbero più un territorio nazionale. “La patria degli ebrei sono gli altri ebrei, e l’ebreo
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combatte per gli altri ebrei come altri lo fanno pro ara et focis; non c’è alcuna comunità al mondo
tanto solidale come questa”. In questo modo Schopenhauer ha descritto la particolarità di questo popolo
senza terra (3).
Seguendo le vie commerciali che dalla Mesopotemia portavano in Oriente, si spostarono verso la Persia,
l’India e la Cina. In Cina arrivarono già attorno ai tempi di Cristo e fondarono loro comunità in alcuni
luoghi, delle quali quella di Kaifengtu (Honan) sopravvisse più a lungo. Lì, ancora nel IX secolo, abitava
qualche famiglia ebrea, i cui discendenti finirono per accettare le abitudini e la religione dei loro ospitanti
cinesi per poi mescolarsi con loro, ma ancora oggi dimostrano qualche tratto “ebraico” (1). Degli ebrei di
Kotschin (India) si è già parlato; e anche degli “ebrei” dell’Abissinia, i cui antenati certamente vi erano
emigrati prima dei tempi di Cristo. In Egitto c’erano comunità ebraiche già nel VII secolo a.C., come a
Tachpanhes, (vedi più sopra) ma anche a Migdol e a Noph (Geremia 46,17) nonché a Menfi e a Pathros (2)
(Ezechiele 30, 14-18) e in altri luoghi. I discendenti degli ebrei, provenienti dalla Palestina, dalla Siria e
dalla Mesopotamia, rintracciabili nel Caucaso nel II secolo a.C., avevano raggiunto, già verso la fine del I
secolo a.C., la Russia meridionale, quando già vi erano parcchie comunità ebraiche. Von Harnack calcola
che il loro numero totale verso i tempi di Cristo variasse dai 4 ai 4,5 milioni, dei quali un milione in Egitto,
oltre un milione in Siria e circa mezzo milione in Palestina. Secondo lui, ai tempi di Augusto, circa il 7%
della popolazione dell’impero romano era ebrea. Per i dettagli del calcolo rimando al testo del von Harnack
(3).
Con la dispersione anche la loro storia razziale diventa meno chiara; e la storia razziale di quelli rimasti in
Palestina diventa meno importante di quella del popolo ebraico nel suo complesso. Essi non furono più in
grado di influire significativamente sull’intero processo di selezione razziale, soprattutto nei riguardi degli
ebrei che si erano mossi verso l’Europa sud-orientale e poi occidentale. Vale comunque ricordare le lotte dei
secolo I e II avanti Cristo, descritte parzialmente nei libri dei Maccabei. Il loro risultato fu un fortissimo
sradicamento che influì sulla totalità della popolazione ebraica che da allora si chiuse in un odio dissennato
verso tutto ciò che era cultura ellenistica, sospinta dai religiosi più ottusi e fanatici. Eduard Meyer descrive,
nel suo “Ursprung und Anfänge des Christentums [Origine e inizi del cristianesimo]” (vol. II, 1925, p. 229 e
p. 280 segg.), con quale brutalità questi fanatici si comportassero verso gli altri ebrei; come li
sterminassero – uomini, donne e bambini – e come distruggessero le loro città. I racconti di Eter e di
Giuditta, scritti nella stessa epoca, rivelano il medesimo odio rabbioso. Per gli ebrei della Palestina quei
tempi significarono la selezione di un tipo umano tendente al fanatismo religioso e alla più assoluta
intolleranza. Tutti quelli che pensavano diversamente furono massacrati e non lasciarono discendenti. Ma
anche questi fanatici evidentemente dovettero subire perdite notevoli. Ci si può facilmente immaginare come
le stirpi guerriere, da una parte e dall’altra, si siano eliminate a vicenda. Questa storia di massacri non gettò
le basi per la formazione di un nuovo stato ebraico, anzi, “Il dominio ebraico era più inefficiente e più
nemico di ogni cultura che non quello dei loro rivali, gli arabi nabatei, i quali, prima saccheggiarono il
territorio a dovere, poi si mostrarono sensibili alla cultura e ricostruirono le città” (Eduard Meyer, cit. p.
281).
Lo sviluppo delle guerre dei Maccabei rende chiaro “Che l’imposizione del dominio romano e la
liquidazione dello stato pirata ebraico, portata a termine da Pompeo, fu una benedizione” (Eduard Meyer).
Nelle lotte prima contro i loro signori ellenizzati e dopo contro i romani, caddero tantissimi ebrei con qualità
di combattenti; ma in ogni caso, quel che successe in Palestina nel I e nel II secolo a.C. non poté avere alcun
effetto sui processi di selezione razziale del popolo nel suo insieme. Si è voluto attribuire la scarsa qualità di
combattenti che hanno gli ebrei a questi fatti storici; ma ciò è difficilmente accettabile. La loro relativa
combattività va piuttosto attribuita a processi di selezione che hanno avuto luogo nel Medioevo. La natura
“poco guerriera” dell’ebreo, è stata misurata con riferimento alla sua partecipazione a guerre fra non-ebrei,
mentre avrebbe dovuto esserlo con riferimento alla difesa di un (ipotetico) stato nazionale ebraico.
In ciò che segue la dispersione degli ebrei non sarà descritta dettagliatamente, ma da quanto esposto è del
tutto chiaro che erano già penetrati in profondità in Asia, in Africa e in Europa molto prima che la Giudea,
nel 70 d.C., diventasse provincia romana e che, nello stesso anno, Tito distruggesse Gerusalemme e il suo
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tempio. Ma la diffusione ebraica che seguì a questi fatti, ebbe luogo soprattutto secondo due grandi direzioni
migratorie: una dalla Palestina attraverso il Caucaso e l’Asia Minore verso l’Europa sud-orientale; l’altra
seguendo le coste del Mediterraneo verso occidente. Hudson (A history of the Jews in Rome [Una storia
degli ebrei a Roma], 1884) propone che già verso i tempi di Cristo gli ebrei fossero divisi in due grandi
gruppi: uno orientale: gli ebrei di Babilonia, della Caldea, dell’Assiria e della Persia; e uno occidentale: gli
ebrei della Palestina, dell’Egitto e delle altre provincie dell’Impero Romano. Da questi due gruppi derivano
da una parte gli Aschkenasim [aschenazi], cioé gli ebrei orientali, e dall’altra i Sephardim [sefarditi], gli
ebrei meridionali. Ambedue questi gruppi saranno considerati in profondità (1).
Durante il medioevo, seguendo le vie del commercio, gli ebrei meridionali (Sephardim) raggiunsero la
penisola Iberica e poi la Francia meridionale da dove, risalendo il Rodano, arrivarono nelle zone del medio
Reno e a Francoforte. Ma già nel III secolo erano in Alsazia e nelle zone franche del Reno dove tuttora sono
relativamente numerosi. C’è stato chi ha voluto vedere nella loro presenza la causa della statura media
relativamente bassa degli abitanti di Francoforte e dintorni. Buona parte degli ebrei sefarditi della Spagna
furono espulsi nel 1492 e ritornarono in Nordafrica, in Turchia e nelle zone costiere del Mediterraneo
orientale; ma anche in Siria, nelle città di Damasco e di Aleppo, dove questi ebrei, detti “spagnoli”, finirono
per mescolarsi con la popolazione locale (2). Ai sefarditi, ancora oggi, è permessa la poligamia quando
abitano in mezzo a popolazioni dove questa pratica è legale. Dal secolo XI la poligamia è proibita invece
agli aschenazi. Questi si distinguono poi dai sefarditi anche dal modo con cui pronunciano l’ebraico,
compreso qualche dettaglio liturgico del culto.
Gli ebrei orientali (Aschenazi), della cui diaspora nel primo Medioevo si è già parlato, avevano raggiunto
già nel secolo VIII la Crimea dove, nel secolo IX, si diffuse la setta ebraica dei Carei; e nella stessa epoca
erano ancora più numerosi a Bisanzio. Nel secolo XII si sente parlare di una rotta commerciale continua, in
mano ad ebrei, che si estendeva dall’Arabia e dall’Abissinia attraverso Ceylon e Lambri (Sumatra) fino in
Cina (1), dalla quale è lecito pensare che partissero varie diramazioni lungo le vie commerciali degli ebrei
della Persia e del Caucaso. Attraverso incroci con le genti autottone del Caucaso, il contenuto di sangue
levantino negli ebrei orientali dev’essere aumentato continuamente. Ma l’avvenimento decisivo per quel
che riguarda la loro composizione razziale, fu la mescolanza con una parte del popolo dei Khazari.
I Khazari furono, per quanto se ne può sapere, originariamente un popolo misto formato da genti turcofone
centroasiatiche e da genti europidi di lingua ugro-finnica. Nei secoli VI e VII d.C. avevano fondato un
regno nel quale si trovavano anche centri commerciali importanti nella zona del basso corso del Volga e del
Don, e lungo le coste settentrionali del Mar Nero e del Mar Caspio. Facendo perno su questa zona e
utilizzando la protezione delle loro forze armate, erano diventati gli intermediari di tutto il commercio in
direzione dell’Asia Minore, dell’India, dell’Asia centrale e della Siberia. Nel secolo X, il regno dei Khazari
fu travolto da un attacco combinato russo e bizantino, del quale i dettagli storici sono poco conosciuti. Una
parte della classe dirigente khazara si rifugiò in Crimea, un’altra in Asia centrale e in Spagna.
Il commercio khazaro, già nel secolo VIII, era stato il polo di attrazione per molti ebrei e molti arabi.
L’influenza degli immigrati ebrei divenne presto tanto importante che “la casa regnante del Khan dei
khazari, assieme alle classi superiori del popolo khazaro, si convertirono all’ebraismo” (1). I conversi khazari
finirono con il formare parte della comunità di sangue degli ebrei orientali – e non dovettero essere pochi
perché, imitando l’esempio della loro classe dirigente, moltissimi si devono essere convertiti fra i secoli VIII
e X. Fu allora che per la prima volta l’ebraicità orientale ricevette un influsso razziale che doveva
renderla sostanzialmente diversa dall’ebraicità meridionale.
Ma quali razze costituivano il misto razziale khazaro? – Secondo Pruner-Bey (1) fra loro c’erano
raggruppamenti “bianchi” e “neri”. Ci si può rappresentare questa gente come un misto di razze mongolide,
balto-orientale e levantina con un lieve influsso nordico; cioé non dissimili dagli attuali baschkiri,
calmucchi, chirghisi e tartari (2). Gli ebrei orientali avevano già acquisito un sovrappiù di sangue levantino
del Caucaso; e ora, tramite loro, il popolo ebraico nel suo insieme acquisì quegli influssi razziali mongolici e
balto-orientali che prima erano del tutto assenti (3).
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Per quel che riguarda i tratti somatici e le proprietà psicologiche della razza balto-orientale cfr. Günther,
Rassenkunde des deutschen Volkes [Razziologia del popolo tedesco], 13a. edizione, 1929. Tratti più
importanti della razza balto-orientale: bassa statura, brachicefalia, viso largo, mascella massiccia e pesante,
mento debole, naso camuso, corto e relativamente largo con la radice piatta, capelli chiari (biondo cenere),
occhi protrudenti e chiari (grigi o azzurri), pelle chiara con tonalità grige. Questi influssi, poi rafforzati da
altre mescolanze con genti di lingua slava e di razza prevalentemente balto-orientale, stanno alla base delle
differenze razziali fra ebrei orientali e meridionali.
Fra i tratti somatici che gli ebrei acquisirono tramite i khazari ci sono gli “occhi mongolici” che secondo
Metschnikoff (1) sono riscontrabili soprattutto fra i bambini ebrei, ma che probabilmente sono più che altro
fenomeni di epicanto ottico, una forma delle palpebre che in Europa orientale è relativamente comune e che
spesso non viene distinta dalla conformazione oculare mongolica (2). Quando von Luschan osserva che, sia
pure di rado, fra gli ebrei si incontrano individui dall’aspetto “giapponese” (3) – e con lui concorda
Wagenseil (4) – è probabile che influssi del genere abbiano raggiunto il popolo ebraico attraverso la
mescolanza con i khazari.
Già nei secolo X e XI gli ebrei orientali avevano raggiunto l’attuale Rutenia. Da lì, nel secolo XII, si
mossero verso la Galizia e la Polonia. L’attacco dei tartari nel secolo XIII ne spinse molti ad abbandonare la
Russia meridionale per la Polonia e la Russia settentrionale. Già nel secolo XIV gli ebrei orientali dovevano
già aver raggiunto tutte quelle zone dell’Europa dell’Est dove ora si trova la maggior parte dei loro
discendenti. Immigrati provenienti dalle comunità ebraiche della Turchia e della Romania dovettero poi
rafforzare il loro numero. Siccome la Russia, fino ai tempi di Pietro il Grande (1682 – 1725), tentò di
chiudere le sue frontiere all’immigrazione ebraica, gli ebrei si diffusero soprattutto nel territorio dell’allora
Grande Polonia, tracimando anche fuori dalle zone di lingua polacca per arrivare in Curlandia, in Lituania,
in Prussia Occidentale e nella Russia Bianca e, verso Sud, di ritorno in Galizia, in Volinia e in Ucraina – in
quei territori, dunque, dove ancora oggi sono particolarmente numerosi (cfr. mappa V) (Oggi non è più così.
Si ricordi sempre che Günther scriveva negli anni Venti n.d.t.).
Nei secoli XIV e XV l’ebraicità orientale riassorbì un discreto quantitativo di sangue sefardita, per cui fra
questi ebrei si iniziò ad incontrare anche individui di quel particolare aspetto. Questo avvenne per il
riaffiorare di tratti genetici di razza orientalide, che certo non mancavano tra gli ebrei orientali; ma è anche
possibile che questo sia stato determinato da una immigrazione sud-ebraica nei secolo XIV e XV, che
arricchì l’ebraicità orientale di quei tratti ereditari propri degli antichi ebrei della Palestina.
Le Crociate ebbero come conseguenza persecuzioni ed espulsioni di ebrei. All’inizio del secolo XIV gran
parte di quelli residenti in Germania andarono in Polonia, dove furono assorbiti dagli ebrei orientali già sul
posto, oppure (ammesso che in Polonia, come presume un certo studioso di storia, gli ebrei non fossero
allora tento numerosi come lo furono in seguito) si incrociarono per dare origine, in parti equivalenti,
all’ebraicità orientale come noi la conosciamo. Il re di Polonia Casimiro il Grande (1333 – 1370) favorì
l’immigrazione ebraica proveniente dalla Germania, concedendo loro speciali diritti. La sua intenzione era
quella di costruire un qualche tipo di classe media, che nella Polonia di quel tempo mancava del tutto. Lo
‘jiddisch’, lingua di uso corrente fra gli ebrei orientali, deriva infatti dal dialetto franco renano di quei giorni,
e i cognomi ebrei orientali sono, ancora oggi, quasi tutti di origine tedesca.
In Europa orientale vi furono rimescolamenti di ebrei con genti di lingua slava che introdussero nel popolo
ebraico rinnovati influssi di razza balto-orientale, e in misura minore anche di razza nordica, e qualche volta
di razza sudetica (1). Ci devono essere stati anche influssi di razza dinarica e, in maggior misura, di razza
estide, ora percepibili in ogni raggruppamento di ebrei orientali (2). Così ben difficilmente si può vedere
negli ebrei orientali dei “semiti”, quando per semiti si debba intendere genti portatrici di un forte influsso
orientalide come lo furono i primi ebrei. Le figure e i visi di tipo orientalide-levantino che agli occidentali
rivelano un tipo “semitico” o “levantino”, fra loro sono piuttosto rari.
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Oggi gli ebrei orientali rappresentano circa i nove decimi di tutta l’ebraicità e includono gli ebrei della
Russia, della Polonia, della Galizia, dell’Ungheria, dell’Austria e della Germania, nonché la maggioranza
degli ebrei dell’America del Nord e buona parte di quelli dell’Europa occidentale. Ma a questo punto il loro
misto razziale, in termini generali, può essere specificato così: levantino/orientalide-balto/orientaleestide-
mongolide-nordico-camitico-negroide.
Gli ebrei meridionali, forse un decimo del totale, includono quelli dell’Africa, dei Balcani, dell’Italia, della
Spagna e del Portogallo nonché una parte degli ebrei della Francia, dell’Inghilterra e dell’Olanda. Durante la
sua migrazione lungo le coste del Mediterraneo, questo raggruppamento ha probabilmente perso una parte
della componente razziale levantina, mentre ha rafforzato le sue componenti orientalidi, occidentali,
camitiche e negroidi, quasi tutti influssi di razze dolicocefale. Gli ebrei meridionali (sefarditi) costituiscono
un misto razziale che, in termini generali, può essere specificato come orientalide-levantino-occidentalecamitico-
nordico-negroide. Il loro numero totale si stima possa essere di 1.410.000, dei quali in Palestina ce
ne sono 37.700 (1).
Una parte degli ebrei meridionali, espulsi dalla Spagna nel 1492, furono accolti in Olanda. Forse alcuni di
loro hanno risalito il Reno, mentre altri si sono trasferiti da Amsterdam ad Amburgo; ma sembra che questi
gruppi, almeno in massima parte, siano ormai estinti. Gli ebrei dell’Europa centrale oggi sono quasi
interamente di tipo orientale (aschenazi).
Le due ramificazioni dell’ebraicità: i sefarditi e gli aschenazi, si considerano tuttora gruppi separati, sia
somaticamente che psicologicamente. Le famiglie sefardite evitano, entro i limiti del possibile, di
imparentarsi con famigli aschenazi; e da quei circoli ebraici dove le famiglie più potenti sono sefardite,
irraggia una certa ostilità verso tutta l’ebraicità orientale. Nei circoli mosaici sefarditi, gli ebrei orientali
devono occupare un posto separato all’interno delle sinagoghe. “Fino a un paio di secoli fa gli ebrei
’spagnoli’ praticavano addirittura l’esclusione degli ebrei ‘tedeschi’, che consideravano “inferiori” (1).
Le differenze razziali che distinguono i due gruppi ebraici sono stata percepite anche dagli osservatori
appartenenti ai popoli occidentali – su questo più avanti. Ma ciò che i due gruppi hanno in comune è tanto
evidente che sono sempre stati considerati, e si sono sempre considerati, come appartenenti allo stesso
popolo. Le mescolanze con le popolazioni non-ebraiche non sono mai state molto frequenti, né fra gli uni né
fra gli altri, per cui gli ebrei residenti fuori dal Medio Oriente – cioé fuori dal territorio dove le genti con loro
confinanti erano comunque razzialmente affini – non ebbero mai la tendenza ad acquisire un aspetto simile a
quello delle genti in mezzo alle quali risiedevano. Ciò è tanto più evidente quando le popolazioni europee
ospitanti possiedono un minimo di influssi razziali medio-orientali-africani o microasiatico-sudesteuropei,
allora gli ebrei, siano essi meridionali od orientali, risaltano subito, da un lato come razzialmente allogeni,
dall’altro come razzialmente affini fra di loro.
c) L’isolamento
L’osservanza continua e reiterata delle norme esclusivistiche dei tempi di Esdra e di Neemia, che fu cura
permanente di una casta sacerdotale fedelissima alla legge, permise di mantenere (meglio fra i sefarditi,
meno fra gli aschenazi) il composto razziale dei tempi della Palestina antica. Questa casta sacerdotale ha
predicato, per secoli, che l’ebraicità doveva chiudersi su sé stessa. Anche se questa chiusura si riferiva
soprattutto agli aspetti religiosi, dopo Neemia ed Esdra (cfr. più sopra) ci fu sempre una forte diffidenza
verso i matrimoni misti, tutto questo perchè l’eventuale discendenza poteva costituire un pericolo per la
sopravvivenza della stessa fede.
Il Talmud, conseguentemente, ha imposto l’isolamento degli ebrei non solo dal punto di vista religioso, ma
anche da quello genetico. Esso fu scritto per la maggior parte fra il 150 e il 450 d.C., e divenne quel libro di
leggi del massimo prestigio “che fino ai nostri giorni è stato determinante per l’orientamento selettivo degli
ebrei. Questo ‘libro di testo’ – Talmud significa ‘libro di testo’ – secondo una dichiarazione della Allgemeine
Zeitung [Gazzetta generale] dell’ebraicità (N. 45, 1907), riflette l’animo ebraico in modo acuto ed esatto”.
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Esso, secondo Perles, dà “nel suo insieme la soluzione ad ambedue gli aspetti di un difficile problema:
mantenere pura l’ebraicità che è la portatrice collettiva di questa dottrina, e, nello stesso tempo, mantenere in
esistenza gli stessi ebrei, che sono i singoli portatori della dottrina” (1). Da qui la preoccupazione per una
crescita numerica sufficiente e, nello stesso tempo, la cura per quella salute ereditaria di buon livello, di cui
si è già parlato. Da qui anche l’insistenza su una differenziazione ereditaria fra ebrei e non-ebrei, e
l’esasperazione dell’idea dell’elezione da parte di Geova.
La volontà di separazione genetica degli ebrei dagli altri popoli, voluta da Geova – cfr. 2 Mosé 34,3-12; 3
Mosé 20; 26 e 5 Mosé 7,2-3 – e quindi di isolamento del composto razziale ebraico da quello di ogni altro
popolo, non sfuggì, ancora prima della compilazione del Talmud, all’attenzione delle altre genti. Il libro di
Ester, scritto verso il 130 a.C., che si basa su racconti mitologici babilonesi o elamiti, parla (3,8) del
persiano Haman il quale fa notare al suo re Aasvero come gli ebrei pur dispersi in tutto il suo regno, si
mantenessero comunque isolati dal resto delle popolazioni ed obbedissero solo a leggi proprie, diverse da
tutte quelle valide per gli altri. Il loro sentimento di diversità da ogni altro popolo, accompagnato
dall’affermazione di essere gli “eletti”; l’intolleranza della fede mosaica, che negava la sovranità di ogni altro
dio – tutte queste cose hanno contribuito in modo determinante all’”antisemitismo”: a quell’odio verso
gli ebrei che esiste da quando cominciarono a disperdersi fuori dalla Palestina, odio sentito anche dagli
altri popoli di lingua semitica, anzi, in questi si può dire sia ancora più acuto perchè, come semiti, anche
loro sono animati esattamente dalla stessa intolleranza religiosa.
Non ci può essere dubbio che la tendenza all’isolamento genetico non fu indebolita dalla dispersione
degli ebrei fra gli altri popoli, ma piuttosto rafforzata. Tacito, nelle sue “Storie”, ci dà notizia di come gli
ebrei odiassero tutto ciò che non fosse giudaico, e fa notare (V,5) come essi non si mescolassero con altri
popoli (alienarum concubitu abstinent), se ne stavano sempre “separati nelle mense e negli alloggiamenti” e
le loro idee e le loro abitudini erano spesso l’opposto di quelle altrui: “Per loro è spregevole tutto ciò che
per noi è sacro, mentre a loro è permesso tutto ciò che per noi è ripugnante”. Ma già all’inizio dell’era
cristiana questo odio per tutto ciò che non era ebraico fu ricambiato dalle popolazioni non-ebraiche con un
altrettanto crescente odio verso di loro. Paolo, nella sua lettera ai tessalonicesi (2,15) scrive che “nessuno
può sopportare gli ebrei” (1). La differenza razziale avrebbe potuto anche essere la causa di quella ripuganza
che sentivano i romani, i quali si riferivano a loro con toni sarcastici e spregiativi, così Cicerone, Orazio,
Marziale, Giustino e Giovenale. Ma per i persiani e gli arabi medioevali, che pure si espressero
spregiativamente verso gli ebrei, difficilmente si può pensare ad una causa del genere; la causa fu piuttosto
l’orientamento talmudico degli stessi ebrei ortodossi, i quali rifiutavano ogni modo d’essere che non fosse
ebraico e talmudico. Per il mantenimento del misto razziale ebraico, e per la difesa contro l’intrusione di
sangue straniero, deve essere stato importante il fatto che il Talmud – che enfatizzò certe proibizioni di
Geova come quelle indicate in 5 Mosé 2,25 – fece una distinzione netta fra ebrei e non ebrei, chiamando i
primi il “popolo eletto” e indicando i secondi (cioè tutti noi nde) come una specie di animali (parlanti)
che dovevano solo essere disprezzati (2). L’etica ebraica, che prescrive norme del tutto diverse per il
comportamento che si deve tenere verso gli ebrei e verso i non-ebrei, già adombrata nel Vecchio Testamento
(cfr. 5 Mosé 7,16; 15,2 e 3,23, 19 e 20; Isaia 60,12), fu portata alle estreme conseguenze proprio dal Talmud
e dallo Schulchan Aruch, scritto attorno ai tempi della Riforma protestante. C’è sempre la stessa insistenza
sul fatto che la differenza fra ebrei e non-ebrei sta nel sangue.
Gli ebrei sono stati l’unico popolo che abbia ancorato la propria consapevolezza genetica al fatto religioso
(1). “A nessun altro popolo al mondo è riuscito, dopo un determinato periodo di mescolanze razziali, di
poter fissare al posto dell’ereditarietà biologica una esclusivistica tradizione religiosa di ereditarietà etnica”
(2). Diviene nel contempo ovvio quel pericolo, legato alla diminuzione dell’osservanza religiosa, che inizia a
rivelarsi minaccioso per gli ebrei del nostro tempo. Diminuisce anche l’osservanza di quell’isolamento che
serviva a mantenere l’identità etnica ebraica, con la conseguenza che anche la prolificità dei connubi ebraici
diminuisce.(1)
Zollschan (Das Rassenproblem [Il problema delle razze], 1910) presupponeva che, dai tempi di Neemia e
di Esdra, il popolo ebraico fosse rimasto essenzialmente libero da mescolanze. Questo non può essere
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sostenuto alla lettera, anche se è vero che da Esdra in poi c’è stata una crescente tendenza all’isolamento
genetico. Nei secoli trascorsi prima e dopo i tempi di Cristo, ci furono non poche “disattenzioni” alla legge
di Mosé. Nei tempi ellenistici, i matrimoni misti con fenici siri e greci non furono particolarmente rari. Al
tempo dei romani la fede ebraica contagiò gli edomiti. Fino all’abolizione della schiavitù, verso il 1.000 d.C.,
gli schiavi e le schiave degli ebrei ricchi che abitavano l’Occidente potevano essere ammessi nella comunità
di sangue ebraica, se si convertivano al credo mosaico. Nei secoli IV e V, un certo numero di arabi
meridionali accettarono la fede ebraica e vennero ad essere, almeno in parte, gli antenati degli attuali ebrei
dell’Arabia meridionale – probabilmente quella parte alla quale gli attuali ebrei dell’Arabia meridionale
devono i loro forti tratti camitici e anche pigmoidi (cfr. più sopra, a proposito di pigmei). Attraverso tutti
questi passaggi è probabile che il misto razziale ebraico si sia in parte modificato nelle sue proporzioni, ma
in ogni caso ad esso non si aggiunsero influenze razziali che già non fossero presenti. Bisogna anche
ammettere che le persone o i gruppi umani che passarono alla fede mosaica erano già somaticamente e
psichicamente simili agli ebrei, quindi i corrispondenti passaggi riflettevano soltanto una razziale “affinità
elettiva”(1). Viceversa, bisogna ammettere che gli ebrei emigrati in Europa sentissero la loro estraneità
razziale e, contemporaneamente, la loro affinità per il misto razziale che costituiva l’ebraicità di fede
mosaica, al punto che le conversioni di non-ebrei all’ebraismo dovettero sembrare pazzesche. Dal punto di
vista razziologico risulta appariscente soltanto la conversione dei chazari.
Si dice che nel secolo XIII un certo numero di magiari si siano convertiti al mosaismo: “Un arcivescovo ci
informa, nel 1229, che in Ungheria non pochi ebrei coabitavano con donne cristiane e che ci furono migliaia
di conversioni” (2). Il vescovo in questione, terrorizzato da questi fatti, probabilmente esagerava. La
composizione razziale dei magiari, che già prima del loro stanziamento in Ungheria includeva una piccola
componente levantina (3), forse spiega perchè alcuni di loro si sono sentiti attratti verso la fede mosaica.
L’isolamento genetico quasi completo dell’ebraicità, che continuò fino alla cosiddetta emancipazione degli
ebrei verso il 1.800, si era concluso verso l’anno 1.000. Nel 1.000, in Occidente, il cristianesimo si era
definitivamente affermato come religione predominante. Fino al secolo VI, circa, nel cristianesimo si era
mantenuto ancora un certo senso di affinità spirituale e di comunanza di origine con l’ebraismo mosaico.
Dopo il 1.000, la chiesa di Roma iniziò a proibire i matrimoni misti fra ebrei e non-ebrei, che nell’alto
Medioevo erano permessi. Un poco alla volta le chiese cristiane si chiusero all’ebraismo, e ancora di più
verso tutti coloro che professavano un’altra religione. Nei secoli che seguirono il 1.000 valse l’affermazione
di Auerbach secondo la quale “durante tutto il Medioevo e fino agli inizi del secolo XIX, gli ebrei si sono
mantenuti completamente puri dal punto di vista razziale” (4). Sempre presupponendo che per “purezza
razziale” si intende la “purezza” di un certo MISTO razziale che non ha più subito ulteriori mescolanze.
Anche senza voler dare eccessiva attenzione ad avvenimenti singoli e di scarsa importanza, resta il fatto che
l’asserzione di Auerbach non può essere vista proprio come assolutamente valida. Verso il 1870 circa 30
famiglie, gli ultimi resti della setta dei ‘Sabbatarier’, apparsa nei Siebenbürgen [Transilvania] nel secolo
XVII, si convertirono all’ebraismo (1).Dopo, a quanto sembra, ci furono dei passaggi di certe sette russe, la
cui dottrina non era molto dissimile da quella mosaica. In ogni caso, l’opposizione fra cristiani ed ebrei, che
si rafforzò considerevolmente ai tempi delle Crociate, rese l’isolamento genetico reciproco quasi tanto reale
da giustificare comunque le affermazioni da Auerbach.
Nel periodo che sta fra la diaspora e la cosiddetta emancipazione, l’ebraicità subì anche perdite dovute
alla conversione di ebrei ad altre religioni, per cui essi e i loro discendenti andarono persi per il popolo
ebraico nel suo insieme; e questo anche se la legge religiosa ebraica dichiara che chi è nato da genitori ebrei
non potrà mai perdere l’appartenenza alla comunità ebraica (2). Un ebreo che si sia convertito ad un’altra
confessione religiosa può essere ancora considerato ebreo mosaico per determinati scopi religiosi, cosa
impossibile per un non-ebreo. In questo modo l’ebraicità, in quanto popolo, tenta di tener legati a sé, o
ricuperare, quelli fra i suoi componenti che per aver cambiato la loro religione rischiano di essere persi. Ma
nei tempi che stiamo considerando, quando l’appartenenza religiosa era particolarmente importante – più
dell’appartenenza etnica – la regola doveva essere che quando un ebreo aderiva ad un’altra religione egli, e la
sua discendenza, erano definitivamente perduti per l’ebraicità. Nell’alto Medioevo diversi ebrei si fecero
musulmani o cristiani. In Spagna ci furono diverse conversioni di ebrei al Cristianesimo, indipendentemente
da quelle di convenienza dei marranos (gli ‘ebrei battezzati’), obbligati per legge a battezzarsi ma che in cuor
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loro continuavano a restare ebrei. A partire dalla fine del secolo XVIII lo spirito dell’”illuminismo”
nell’Europa centrale e occidentale, ebbe come effetto che non pochi ebrei abbandonarono la fede mosaica e
aderirono al Cristianesimo. Dall’inizio del secolo XIX incominciarono ad aumentare i matrimoni misti fra
ebrei e non-ebrei, che prima erano rarissimi. Una parte di questi matrimoni ebbe come conseguenza che il
marito o la moglie ebrei, o la loro figliolanza, finirono per allontanarsi dalla comunità popolare ebraica,
mentre un’altra parte vi inserì componenti razziali che prima non vi erano.
I tempi dell’isolamento completo – grosso modo fra il 1.000 e il 1.800 – deve aver originato, o per lo meno
innescato, all’interno del composto razziale ebraico, una certa uniformizzazione in ragione di sviluppi di
ereditarietà e di selezione. A ciò sicuramente contribuì la vita nel ghetto – il quartiere ebraico – un tipo di
vita che non fu imposto agli ebrei dai loro vicini non-ebrei, ma da loro SCELTO per poter stare del tutto
isolati. “Bisogna ammettere che dopo la diaspora, gli ebrei, che si sentivano una minoranza minacciata, si
ammucchiassero nei loro quartieri, nello stesso modo che al giorno d’oggi gli europei hanno i loro quartieri
negli stati extraeuropei e come è sempre stata d’abitudine in Oriente, dove ogni etnia, o addirittura ogni setta,
abitava lungo determinate strade”(1). L’orientamento della selezione fra gli ebrei meridionali sembrerebbe lo
stesso anche di quello degli ebrei orientali. Quei tratti ereditari che alle genti occidentali fanno l’effetto di
essere “tipicamente ebraici”, si devono essere incrementati in ambedue i rami della ebraicità.
d) Processi di selezione ereditaria nel popolo ebraico
Per rendere questi processi comprensibili, bisogna descrivere quei fenomeni ereditari che hanno luogo
dopo che due o più razze si sono incrociate. Al riguardo si faccia riferimento ai miei “Rassenkunde des
deutschen Volkes [Razziologia del popolo tedesco]” e “Rassenkunde Europas [Razziologia dell'Europa, tr.
it. Tipologia razziale dell'Europa, Ghenos, Ferrara, 2003]“. In questa sede l’argomento sarà toccato spesso,
trascrivendo letteralmente alcune proposizioni presenti in quelle opere.
La maggioranza di coloro che nella scienza dell’ereditarietà e della razziologia non hanno una profonda
conoscenza, pensano che dalla mescolanza di due o più razze risulti una “razza mista” o una “nuova razza”
che viene ad essere una ‘media’ fra i caratteri sia somatici che psicologici delle razze originanti. Tutte queste
nozioni sull’origine e sullo sviluppo delle “razze miste” sono sbagliate. Questo avrebbe potuto dedursi
anche dagli esperimenti fatti su piante e animali che seguirono la scoperta, nell’anno 1900, delle cosiddette
leggi di Mendel, eseguiti quasi contemporaneamente alle prime ricerche fatte da Eugen Fischer su uno
specifico misto razziale umano, quello dei Baster di Rehoboth in Africa sud-occidentale (1). Ciò che Eugen
Fischer dice a proposito della forma del cranio, vale anche per tutte le altre caratteristiche ereditarie umane:
“In tutte le popolazioni che, dimostrabilmente, sono il risultato dell’incrocio di due razze diverse, non si
riscontra una lunghezza del cranio uniformemente media con quella delle razze originarie; la curva di
variazione invece indica due picchi, corrispondenti ai due valori propri delle razze componenti” (2).
Nello stesso modo, gli incroci fra consanguinei, frquenti fra gli ebrei, e continuati per secoli (cfr. anche
sopra), non hanno fatto di questo popolo una “razza’, una “razza mista” o una “nuova razza”. Ogni popolo
viene ad essere un determinato misto razziale all’interno del quale i tratti specifici di ogni razza vengono
ereditati indipendentemente gli uni dagli altri: così, nel medesimo individuo, la statura corrispondente
ad una razza va insieme alla forma cranica di un’altra, il colore della pelle di una con il colore degli
occhi di un’altra, il colore dei capelli di una con l’ordito dei capelli di un’altra. Si ricordi che ci sono
ebrei biondi con i capelli crespi; la forma degli orecchi di una con la forma del naso di un’altra, la forma
delle labbra di una con la conformazione delle parti molli orbitali di un’altra, ecc. Poi, può succedere che nel
trascorrere delle generazioni, abbiano luogo degli smistamenti per cui, anche dopo il rimescolamento totale
dei tratti razziali originari, possono apparire individui con caratteristiche somatiche e animiche di una sola
delle razze inizialmente mescolate (3).
Una “razza mista” – diventata stabilmente ereditaria e all’interno della quale non si originano se non
individui con le stesse caratteristiche somatiche e animiche – può apparire solo sotto particolari circostanze e
dopo tempi molto lunghi: “Delle nuove razze non possono mai insorgere soltanto come conseguenza di
incrocio. L’incrocio può dare luogo solo a combinazioni senza le quali alcuni tratti tenderebbero a
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scomparire. La scomparsa dell’antico e il genuino insorgere del nuovo può essere esclusivamente una
conseguenza della selezione. Può capitare che le nuove combinazioni vengano selezionate o cancellate in
modo tale che tutti i portatori di certe caratteristiche scompaiano e rimangano soltanto i portatori di certe
nuove combinazioni. Allora, come conseguenza della mescolanza, apparirà una nuova razza. Ma i fattori
determinanti saranno sempre stati la selezione e l’estinzione” (1).
L’allevatore di animali può, in tempi relativamente brevi, ottenere una nuova razza da un incrocio. Tutto
ciò in quanto il susseguirsi delle generazioni e la maturità sessuale avvengono molto più rapidamente fra gli
animali; e anche perché tra gli animali ottenuti attraverso incroci che non dimostrino le caratteristiche
desiderate, e quindi deviano dagli “obiettivi”, la riproduzione può sempre essere impedita – due circostanze
non valide per gli uomini. L’isolamento di un certo misto razziale per tempi molto lunghi potrebbe favorire
l’insorgere di una nuova razza umana per incrocio di due o più razze, ammesso però che per tutto quel tempo
si sia mantenuto lo stesso orientamento nel processo di selezione e di appaiamento. Sarebbe necessario che,
generazione dopo generazione, all’interno del misto razziale considerato, valesse sempre la preferenza a dare
possibilità riproduttive ai portatori di una determinata combinazione di tratti (provenienti da due o più razze
distinte), preferenza negata ai portatori di combinazioni diverse. È anche possibile che in luoghi disparati e
come conseguenza di meticciati avvenuti nella Preistoria, siano sorte in questo modo (cioè per “selezione
naturale”) alcune nuove razze.
Può darsi che, anche in tempi storici, qua o là in zone isolate o all’interno di stirpi o caste endogamiche, si
siano determinate condizioni appropriate per avviare l’insorgere di queste, diciamo, ‘razze di secondo grado’
- ma si tratterebbe pur sempre di un ”avviamento”, e MAI di una formazione vera e propria. In territori
densamente popolati, come oggi lo è tutta la Terra, e sotto le moderne condizioni di ampia libertà di scelta
individuale, NON è concepibile che condizioni necessarie per l’insorgere di razze di second’ordine
siano ancora possibili. Nei tempi storici, soltanto fra gli ebrei ci possano essere stati processi selettivi
sufficienti per avviare la formazione di una razza del genere. Già con le proibizioni contro i matrimoni misti
dei tempi dell’immigrazione in Canaan, di cui si è parlato, fra loro era nata un certa consapevolezza genetica,
chiamata da Ripley (The Races of Europe [Le razze dell'Europa], 1899) consciousness of kind
[consapevolezza del proprio tipo]. Le leggi di Neemia e di Esdra fecero di questa consapevolezza del
proprio sangue – che, dai tempi dell’immigrazione, era rimasta in parte intorpidita – l’espressione ultima della
fede ebraica. Dopo Neemia ed Esdra la “semenza sacra” di Israele non doveva essere condivisa con nessun
altro popolo” (si veda più sopra). Il Talmud – il “libro di testo” – inasprì questa esigenza, al punto che i
rabbini talmudici riuscirono ad isolare quasi totalmente l’ebraicità trasformandola in certo qual modo in un
circolo chiuso di connubi fra consanguinei.
Se è vero che il Talmud è l’espressione “esatta e giusta” dell’anima ebraica, è indispensabile concluderne
che fra gli ebrei, attraverso i secoli, ci deve essere stata UNA SELEZIONE DEGLI INDIVIDUI DALLA
MENTALITA’ TALMUDICA; e che all’interno dell’ebraicità gli individui più prolifici e di maggior
successo devono essere stati quelli che, per natura, si avvicinavano di più al tipo talmudico ideale e ne
seguivano i precetti con il massimo di approssimazione. Le leggi della selezione avrebbero così favorito
l’aumento numerico dei “più ebrei” fra gli ebrei e ostacolato quello degli ebrei “meno ebrei”, sia fra gli ebrei
meridionali che fra quelli orientali. Di conseguenza, in ambedue le diramazioni ebraiche si sarebbe arrivati
ad una accumulazione di quei tratti ereditari – somatici e psicologici- che, per l’uomo occidentale, sono
‘caratteristicamente giudaici’. Sembrerebbe dunque che gli ebrei, più di ogni altro gruppo umano e
certamente più di qualsiasi popolo occidentale, siano ereditariamente molto simili gli uni agli altri.
Forse che l’uomo occidentale, se l’uniformità genetica ebraica non fosse superiore a quella degli occidentali,
si sarebbe illuso che anche il misto razziale ebraico sarebbe formato da componenti in massima parte
europee? Forse che i tratti alieni degli ebrei gli fanno una impressione tanto forte che egli fa molto meno
caso all’insieme della loro fisionomia che non a quel singolo tratto che tradisce la loro origine extraeuropea?
Queste domande non ammettono una risposta che non sia basata su ricerche razziologiche molto profonde.
La relativa uniformità del misto razziale ebraico, in confronto alla diversità di tanti altri popoli, è sempre
stata così evidente agli osservatori che già da molto tempo si è fatto il tentativo di definire la “razza ebraica”,
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oppure di specificare i tratti somatici e animici dell’”ebreo”, almeno entro certi limiti di variazione statistica.
Già l’uso del termine “razza” quando ci si riferisce al misto razziale ebraico, per quanto scientificamente
scorretto, indica che molti non-ebrei hanno avuto l’impressione che ci fosse una certa uniformità in quel
misto. Ci sono molte concordanze di tipo fisico e di tipo psichico fra gli ebrei meridionali e quelli orientali,
due gruppi formati da composti diversamente dosati delle stesse razze, separati per secoli, ma che
presentano individui dall’aspetto “analogo”. Questo si potrebbe spiegare ammettendo che in ambedue i
gruppi ci sono stati processi di selezione che hanno portato allo stesso “obiettivo” biologico – se così ci si
può esprimere – usando una terminologia proveniente dall’allevamento animale per indicare una “selezione
inconscia” all’interno di un popolo.
C’è stata anche un altra circostanza che ha contribuito alla selezione e all’estinzione dentro il popolo
ebraico: la vita dentro i confini di popoli stranieri. Questa vita di popolo “ospite” in mezzo a genti
“ospitanti”, il “parassitismo tipico” che Haberlandt riconosce negli ebrei (1), deve avere indirizzato la
selezione sempre nella stessa direzione in tutti gli ebrei dell’Africa e dell’Europa. Una progenie numerosa
poterono averla soltanto quelli, fra gli ebrei, che si sepevano adattare al tipo di vita permesso in mezzo a
popoli estranei. E costoro dovettero essere quelli più dotati ad indovinare i sentimenti altrui, i più cauti, i più
abili parlatori – cioé quelli che riuscivano a calcolare continuamente in modo ottimale la posizione da
adottare per garantire la sopravvivenza in un ambiente molto spesso ostile. Per garantire quella
sopravvivenza ci volevano, oltre alle qualità psicologiche ereditarie caratteristiche del loro composto
razziale, quelle doti psicologiche che sono indispensabili in un ambiente quasi esclusivamente urbano,
dentro il quale ci si dedicava al commercio e al prestito di denaro. Durante il Medioevo, quegli ebrei a cui
fossero mancate queste capacità, o che non fossero riusciti a svilupparle, generalmente non avrebbero avuto
la possibilità di formarsi una famiglia. Un simile tipo di pressione selettiva può forse spiegare anche le alte
capacità intellettive medie degli ebrei.
Tutti questi particolari indirizzi selettivi, combinati con l’acuta consapevolezza etnica ebraica, devono aver
determinato, all’interno dell’ebraicità, quell’orientamento selettivo d’insieme che ha avviato la formazione di
una “razza di secondo grado”. La varietà delle estrinsecazioni fattuali del misto genetico ebraico si deve
essere continuamente ristretta sotto diversi influssi: dell’isolamento dai popoli stranieri ai matrimoni fra
consanguinei. Forse già dai tempi di Esdra, ma soprattutto fra il 1.000 e il 1.800, questa varietà si dev’essere
ristretta al punto che tutto il popolo doveva già essere improntato da un determinato ‘inventario’ di
caratteristiche somatiche e animiche. Non c’è dubbio che gli ebrei, fino alla cosiddetta emancipazione, erano
avviati verso la costituzione di una “nuova razza” di secondo grado, ma questo processo fu interrotto
proprio dall’emancipazione. Tutto ciò verrà considerato più a fondo nel prossimo capitolo.
Il processo di formazione della razza di secondo grado ha comunque fatto insorgere un non meglio
definibile “aspetto ebraico”. In relazione a questo fatto non si deve pensare soltanto a processi ereditari, che
sono retti da leggi conosciute, ma anche all’affiorare di quelle che gli allevatori chiamano “Blutlinien [linee
di ereditarietà]“, per cui, in ragione di processi ancora poco conosciuti, i tratti singoli di due o più razze
incrociate non vengono più ereditati in modo indipendente, ma tendono ad aggregarsi (così, per esempio,
nella casa degli Asburgo risultava ripetutamente una particolare combinazione della forma del labbro
inferiore e del mento). Anche il fenomeno delle “linee di ereditarietà” deve avere avuto il suo effetto per
dare agli ebrei un aspetto sempre più……”ebraico”. Questa è comunque l’opinione dello studioso ebreo di
storia e di preistoria ebraica, Salomon Reinach, che scrive: “Anche se gli ebrei non sono tutti uguali, hanno
tutti una certa facies, che permette a chiunque abbia fatto un po’ di esperienza di riconoscerli
immediatamente” (1). Questo lo afferma anche Schleich; c’è dunque qualcosa di caratteristicamente ebraico
in tutti gli ebrei “dalle teste quasi negroidi dei degenerati ebrei russi fino alle teste più belle delle stirpi
aristocratiche di ebrei spagnoli” (2). Questi tratti “comuni”, presenti in tutti i gruppi ebraici, hanno sempre
portato gli osservatori a vedervi una “razza”. Renan, che aveva iniziato sostenendo che gli ebrei non sono
una razza, si era poi accorto come fra loro ci fosse sempre un notevole quantitativo di caratteri “ebraici”, e
questo lo espresse come segue: “Secondo me, non esiste un tipo (type) ebraico, ma esiste uno ’stampo’
ebraico” (1).
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L’indirizzo selettivo, da me prospettato, deve avere avuto proprio l’effetto che nonostante la plurima
composizione razziale del composto ebraico, la maggior parte degli osservatori attenti riconoscono subito
l’ebreo come tale – e questo anche a dispetto di tanti cammuffamenti della figura ereditaria come
conseguenza dei tipi di vestiario usati, corrispondenti al luogo o alla classe sociale; di adattamenti alle
abitudini dei diversi ambienti, ecc. Il dott. Weissenberg, validissimo ricercatore ebreo di razziologia ebraica,
ci dice: “Mostrai ad un ebreo e a un russo un grande numero di fotografie e domandai loro di scegliere
quelle che raffigurassero ebrei … il russo ne individuò la metà, l’ebreo riconobbe il 70% dei suoi
compatrioti; e questo è un risultato che non credo possa essere accreditato ad alcun altro popolo europeo”
(2).
Si ricordi che gli ebrei della Russia, attraverso ogni tipo di rimescolamento con i popoli a loro vicini,
devono essere razzialmente più vicini ai russi di quanto gli ebrei del resto dell’Europa non lo siano ai popoli
che li ospitano. È probabile che osservatori più attenti, ebrei e non-ebrei, se avessero osservato un
campionario di persone nude, avrebbero potuto riconoscere gli ebrei (indipendentemente dall’eventuale
circoncisione) con sicurezza ancora maggiore; il vestiario infatti può occultare molti caratteri razziali, o
simulare appartenenze etniche false. La probabilità di riconoscere gli ebrei sarebbe stata aumentata se, a
queste persone nude, fosse stato permesso di muoversi e di gesticolare liberamente. Se invece le persone
nude in questione fossero state un miscuglio di russi, tedeschi, svedesi, francesi e inglesi, smascherarli
sarebbe stato impossibile. Secondo Reche, almeno l’80% degli ebrei sono immediatamente riconoscibili
come tali (3).
La generalizzata riconoscibilità degli ebrei non si riferisce soltanto allo sguardo attento dell’occidentale,
ma anche alla sensibilità di persone e popoli non europei. Duttenhofer ci dice che in Surinam (Guyana)
“quando egli [il negro] vede arrivare un europeo accompagnato da un ebreo, non dice ‘arrivano due bianchi’
ma ‘arrivano un bianco e un ebreo’” (1). La riconoscibilità dell’ebreo, in termini generali, diminuisce però se
il popolo ospitante contiene influssi levantini od orientalidi. Così, per esempio, ai greci moderni risulta
difficile riconoscere con sicurezza gli ebrei e, viceversa, i greci moderni sono spesso scambiati per ebrei in
Occidente. Perciò la riconoscibilità dell’ebreo è, in parte, condizionata dalla composizione razziale
dell’osservatore.
Se si pensa a quanto varia sia la composizione razziale del popolo ebraico, la riconoscibilità degli ebrei
può essere spiegata soltanto in base al fatto che quel misto è rimasto isolato quasi completamente per
diversi secoli, durante i quali gli incroci interni si sono sviluppati secondo un certo orientamento
selettivo. Questo orientamento ha portato all’accumularsi e al generalizzarsi, su tutto il popolo, di quei tratti
che per l’osservatore occidentale sono “tipicamente ebraici”. Dal punto di vista animico, l’avviamento
nell’ebraicità alla formazione di una “razza di secondo grado” è ancora più evidente che dal punto di vista
somatico. Lenz scrive: “La specificità psicologica degli ebrei è ancora più evidente di quella somatica; si
potrebbe dire che gli ebrei sono una ‘razza dell’anima’” (2). Anche Lenz si vede costretto a presupporre che
fra gli ebrei ci sia stata un certo processo razzialmente formante, con sviluppi selettivi che hanno funzionato
anche dopo la diaspora e che, nei due ultimi millenni, sono stati orientati sempre nella stessa direzione: “Da
quando gli ebrei esistono hanno sempre cercato la sopravvivenza attraverso il commercio e attività ad esso
relazionate; e non soltanto perché questa è sempre stata la loro inclinazione, ma anche, in qualche caso, per
mancanza di altre possibilità. La conseguenza fu che a metter su famiglia furono, generalmente, soltanto
quegli ebrei che avevano l’abilità necessaria per scambiare le mercanzie prodotte da altri, e di adescare i
potenziali clienti [oggi si parlerebbe di 'psicologia delle vendite' - n.d.t.]” (cit., p. 557). Schickedanz ha dato
un ulteriore sviluppo alla teoria dell’unitarietà dell’aspetto degli ebrei da un miscuglio razziale plurimo,
secondo la quale la spiegazione deve cercarsi nelle leggi biologiche applicate all’adattamento continuo di
una vita vissuta in mezzo a popolazioni “ospitanti”.
Schickedanz – cfr. il suo “Sozialparasitismus im Völkerleben [Il parassitismo sociale nella vita dei popoli],
pubblicato nel 1927 e poi reso celebre dal biologo Plate di Jena – vedeva nell’ebraicità una specie di “antirazza”,
che si deve essere formata sotto la spinta di una selezione in grado di favorire gli individui dotati per
il “parassitismo”. L’aspetto “parassitario” degli ebrei era già stato notato da Schopenhauer (Parerga und
70
Paralipomena [Parerga e paralipomena], II, n. 32). Haberlandt aveva affermato, sulla base di studi
etnologici, che gli ebrei erano “tipicamente parassitari” (cfr. p. 202); e Schickedanz sviluppa le conseguenze
biologiche del parassitismo sulla selezione all’interno di un popolo permanentemente parassita, ottenendo
dei paralleli, più o meno esatti, con quel che accade nel mondo animale. Egli è convinto che gli ebrei siano
un esempio di un parassitismo del genere, e presuppone che la vita vissuta dopo la perdita del loro proprio
Stato, che per loro significò il mettersi a vivere sfruttando il lavoro di altre genti, li abbia indirizzati verso
una selezione che azzerò certi tratti ereditari, necessari per chi abita all’interno di un suo Stato, e ne rafforzò
altri appropriati per una vita da parassita. Ne risultò allora, con un processo di controselezione, una vera e
propria “anti-razza”. Viceversa, si è già detto che nonostante un aspetto molto più unitario di molti altri, e
anche se per parecchi secoli ha percorso la via della formazione di una razza di secondo grado, l’obiettivo
finale non è stato raggiunto. Perché una razza di secondo grado (sia pure anche una “anti-razza”) possa
formarsi in modo definitivo, è necessario non solo che l’orientamento selettivo rimanga costante, ma servono
tempi estremamente più lunghi. Lo stesso Schickedanz concede che i confronti che egli fa con il
parassitismo nel regno animale non sono poi così applicabili a tutti gli ebrei.
È comunque assolutamente necessario riconoscere che dei processi selettivi sul tipo di quelli presupposti
da Schickedanz devono aver avuto luogo fra gli ebrei. Questo si può dedurre anche dal fatto che
nell’Antichità essi avevano la reputazione di essere gente forte e portata al lavoro manuale (1), il che, al
giorno d’oggi, non può essere affermato se non di alcuni piccoli raggruppamenti ebraici (per esempio, i
lavoratori portuali di certe città sulle coste del Mar Nero). Ma fra gli ebrei dei nostri giorni, quelli che
vengono scartati dal servizio militare sono relativamente frequenti; e ci sono molti fenomeni degenerativi
molto più diffusi fra gli ebrei che non fra i popoli occidentali.
Ma anche su questo più avanti, quando si affronterà il tema dei fenomeni patologici nell’ebraicità.
Ci sono anche diversi tratti ebraici, somatici e animici, che possono essere ricondotti alla natura delle
razze formanti il miscuglio ebraico, soprattutto quella levantina, senza bisogno di invocare processi selettivi
determinati dal parassitismo come quelli presupposti da Schickedanz. Lenz vede giusto quando afferma che
la razza levantina “è meno adatta al dominio e allo sfruttamento della natura che al dominio e allo
sfruttamento di altri uomini” (p. 29); perciò è ragionevole che un popolo nel quale questa componente
razziale sia forte, può dare l’impressione di essere incline al parassitismo a genti di composizione razziale
diversa. Qui, non c’è bisogno di invocare alcun processo selettivo. Secondo Lenz (cit. p. 558) gli ebrei hanno
“l’inclinazione e le doti” per ricadere continuamente nell’esercizio di attività “il cui successo è legato ad
accontentare i gusti e le inclinazioni pubbliche del momento, nonché a manipolarle per il proprio profitto. Le
professioni alle quali gli ebrei si dedicano quasi esclusivamente sono quelle di commerciante, di
manipolatore di denaro e cambiavalute, di giornalista, scrittore, editore, politico, attore, musicista, avvocato
e medico”. Lenz prosegue dicendo che campi di attività precipuamente in mano agli ebrei sono il
“commercio del vestiario” (le “confezioni”), il teatro e la pubblicistica di giornali e riviste. Quei rami
dell’attività economica attraenti per individui dalle inclinazioni parassitarie sono molto ricercati dagli ebrei,
che poi vi dimostrano un notevole successo in ragione di certi tratti psicologici della razza levantina e anche
di quella orientalide – e questo, ripeto, anche senza invocare alcun particolare processo selettivo.
Comunque, quali possano essere stati i processi selettivi biologici all’interno del popolo ebraico, non c’è
dubbio alcuno che è in un qualche processo del genere che bisogna cercare le cause della particolare
uniformità dimostrata dal misto razziale ebraico. E tutto questo va aggiunto alla considerazione che la
stragrande maggioranza degli ebrei ha condotto, da molto tempo, un tipo di vita specifico e del tutto
particolare, “incistita” fra popolazioni allogene di altra composizione razziale e altro orientamento culturale.
C’è un’enorme varietà di studi scientifici che si riferiscono a loro dal punto di vista dell’ereditarietà e della
razziologia, e questo in ragione del fatto che il popolo ebraico è stato e continua ad essere senza alcun
dubbio uno degli oggetti più interessanti che esistano per gli studi biologici ed etnologici.
VIII. GLI EBREI OGGI
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Nel secolo XIX diversi ricercatori hanno tentato di descrivere razziologicamente i tratti riscontrabili in tutti
i gruppi ebraici, in modo da poter determinare in cosa consiste ciò che è ‘caratteristicamente ebraico’ e, se
possibile, isolare quei tratti che sono peculiari solo agli ebrei. Ma quanto detto fin qui dovrebbe essere
sufficiente per rendere il lettore diffidente verso simili tentativi. È molto probabile che gli ebrei, o per lo
meno la grande maggioranza, siano più simili fra loro per le caratteristiche psichiche e somatiche ereditarie
di quanto possano esserlo gli appartenenti ad altre popolazioni, soprattutto quelle occidentali. È anche
probabile che ci siano determinate caratteristiche somatiche, ma soprattutto animiche, che fra gli ebrei sono
più comuni di quanto non lo siano altre caratteristiche, parimenti somatiche e animiche, fra altri popoli. Fra
gli ebrei ci sono molto più individui dall’aspetto “tipicamente ebraico” che non “francesi tipici” in Francia,
“inglesi tipici” in Inghilterra, “russi tipici” in Russia o “tedeschi tipici” in Germania – e questo è tanto più
evidente quando non si fissa l’attenzione su dei caratteri non ereditari, come il modo di presentarsi o
conversare; o su dettagli passeggeri, come il modo di vestire ecc. Ma il genuino esperto in razziologia – a
differenza di quanto succedeva nel secolo XIX perfino fra gli studiosi di tematiche razziali – difficilmente si
illuderà di trovare fra gli ebrei dei caratteri razziali erditari ed ereditati che siano una loro specificità
esclusiva. Il razziologo serio si aspetterà di trovare caratteristiche di tipo ‘ebraico’ – in particolare, il “naso
ebraico” – anche fra tutte quelle stirpi e popolazioni il cui misto razziale sia simile a quello ebraico; e, in
particolare, fra le popolazioni del Medio Oriente.
Premesso quindi che gli ebrei non sono una razza ma un misto razziale, e che fra loro solo
occasionalmente affiorano individui che presentano in misura minima, o mancano del tutto, quelle
caratteristiche che per gli occidentali sono “caratteristicamente ebraiche”, nel prosieguo si tenterà di
descrivere alcuni dei tentativi fatti per identificare quei “caratteri ebraici” che possano essere
razziologicamente significativi. Chi ha letto il libro fin qui, avrà capito che non si tratta se non di
evidenziare quei tratti che fra gli ebrei sono particolarmente frequenti e che, in termini generali, appaiono
all’occidentale come evidentemente non-europei.
Il razziologo ebreo Joseph Jacobs ha pubblicato nel 1886 uno studio, fatto in collaborazione con lo
specialista inglese in genetica ed eugenetica Francis Galton, nel quale si tentava di identificare i tratti
specificamente ebraici in un gruppo di scolari ebrei per mezzo della sovrapposizione di immagini
(composite portraiture) (1). Questi due ricercatori sovrapposero su una lastra fotografica unica le immagini
di un certo quantitativo di scolari ebrei della Jewish Free School of London [Scuola libera ebraica di
Londra], cercando in quel modo di ottenere una specie di immagine ‘media’. Questo procedimento, dal punto
di vista razziologico, è di scarso valore, in quanto il “viso medio” del gruppo di scolari in questione non ha
bisogno di essere molto comune per essere comunque considerato “caratteristico”; ed anche perché
l’enumerazione dei tratti razziali di un certo misto, non ci dice niente su come si siano combinati.
Il processo delle immagini sovrapposte è tipico degli inizi della ricerca razziale, quando si credeva di poter
dire qualcosa intorno alla “razza” di un gruppo umano sul quale venivano eseguite misure che partivano da
calcoli fatti con le misure stesse per derivarne ‘valori medi’. Quindi, dai risultati delle ricerche di Jacobs e di
Galton, ci si immaginava di poter identificare “l’aspetto medio dell’ebreo” presumendo implicitamente che
gli ebrei fossero effettivamente un gruppo geneticamente omogeneo, quindi una razza.
L”aspetto medio’ rivelato da questa ricerca (Fig. 202, ottenuta dalle immagini individuali), è stato descritto
dalla Jewish Encyclopedia [Enciclopedia giudaica] sotto la voce “Type [tipo]“: “Il tipo che ne risulta ha un
aspetto fortemente ebraico e ci si rende conto che sue caratteristiche principali sono le sopracciglia, gli
occhi, il naso e le labbra, ma è rafforzato anche dalla posizione e dal profilo della mascella (ossa mascellari).
Le sopracciglia sono generalmente ben definite, abbondanti in direzione del naso mentre si diradano verso
l’esterno. Gli occhi sono generalmente brillanti, ambedue le palpebre sono pesanti e tumide; e una
caratteristica importante degli occhi ebraici sembra essere che, rispetto ad altri tipi umani, una parte
maggiore dell’apertura oculare è ricoperta. Questo potrebbe contribuire a che l’occhio ebraico abbia uno
sguardo nervoso (nervous) e furtivo (furtive) il quale, combinato con pupille piccole e riavvicinate, dà ad
alcuni occhi ebraici un aspetto pungente (keenness). Il sacco linfatico sotto gli occhi è generalmente più
pieno e visibile fra gli ebrei che fra i non-ebrei. Il prognatismo accentuato determina, di regola, delle guance
incavate, importanti nell’espressione ebraica, mentre il naso, visto di fronte, può essere identificato soltanto
in ragione della flessibilità (flexibility) caratteristica del naso ebraico. Il labbro superiore è normalmente
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corto e quello inferiore è anch’egli protrudente, dando al viso un aspetto alquanto sensuale. Il mento si
sviluppa dal labbro quasi senza modificazioni, per cui nella maggiore parte dei casi sotto il labbro c’è un
solco. Le orecchie di molti ebrei sono raso pelle e questo, soprattutto nei ragazzi, rafforza il loro aspetto
ebraico.
“L’aspetto ebraico, come è stato già detto, diventa più ovvio con la crescita. Negli uomini, può darsi che
questo sia determinato dalla crescita dei baffi e della barba. Si riscontra che spesso i baffi sono alquanto radi
e che fra i peli delle narici e i baffi veri e propri c’è una zona senza peli. La barba è in molti casi
relativamente folta e in altri abbondante e crespa e si divide sul mento. È interessante il fatto che qualche
elemento ebraico ha tutte queste caratteristiche nello stesso tempo”.
“Assieme a questi dettagli c’è qualcosa nella forma del viso che è caratteristico di tutti gli ebrei. Il viso è
generalmente arrotondato e un poco lungo, soprattutto fra le donne di alta classe, e, visto di fianco, è
curiosamente ricurvo, per cui il naso, assieme all’incavo mascellare, forma un ellissoide”.
Dall’osservazione delle fotografie (Fig. 202) risulta che gli scolari sui quali si è fatto lo studio sembrano
essere più ebrei meridionali che orientali. È probabile che se i soggetti studiati avessero avuto quei caratteri
che invece sono più frequenti fra gli ebrei orientali, il risultato avrebbe indicato un tipo molto meno
specifico.
a) Alcune caratteristiche razziali nel popolo ebraico
Si è già fatto cenno di come il tentativo di descrivere il ‘tipo medio’ di un raggruppamento umano sulla
base di misure medie e della descrizione di caratteri particolarmente frequenti, abbia un valore relativo dal
punto di vista razziologico. Eppure, nel prosieguo, si darà una panoramica dei suoi dati odierni, il che potrà
essere utile per farsi un’idea generale di quali sono, nel loro insieme, le caratteristiche ereditarie del popolo
ebraico attuale. Questi dati sono tratti dai lavori di diversi ricercatori, ma soprattutto da Weissenberg (1).
Figura: Gli ebrei sono, in media, piccoli; la Jewish Encyclopedia da come statura media maschile 1,63
m.; Pittard (2) 1,626 m. Negli ebrei della Lituania, della Russia nord-occidentale e della Polonia si riscontra
un’altezza media di 1,61 m. Negli ebrei dell’Austria, dell’Ungheria, della Bosnia e dell’Italia, l’altezza media
generale è di 1,63 m., in quelli della Russia meridionale 1,648 m. Le stature fra 1,61 e 1,63 m.
sembrerebbero essere le più comuni nel popolo ebraico. La statura particolarmente bassa degli ebrei dello
Jemen (Arabia meridionale) – 1,594 m. negli uomini, 1,467 m. nelle donne -, oltre che all’influsso di una
qualche razza pigmoide (vedi più sopra), potrebbe essere attribuita a condizioni ambientali sfavorevoli.
Questo, ammettendo che i 64 individui, maschili e femminili, misurati da Weissenberg, non fossero
accidentalmente un gruppo di persone particolarmente piccole. Non bisogna dimentichi che l’altezza e la
capacità toracica sono due dei tratti che più risentono delle influenze ambientali. Gli ebrei più alti
sembrano essere quelli della Siria (una media di 1,66 m., 1,645 a Damasco), mentre ci sono un numero
relativamente alto di individui alti nelle zone berbere dell’Africa nord-occidentale dove il 45,4% degli ebrei
superano 1,65 m.
Confrontando la statura di diversi raggruppamenti ebraici con quella, media, dell’ambiente non-ebraico nel
quale vivono, si può arrivare a sospettare che la loro altezza media (pure minore, almeno in Occidente, di
quella media nell’ambiente) sia leggermente maggiore in quelle zone dove l’altezza dei non-ebrei è
considerevole, e minore dove anche i non-ebrei sono bassi. Se misurazioni più esatte dovessero confermare
questo sospetto, allora questo fenomeno, in termini generali, potrebbe essere spiegato meno come
conseguenza di incrocio che come riflesso delle condizioni ambientali alle quali ambedue i gruppi sono
sottoposti. L’altezza corporea sembra essere una delle caratteristiche razziali più sensibili (nella figura
visibile: fenotipo, e non nel menoma: idiotipo) all’influenza dell’ambiente, almeno entro certi limiti.
La crescita degli ebrei sembra si concluda prima di quella delle genti occidentali, per lo meno per quel che
riguarda l’Europa nord-occidentale. Anche la maturità sessaule avviene prima. L’attenzione sui fenomeni
sessuali si manifesta prima nei giovani ebrei che in quelli appartenenti a popolazioni occidentali. Secondo
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Teilhaber, le ebree, sia nelle città che nelle campagne, hanno, in media, la prima mestruazione prima delle
ragazze europee (1).
Struttura corporea: la statura media relativamente bassa degli ebrei è determinata, con ogni probabilità,
da un’ossatura corta. Almeno presso gli ebrei che vivono in Occidente e in Europa orientale sembra che una
conformazione corporea tozza sia la regola. Gli ebrei con le gambe corte sono relativamente frequenti.
Questo tratto diventa evidente soprattutto in un ambiente dove la gente tende ad essere alta e magra, e perciò
in zone prevalentemente dinariche. “Weisbach riscontrò che gli ebrei che abitavano in mezzo a sloveni,
magiari, tedeschi, nonché in Romania e nel Sud-est dello stato austroungarico, avevano generalmente le
braccia e le gambe più corte delle popolazioni menzionate”. – “Gli ebrei e gli zingari hanno le braccia più
corte” (2) In confronto a molte popolazioni occidentali. – Molti ebrei hanno la circonferenza toracica
relativamente bassa; e spesso molto bassa. Deniker (1) parlava di una ristrettezza toracica accentuata,
comune fra gli ebrei, e di una “piccolezza della misura toracica” (inferiority of the toracic perimeter
[inferiorità del perimetro toracico]); e Stratz (2) della “scatola toracica piatta” di molti ebrei. Un torace poco
sviluppato – che però viene ad essere, entro certi limiti, un carattere determinato anche dall’ambiente e
dall’attività esercitata – e delle braccia relativamente corte sono due condizioni che, prese singolarmente ma
ancor più se abbinate, determinano una scarsa distanza tra una mano e l’altra nelle braccia aperte, come è
stata constatata in molti gruppi ebraici. La misura dell’apertura delle braccia viene calcolata facendo il
quoziente fra la distanza tra la punta del dito medio di una mano, quello della mano opposta (quando le
braccia sono estese orizzontalmente) e la statura. “Fra i venticinquenni reclutati nella città di Fürth, Mair
calcolava che l’apertura delle braccia fra la popolazione che non esercitava mestieri manuali (ebrei) era in
media di 4,3 cm. al di sotto della statura, mentre nelle classi lavoratrici essa invece superava l’altezza di 5,7
cm. Alla stessa differenza arrivò anche G. Schultz nei suoi studi della popolazione ebrea e non-ebrea di
Petersburg” (3). Queste differenze, nei casi in questione, sono in parte determinate dalla differenza nei
mestieri esercitati, ma anche dalle differenze razziali fra i gruppi ebraici presi in considerazione e i tedeschi,
probabilmente estidi-dinarici-nordici, o i russi, probabilmente balto-orientali-nordici. Ma all’interno del
misto razziale ebraico emergono, in qualche raro caso, anche braccia lunghe e sottili, che “pendono al di
sotto del ginocchio” e delle quali, qualche volta esagerando, ne aveva già parlato Schudt (4), forse indicatori
del lieve influsso camitico nell’ebraicità. Anche le mani e i piedi stretti, spesso così presenti fra loro, devono
essere ricondotti ad influenze camitiche, e anche orientalidi; e così pure la “gambe senza polpacci”, che a
quanto sembra, sono abbastanza frequenti. Stratz (cit., p. 19) menziona anche le gambe storte. L’umorismo
popolare scherza su di un particolare “malinconico aspetto delle gambe” di moltissimi ebrei, e su di una
certa debolezza nella costituzione delle cosce che spesso si manifesta in in incedere traballante. Anche
Schaaffhausen (1) menziona i “polpacci scadenti” di molti ebrei.
Le “schiene arrotondate” che Stratz (cit. p. 19) attribuisce a molti ebrei devono essere viste non come un
tratto ereditario somatico, ma piuttosto come una condizione acquisita che però, almeno in parte, dev’essere
considerata come l’effetto di determinate tendenze psicologiche – queste sì, ereditarie. Anche la relativa
abbondanza di individui con i piedi piatti, anch’essa menzionata da Stratz, verrà presa in considerazione più
avanti (2). Fra le ebree è corrente un bacino particolarmente ampio, il cui sviluppo inizia improvvisamente
fra il 15º e il 16º anno.
In tutti i gruppi giudaici si può notare, sia fra gli uomini che fra le donne, una forte tendenza ad ingrassare,
alla formazione del doppio mento, all’accumulo di grasso nella nuca e e sulle spalle e, in termini generali,
all’obesità. Questa tendenza deriva da una disposizione naturale ereditaria, ma l’obesità, generalmente, si
manifesta soltanto quando le condizioni di vita sono facili. Non c’è dubbio comunque che la tendenza ad
ingrassare sia propria di molti ebrei, e che le loro possibilità economiche, che in media sono superiori a
quelle delle popolazioni entro le quali vivono, favoriscono la realizzazione di questa tendenza. In diverse
case di cura si dà frequentemente il caso della presenza di ebrei, maschi e femmine, che per il loro lussuoso
tenore di vita sono diventati incapaci di procreare.
Forme craniche: La grande maggioranza degli ebrei sono brachicefali, ma non si tratta di una
brachicefalia estrema (iperbrachicefalia), ma di una brachicefalia che tende a mesocefalia (3). Secondo
Pittard (cit., p. 429), gli indici di lunghezza-larghezza più frequenti stanno fra 80 e 83. Gli ebrei più
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dolicocefali sono quelli della Turchia, fra i quali, almeno in un determinato gruppo, l’indice lunghezzalarghezza
scende fino a 76; mentre i più brachicefali sono quelli del Caucaso, il cui indice lunghezzalarghezza
arriva a 87. Gli ebrei della Russia sono in media brachicefali, con un indice medio di 82,5 (1%
dolicocefali e 81% brachicefali); gli ’spagnoli’ dell’Europa sud-orientale e del Medio Oriente sono in media
mesocefali con un indice medio di 78,1 (14,6% dolicocefali e 25,4% brachicefali). Gli ebrei dell’Asia
centrale sono per il 72% brachicefali; in Persia, i gruppi ebraici del Nord sono più brachicefali e quelli del
Sud più dolicocefali; in Mesopotamia si è riscontrato un indice medio di 78, con 13,5% di dolicocefali. Gli
ebrei dello Yemen (Arabia meridionale) sono quasi tutti dolicocefali, quelli della Siria sono in media
mesocefali e lo stesso vale per quelli della Palestina, che però hanno un certa tendenza alla brachicefalia.
Secondo le misure di Bertholon e Chantre, fra gli ebrei dell’Africa settentrionale il 21,9% hanno un indice al
di sotto di 74, e quindi sono chiaramente dolicocefali, il 67,8% sono mesocefali e solo l’8,8% sono
brachicefali. Anche Fishberg trovò che gli ebrei dell’America setentrionale erano piuttosto mesocefali con
tendenza alla dolicocefalia. Secondo le ricerche fatte dal razziologo ebreo di nazionalità americana Boas (1)
gli ebrei degli Stati Uniti d’America sono in media meno brachicefali di quelli residenti in Europa. Boas
attribuiva questo fatto a influenze ambientali; ma sarebbe appropriato che si appurasse se quegli ebrei, sui
quali egli eseguì le misure, appartenevano a gruppi nei quali la razza orientalide era fortemente
rappresentata.
Forma del viso: Su questo dettaglio ci sono poche ricerche, soprattutto quelle riferentisi alle differenza
fra i diversi raggruppamenti ebraici. In termini generali, gli ebrei dolicocefali hanno il viso più stretto, quelli
brachicefali più largo.
Parti molli del viso: Le labbra sono generalmnte più piene eispetto ai popoli occidentali. Spesso è
presente il labbro inferiore pendulo, di cui si è già detto. Abbastanza frequenti – soprattutto fra le donne – la
conformazione delle labbra e la posizione rialzata del solco fra il mento e il labbro inferiore, caratteristiche
della razza orientalide. Gli “occhi a mandorla” si danno raramente, e comunque più fra le donne. Fra gli
uomini la piega fra naso e labbro superiore è frequente. Il mento è spesso poco pronunciato ma appuntito.
Secondo Stratz, gli occhi protrudenti sarebbero un carattere tipicamente ebraico (1); e infatti si vedono
spesso ebrei, di ambo i sessi, dagli occhi proiettati all’infuori.
La forma particolare della palpebra superiore, frequente fra gli ebrei, ha attratto l’attenzione degli
osservatori che hanno tentato di descrivere i caratteri facciali “ebraici”. Tutte e due le palpebre sono spesso
grosse e hanno un aspetto pesante. Molto pesante è la palpebra superiore, che pende sull’occhio più in
profondità che non fra le razze europee – fatta eccezione, occasionalmente, per alcuni tipi dinarici. Ne risulta
lo “sguardo furtivo”, indicato anche dalla Jewish Encyclopedia [Enciclopedia giudaica]; uno sguardo che
qualche volta ha un’espressione sensuale e altre volte infida. Da quanto è stato scritto in una rivista ebraica,
sarebbe proprio la forma delle palpebre che dà “al viso dell’ebreo un aspetto stanco, sonnolento, rilassato e
infido”; gli “occhi ebraici” sarebbero, quando si faccia il confronto con quelli degli occidentali,
“ombreggiati e circondati da cerchi” (2). Anche se queste caratteristiche dello “sguardo ebraico” non fanno
più parte dei tratti somatici, ma dell’espressione animica, possono essere qui menzionate. Beddoe parla di
un’”espressione molle e cauta con un’aggiunta di scaltrezza (cunning) e occasionalmente di timidezza
(timidity)” (1). Ripley, che menziona spesso le palpebre grosse e gli occhi grandi scuri e luccicanti degli
ebrei, parla di una particolare grossezza delle palpebre che, nel migliore dei casi, dà un aspetto pensoso,
sognatore o triste e, nel peggiore, sonnacchioso o infido (2). Reinach osserva che gli ebrei hanno spesso uno
sguardo sfuggente e infido, a volte inquieto – e questo, usando uno schema lamarckiano, egli lo attribuisce
alle sofferenze e alle persecuzioni che gli ebrei avrebbero subito (3). Sembra che fra gli ebrei i padiglioni
auricolari carnosi siano abbastanza frequenti (4); nonché, soprattutto negli uomini, le “orecchie sporgenti”.
Queste sono molto frequenti fra i loro bambini; e in Austria ci si riferisce a questo tipo di orecchie come a
“Moritzohren” [orecchie da Maurizio]. Diversi osservatori sono dell’opinione che fra gli ebrei le orecchie
stiano più in alto che fra le genti occidentali. Stratz (cit.) assicura che le orrecchie “grandi e arrossate” sono
caratteristiche di molti ebrei.
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Fra gli ebrei, anche giovani, è frequente un certa pallore e afflosciamento nella pelle del viso e, in
generale, di tutti i tratti facciali. In molti casi risulta che un ebreo che per gli influssi di una o più razze
europee difficilmente può apparire tale, continua ad essere riconoscibile come ebreo.
Il “naso ebraico”: esageratamente pendente e ricurvo, e che non manca mai nelle rappresentazioni di
individui ebraici, è molto meno frequente di quanto generalmente si crede. Sembrerebbe che i tratti del
“naso ebraico” – che in ultima analisi è quello della razza levantina – abbiano fatto una tale impressione sulle
popolazioni occidentali da essere preso come il “marchio dell’ebreo tipo”. Tutti i rilevamenti statistici
eseguiti all’interno di gruppi ebraici hanno indicato che i portatori di “nasi ebraici” erano una minoranza. C’è
anche il fatto che osservatori diversi, quando hanno parlato di “naso ebraico”, non hanno necessariamente
voluto indicare lo stesso tipo di naso, e che può risultare difficile decidere quale forma di naso lungo o
incurvato debba essere detta propriamente “ebraica”; perciò le percentuali date da questo tipo di ricerche
non possono avere se non un valore relativo. In certi gruppi ebraici della Russia e della Galizia, sembra che i
“nasi ebraici” siano molto pochi. Fra gli ebrei russi, Weissenberg trovò soltanto il 10% di “nasi semitici” (1).
Allora: che cosa, esattamente, caratterizza un “naso ebraico”? Il già menzionato ricercatore ebreo Jacobs
ha affermato, ed ha illustrato la sua affermazione in modo grafico, che nel “naso ebraico” la punta è ricurva
verso il basso in forma di uncino, mentre le narici sono espanse verso l’esterno. In quel modo, quando si
guarda lateralmente, ne risulta una figura con la forma di un ‘6′ allungato verso l’alto. “Quello che conta non
è tanto la forma vista di fianco, quanto la particolare forza e flessibilità delle narici”: questo, che Jacobs lo
chiamava nostrility ['naricità'], sarebbe il tratto caratterizzante del “naso ebraico” (2). Un ‘6′ del genere si
riconosce fattualmente in quei nasi ebraici che non sono particolarmente protrudenti o ricurvi, ma che
possono anche essere piatti o addirittura concavi. A voler usare come criterio soltanto quello indicato da
Jacobs, e quindi chiamare ‘ebraici’ tutti quei nasi, si troverà che moltissimi ebrei hanno un “naso ebraico”.
Anche nei casi in cui il naso di un ebreo abbia lo stesso profilo di quello di un individuo di razza nordica,
visto di fronte esso si rivelerà ebraico in ragione della carnosità delle narici e della loro forma molle e
fiacca, con l’impressione che dà di essere formato da materiali molli fusi, caduti verso il basso (la ‘naricità’ di
Jacobs). In molti “mezzi ebrei”, portatori di un forte influsso nordico, questa figura molliccia del naso è
ancora del tutto evidente, anche quando le narici non sono particolarmente carnose o dall’aspetto gonfio,
come nei “nasi ebraici genuini”.
Schleich (1) afferma che il “naso ebraico” ha le caratteristiche seguenti: “Un forte sviluppo dell’arco, al di
sotto di una punta molto arcuata, e l’ispessimento della parte enteriore del setto nasale, sono tratti che non
mancano quasi mai”. Invece, quando Hovorka descrive il “naso ebraico” come uno nel quale “la sella nasale
è piatta [e quindi la radice del naso è relativamente alta], la punta è ad uncino e ricurva verso il basso mentre
le narici sono fortemente spostate vrso l’esterno” (2), egli descrive un naso levantino; mentre il “naso
ebraico”, come è stato notato da altri più attenti osservatori, non è propriamente un naso con la radice
particolarmente alta e neppure molto protrudente. Ciò che in Occidente viene considerato un “naso ebraico”
- questo sarà subito notato da chi non è digiuno di razziologia – diviene possibile solo quando affiorano
comtemporaneamente diversi altri tratti della razza levantina. E questo non è tutto. Esso non è determinato
sotanto da tratti levantini, anzi, il naso che stiamo considerando (magari come conseguenza di influssi
nordici) può anche essere molto stretto, non carnoso oppure (magari come conseguenza di influssi
mongoloidi, balto-orientali o estidi [alpini]) piuttosto piatto e anche corto – eppure trasmette sempre
quell’impressione descritta da Jacobs. Si potrebe anche dire che non c’è un unico “naso ebraico”, ma
diverse espressioni del “naso ebraico”; e Hovorka scrive, giustamente, che “dal punto di vista
esclusivamente morfologico, non è giustificato che si voglia considerare il naso ebraico come un fenomeno
unitario” (cit. p. 94). Beddoe volle distinguere il “naso ebraico” dalle forme nasali occidentali – quelle
“ariane”, per usare la sua terminologia – per mezzo della seguente specificazione: “Più profondo alla radice,
più pronunciato verso la punta e con le narici più separate di quanto sia il caso fra genti ariane, anche
quando esse abbiano un naso pronunciato” (3).
Non c’è comunque alcun dubbio che il “naso ebraico” deve avere impressionato le genti occidentali in
modo particolare; soprattutto quando si consideri che il naso della razza dinarica ha molto in comune con
quello levantino, e che di nasi dinarici, in Europa centrale, ce ne sono molti. Ma mentre il naso dinarico
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’salta fuori dal viso’, quello levantino pende in modo più pronunciato, e questo tratto – esso ‘pende’ più che
’salta’ – è tipico di quelle forme nasali che vengono viste come “ebraiche”. Un naso pendulo, ma
relativamente stretto e spesso con una radice molto stretta, fa un’impressione del tutto particolare. Questo
tipo di naso è comune nei misti camitico-levantini, frequenti nell’Arabia meridionale e nell’Africa nordorientale
e, occasionalmente, anche fra gli ebrei.
Esclusi i gruppi di ebrei orientali, che hanno ricevuto influssi di razze dal naso corto o piatto, il “naso
ebraico” è raro anche fra gli ebrei dello Yemen e dell’Africa settentrionale, i quali – come è già stato
accennato quando si è parlato di indici cranici – hanno conservato ancora una forte componente di razza
orientalide. Anche fra gli ebrei della Persia meridionale ci sono relativamente pochi individui con il “naso
ebraico”.
Da quanto si è potuto sostenere risulta che non si può parlare di “naso ebraico” nel senso di un voler
indicare che tutti gli ebrei, o una grande maggioranza di loro, abbiano quel tipo di naso, e neppure che quel
tipo di naso risulti solo fra gli ebrei. Forme nasali riscontrabili fra loro ce ne sono anche altre, e di molti tipi
diversi fra le quali – soprattutto nel sesso femminile – quelle proprie delle razze orientalide, estide e baltoorientale;
mentre “nasi ebraici” si riscontrano occasionalmente in tutte quelle popolazioni che hanno
ricevuto un influsso levantino. Il “naso ebraico” diviene qualcosa di assolutamente tipico solamente per
osservatori occidentali che non hanno dimestichezza con l’aspetto delle popolazioni medio-orientali o sudest
europee. Per quel che riguarda gli ebrei, bisogna insistere sul fatto che, oltre al “naso ebraico”, essi
presentano altri tratti razziali, e che non c’è alcun tratto somatico che sia esclusivamente proprio degli ebrei.
Il popolo ebraico viene ad essere un particolare misto razziale formato principalmente da razze non-europee
- tutte razze che, dal punto di vista sia somatico che psicologico, sono presenti anche nei misti razziali di
tutti gli altri popoli del Medio Oriente.
Pelle: Il colorito degli ebrei è in media più scuro di quello delle popolazioni occidentali e nord-ovesteuropee.
“Talko Grinzewitsch contò, fra gli ebrei della Russia meridionale, il 25% con la pelle scura, il 60%
con i capelli chiari, il 10% con gli occhi azzurri e il 25% con gli occhi grigi” (1). All’interno di un gruppo
ebraico, come questo, che nel suo insieme si presenta come chiaro (soprattutto in ragione di influenze baltoorientali),
è ragionevole che ci debbano essere relativamente meno individui scuri di pelle di quanto ci si
potrebbe aspettare in altri gruppi ebraici non ancora studiati. Fra gli ebrei e i meticci di ebrei si riscontra
spesso una pelle opaca e smorta, di colorito giallastro; mentre fra gli ebrei meridionali essa è frequentemente
opaca ma chiara. Si è già parlato della flaccidità della pelle del viso, che sarebbe propria degli ebrei.
Il caratteristico odore della pelle dell’ebreo sarà trattato a parte.
Pilosità corporale: La pilosità degli ebrei è molto accentuata (in conseguenza della loro componente
razziale levantina); anche la barba tende a essere abbondante. La barba ebraica, molto scura, spesso neroazzurra,
risalta non di rado anche su guance accuratamente rasate, il che è un indicatore di una barba folta.
Se gli ebrei non seguissero quasi sempre la moda di radersi la barba, probabilmente ci si incontrerebbe con
un notevole quantitativo di barbe crespe (’negroidi’). Le sopracciglia sono generalmente abbondanti e spesso
si incontrano al di sopra delle radice del naso (tratto levantino); mentre frequenti sono anche le sopracciglia
arcuate e le ciglia lunghe (tratti orientalidi). Le sopracciglia alte si estendono spesso verso l’esterno e si
incurvano verso il basso, dando al viso una espressione di sofferenza.
La linea capillare anteriore si allunga spesso sul centro della fronte per formare una specie di punta (e
questo si riscontra qualche volta anche nelle teste dinariche): un tratto messo a profitto nella fabbricazione
di maschere diaboliche. Popolarmente questo tratto viene detto “Schneppe [beccuccio, berretto a punta]“.
Sabouraud, che fece ricerche fra gli abitanti “semitici” della Francia – cioé fra gli ebrei francesi – afferma
che fra loro la calvizie incomincia e si propaga a partire dalla fronte; una forma di calvizie che, secondo
Sabouraud, è molto meno frequente fra i non-ebrei ed è un indicatore di “incrocio con semiti” (mélange
sémitique) (2).
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Studi fatti negli Stati Uniti d’America indicano che fra gli ebrei il 67% hanno i capelli lisci, 26% ondulati,
6% ricciuti e 1% “lanosi” (1). È probabile che fra i ‘capelli lisci’ siano stati inclusi tanti capelli duri e rigidi.
Tutto sembra indicare che fra gli ebrei dell’occidente c’è più dell’1% di capelli molto crespi, che indicano
un’influsso negroide, anche se questa percentuale non supera di molto l’1% ed è al di sotto di quella che si
riscontra fra i samaritani. Anche le immagini date in questo libro lasciano percepire spesso capelli dall’ordito
negroide. L’incontro, presso molti ebrei ed ebree, di tratti nordici con tratti negroidi (per esempio, capelli
biondi nordici ma crespi negroidi), fa uno strano effetto.
Colore dei capelli: Il colore dei capelli più frequente fra gli ebrei sta fra il castano e il nero; ma capelli più
chiari non sono rari. Secondo la tabella data da Livi (2), i biondi e quelli con i capelli rossi sono, fra gli ebrei
dell’Europa settentrionale, il 12 – 25%; fra quelli della Galizia, il 23,2 – 25,5%; fra quelli del Baden, il
15,1%; fra gli ebrei italiani, il 7,5 – 11,8%; fra quelli dell’Europa meridionale, il 6 – 12%; fra quelli della
Turchia il 6,9%; fra quelli del Caucaso, il 4%. Fishberg riscontrò, nei raggruppamenti ebraici del
Nordafrica, dove però egli studiò soprattutto bambini, il 5,94% di biondi, e molti meno fra gli adulti, dopo
l’oscuramento dei capelli che viene con l’età (3). Fra gli ebrei dell’America del Nord, sempre secondo Livi, ci
sono l’11,3% di biondi. Gli ebrei dell’Europa meridionale e dell’Africa setttentrionale sono, in media, non
più scuri e occasionalmente più chiari della popolazione che li circonda; nell’Italia meridionale solo l’8%
della popolazione è bionda, nella Grecia moderna meno del 5% e in Portogallo il 2%; mentre, secondo Livi,
il 7,5% degli ebrei che ci sono in Italia sono biondi o hanno i capelli rossi; e in Turchia si trovò il 6,9% di
biondi in un determinato gruppo e il 3% in un altro. Fra gli ebrei che ancora abitano la Palestina, la
percentuale di biondi è circa la stessa, o forse solo leggermente inferiore, a quella riscontrata fra i samaritani
(se ne è parlato più sopra).
In termini generali, il biondismo fra gli ebrei aumenta in direzione delle zone dove la loro presenza è più
consistente: nell’Europa orientale e soprattutto nel centro e nel settentrione dell’Europa orientale. Fra gli
ebrei che abitano in mezzo a popolazioni occidentali, la percentuale dei biondi si aggira sul 10% (1). Gli
studi di Virchow, sui quali si ritornerà più avanti, fatti nelle scuole su bambini negli anni 1874 e 1877,
indicarono che fra tutti gli scolari della Germania (inclusi quindi anche quelli ebrei) il 31,8% avevano la
pelle chiara, i capelli biondi e gli occhi azzurri e il 14,35% avevano la pelle e i capelli scuri e gli occhi
bruni; mentre le cifre corrispondenti fra gli scolari ebrei erano l’11,7% e il 42%. Fra le donne ebraiche
sembra che il biondismo sia meno frequente che fra gli uomini.
I capelli rossi sono relativamente frequenti fra gli ebrei. Al Capitolo VI è stato indicato che un certo
rutilismo (o eritrismo) risulta fra tutte le razze umane e che, di conseguenza, esso non va visto come una
caratteristica razziale. Virchow trovò che lo 0,5% dei bambini ebrei avevano i capelli rossi. “Il 4,45% degli
ebrei della Galizia hanno, secondo Majer e Kopernicki, i capelli rossi” (2). Fra gli ebrei della Russia
orientale ci sarebbe un quantitativo relativamente alto di individui con i capelli rossi, dei quali molti
evidenziano lentiggini e hanno i capelli rigidi e la pelle molto chiara. L’incidenza dei capelli rossi è stata
studiata in particolare da Berteletti, il quale trovò che essa è correlazionata con le lentiggini e la pelle chiara;
mentre chi ha i capelli rossi spesso è afflitto da un ‘odore caprino’, nonché da una condizione fiacca dei
muscoli e da una certa rigidità dei capelli. Il Berteletti fa notare che i capelli rossi esistono sia fra genti dalla
pelle chiara che dalla pelle scura, ma che sono particolarmente abbondanti nelle zone dove la gente ha la
pelle chiara e ancora di più dove c’è un contatto fra genti chiare e genti scure (3). Studi futuri, portati a
temine sia fra ebrei che fra non-ebrei, che potessero distinguere più esattamente di quanto sino a questo
momento è stato possibile fra i capelli rosso-biondi (generalmente sottili) e quelli rosso-volpini
(generalmente rigidi), forse potrebbero darci, in modo definitivo, la qualità dei capelli rossi che si
riscontrano nel popolo ebraico.
Colore degli occhi: La maggioranza degli ebrei ha gli occhi bruni, ma non mancano individui con gli
occhi chiari, soprattutto fra quei raggruppamenti dove si riscontra una maggiore percentuale di capelli chiari.
La tabella data da Livi (cit., p. 79) indica che l’incidenza di occhi chiari (azzurri, grigi, verdi) potrebbe
essere fino al 30 – 51% fra gli ebrei orientali, e fra gli ebrei meridionali, assieme a quelli caucasici, del 20 -
41%. L’incidenza di occhi azzurri, fra gli ebrei orientali sarebbe del 5 – 26% e fra gli ebrei meridionali,
assieme a quelli caucasici, dell’1,5 – 18%.
78
b) Gli ebrei biondi con gli occhi chiari
Ora si ritorna sull’argomento del biondismo e degli occhi chiari fra gli ebrei, già ripetutamente considerato
- in particolare, al Capitolo V, dove si è indicato che già gli ebrei della Palestina antica dovevano avere un
certo contenuto nordico. Nel Capitolo VI si è parlato dell’influenza di questa componente nordica nelle
vedute ebraiche sulla bellezza. Al Capitolo V si è arrivati alla conclusione che la componente nordica nella
costituzione razziale totale del popolo ebraico, nei tempi più antichi, doveva essere del 10 – 15%. Nel
capitolo VII è stato indicato come gli ebrei, anche dopo la loro diaspora, dovettero ricevere non pochi altri
influssi razziali, soprattutto prima dell’anno 1.000. Fra gli ebrei meridionali, non ci fu praticamente alcun
influsso nordico, e fra quelli orientali ben poco (e meno ancora fra quelli delle terre caucasiche). La
percentuale di biondismo e di occhi chiari presente fra gli ebrei meridionali è probabilmente la stessa che
dell’antica Palestina. Invece fra gli ebrei orientali c’è una percentuale tanto notevole di biondi con gli occhi
chiari che è necessario per questo presupporre la loro diffusione nell’Europa orientale dove dovettero
incamerare influssi di una o più razze dagli occhi e dai capelli chiari. Da quanto detto nel Capitolo VII,
risulta che gli ebrei dell’Europa orientale si mescolarono con una parte dei chazari, che razzialmente erano in
parte balto-orientali e forse (in minor misura) anche nordici. In termini generali gli ebrei orientali devono
essersi mescolati molto più di quelli meridionali, con altre popolazioni costituite da misti razziali abbastanza
disparati, ma nei quali la presenza balto-orientale doveva essere comunque sempre importante (1). Anche se
le popolazioni dell’Europa orientale contengono un influsso nordico crescente nel progressivo
avvicinamento al Baltico, l’ebraicità orientale deve aver ricevuto influssi balto-orientali molto più importanti
rispetto a quelli nordici; fatto tanto più vero per quel che riguarda gli ebrei che abitavano in gruppi
numericamente importanti in certe zone dell’Europa orientale, dove la popolazione è essenzialmente balticoorientale.
Se i coloriti chiari di pelle, occhi e capelli di tantissimi ebrei orientali, dovessero essere attribuiti
principalmente a influenze genetiche nordiche, fra loro si dovrebbero incontrare anche altre caratteristiche
nordiche, per esempio figure alte e slanciate, una dolicocefalia più frequente, meno brachicefalia, visi, in
media, più stretti, e via dicendo.
Quindi, la difficoltà di poter spiegare come mai ci siano tanti biondi e tanti individui con occhi chiari fra
gli ebrei orientali, diventa molto relativa se ci si rende conto che qui non si tratta di un tratto genetico
nordico (e meno ancora falico), ma appunto balto-orientale. Per chiarire questo problema Fishberg ha
studiato un gran numero di ebrei emigrati in Nordamerica, e ha trovato che i brachicefali erano più numerosi
fra i biondi con gli occhi chiari che fra quelli con gli occhi e i capelli scuri (1). Il problema del colorito
chiaro fra gli ebrei orientali poteva costituire una difficoltà per la scienza razziologica solo se essa non
avesse riconosciuto l’esistenza di una razza baltico-orientale – la race orientale [razza orientale] di Deniker -
caratterizzata da colorito chiaro ma nel contempo brachicefala, dal viso ampio e dal naso corto e ricurvo
verso l’interno.
Fra gli ebrei ci si incontra occasionalmente anche con individui che hanno un’ovvia influenza nordica.
Questo era stato riconosciuto da Kerl Vogt, il quale, nelle sue “Lezioni sull’uomo” (1863), aveva detto: “Nel
Nord, in Russia e in Polonia, in Germania e in Boemia, si incontra con una varietà di ebreo che spesso ha i
capelli rossi, la barba corta, il naso appuntito e ottuso, gli occhi piccoli, grigi e astuti, dalla corporatura
tozza, il viso tondo e le ossa della mascella arrotondate, che è molto simile a tante stirpi slave, soprattutto
settentrionali”. Qui, Vogt enumera tutta una serie di caratteristiche balto-orientali. Ancora prima che
Deniker avesse identificato la race orientale [razza orientale], oggi detta razza baltico-orientale, Fishberg si
era accorto da dove provenissero i coloriti chiari degli ebrei orientali; e nella sua opera “Sul problema
dell’origine dell’elemento biondo nell’ebraicità” (2) aveva attribuito il biondismo di certi ebrei a incroci,
avvenuti durante il Medioevo, con popolazioni slave dell’Europa orientale – e aveva parlato anche dei
‘chazari bianchi”. Gli ebrei biondi assomigliano, secondo Fishberg, a certi slavi biondi, e sono generalmente
piccoli e brachicefali. Solo una piccola parte del biondismo ebraico può essere ricondotto alla Palestina
arcaica (ad un influsso amoritico-nordico), perché in questo caso di ebrei biondi dovrebbero essercene
grosso modo nella stessa percentuale in tutte le comunità ebraiche del mondo. Pur essendo d’accordo con
tutte queste idee del Fishberg, non bisogna dimenticare che, dalle mescolanze con le genti slave nel
Medioevo (anche loro prevalentemente balto-orientali), gli ebrei devono avere ricevuto una pur piccola
79
influenza nordica, che non mancava nelle popolazioni slave. Quindi i coloriti chiari nell’ebraicità orientale
possono essere spiegati come segue: in minor misura come conseguenza di una componente nordica
proveniente sia dalla Palestina arcaica che dagli incroci con gli slavi durante il Medioevo; e in misura
massima per gli influssi balto-orientali incamerati sia nel Medioevo che in tempi più recenti.
I coloriti chiari incontrati da Virchow fra gli scolari ebrei della Germania e dell’Austria nel suo studio del
1874 / 77 sono da attribuirsi essenzialmente a influssi nordici e balto-orientali molto antichi; e solo in
minima misura a mescolanza con la popolazione tedesca nel secolo XIX. Questo, risulta da un’analisi
dettagliata dello studio del Virchow, del quale ora si darà un riassunto:
Nel 1874 e 1875, sotto suggerimento di Rudolf Virchow, si intrapresero registrazioni del colore degli
occhi e dei capelli degli scolari della Germania, della Svizzera, dell’Austria e, più tardi, del Belgio (1). Lo
studio fu fatto su 10 milioni di scolari (su 6.758.827 in Germania), non esclusi quelli di religione mosaica
che però vennero sempre identificati come tali – ma non si fece nessuna distinzione fra bambini tedeschi e
bambini ebrei di religione cristiana, che vennero contati come tedeschi. Questo studio diede comunque dei
risultati utili per il problema qui considerato. I risultati comparativi per i bambini tedeschi e per quelli ebrei
sono già stati dati più sopra. I bambini di appartenenza religiosa mosaica residenti in Germania, in media
l’11,7% avevano la pelle chiara gli occhi azzurri e i capelli biondi, e il 42% la pelle e i capelli scuri e gli
occhi bruni. Queste percentuali erano distribuite in modo abbastanza uniforme su tutta la Germania. Il filone
chiaro fra i bambini ebraici rappresentava l’11,23% in Prussia, il 10,38% in Baviera, il 10,32% nel Baden,
l’11,17% nel Hessen, il 13,53% nel Braunschweig, il 9,91% nella Sassonia-Meiningen e il 13,51%
nell’Alsazia-Lorena. Interessante anche il fatto che questa distribuzione era del tutto indipendente dal grado
di biondismo della popolazione tedesca circostante. Se ci fosse stata una importante mescolanza fra ebrei e
tedeschi, si sarebbero trovati più “ebrei chiari” nel Nord-ovest della Germania che nel Sud o nel Sud-est.
Dalla considerazione esatta delle cifre, appare invece quanto già Virchow aveva detto: “Risulta interessante
che nelle zone più bionde della nostra terra gli ebrei sono più scuri, e viceversa” (1). I tipi chiari fra gli ebrei
in Germania sono leggermente più abbondanti nel Nord-est, e in Austria-Ungheria nell’Est. I tipi più scuri,
sempre in Germania, diminuiscono leggermente a seconda che ci si muove da Nord a Sud, mentre le forme
miste (biondi con gli occhi bruni oppure capelli scuri in combinazione con occhi azzurri, ecc.) e gli occhi
grigi aumentano leggermente nella stessa direzione (2). Queste piccole variazioni nel ‘biondismo’ degli ebrei,
che in Germania, aumenta verso Nord-est e in Austria verso Est, sono un indicatore dell’origine razziale di
questo “biondismo”: esso è dovuto, almeno in parte, ad influssi balto-orientali. – Per quel che riguarda gli
ebrei allora residenti nell’Europa centrale, stirpi che al giorno d’oggi sono in massima parte estinte, i casi di
biondismo che si riscontravano fra loro devono essere attribuiti, in massima parte, a influenze nordiche non
certo recenti. Invece, in vista della distribuzione del biondismo fra questi ebrei, del tutto indipendente da
quella dei tedeschi delle stesse zone, si deve pensare alla componente nordica proveniente dalla Palestina
arcaica. Anche Livi ha potuto dimostrare, usando dati statistici ottenuti in altre nazioni, che l’aumento o la
diminuzione del biondismo fra gli ebrei, non è correlata con l’aumento o la diminuzione del biondismo fra le
popolazioni non-ebraiche ospitanti (1). Gli ebrei dell’Italia sono, in media, più scuri a Firenze, dove i nonebrei
sono più chiari, e più chiari a Modena, dove i non-ebrei sono più scuri.
Bisogna tenere presente che nel popolo ebraico c’è un vecchio influsso nordico, anche se piccolo,
sufficiente per potere controbattere l’opinione di chi vorrebbe attribuire questi influssi a mescolanze
avvenute fra ebrei e non-ebrei durante il Medioevo o anche dopo. L’accumulazione di coloriti chiari fra gli
ebrei orientali, in combinazione con la frequenza di figure tozze, teste corte, visi larghi, mascelle forti (ossa
mascellari pesanti) e altri tratti, anch’essi frequenti fra loro, indica in modo del tutto ovvio che ci furono
incroci, durante il Medioevo e anche dopo, con popolazioni est-europee di razza prevalentemente baltoorientale.
Viceversa, un certo biondismo rintracciabile fra gli ebrei dell’Europa occidentale e meridionale e
fra quelli del Nordafrica, dev’essere attribuito a influenze nordiche rinviabili alla Palestina arcaica (Capitolo
V).
Potrebbe anche darsi che la componente razziale paleopalestinese-nordica si fosse anche rafforzata,
soprattutto fra i gruppi ebraici dell’Occidente. Fino al secolo XVI l’ideale della bellezza che valeva in
Occidente era quello con i tratti della razza nordica. Questo ideale, che continua ad avere effetto anche ai
80
nostri giorni (2), probabilmente ha avuto un effetto anche nelle scelte matrimoniali degli ebrei, in quanto
un’ebrea dai tratti nordici più pronunciati doveva essere vista come più bella. Questo orientamento della
scelta matrimoniale, probabilmente valido solo per le famiglie ebraiche più abbienti, non avrebbe potuto
avere un riscontro sulla selezione razziale del popolo ebraico, se gli ebrei più nordici non avessero avuto un
numero medio di figli superiore al resto del popolo. Che ciò sia avvenuto, può essere ammesso fino al secolo
XIX: dopo le cose siano andate in senso opposto, e gli ebrei più ricchi sono diventati anche i meno prolifici.
Si può presumere che fino a tutto il Medioevo gli ebrei che avevano il massimo successo economico e
sociale, e quindi avevano le famiglie più numerose, siano stati anche quelli che dimostravano un minimo di
aspetto “ebraico”, mentre presentavano influssi ben visibili di una o più razze europee. Ma queste sono
presunzioni difficilmente dimostrabili.
L’influenza di un ideale estetico di tipo nordico fu accompagnato anche da una certa tendenza (considerata
più avanti) a nascondere la propria origine ebraica, cercando di unirsi con quelli che possedevano un aspetto
meno “ebraico” possibile; e anche questi fattori hanno influito sulle scelte matrimoniali. Secondo von
Luschan, “Basta fare attenzione per qualche giorno ai trafiletti che sui nostri giornali pubblicizzano le
richieste matrimoniali, per rendersi conto quanto apprezzate siano le ebree bionde e con gli occhi azzurri dai
loro correligionari” (1). Questo è confermato da Feist, il quale indica che quando un ebreo cerca moglie,
spesso vuole un’ebrea bionda slanciata e con gli occhi azzurri; e la preferenza per il tipo prevalentemente
nordico è manifesta anche quando una coppia ebrea senza figli decide di adottare un bambino (2). Questi
avvisi sui giornali non si riferiscono a persone con i tratti della razza balto-orientale, in quanto generalmente
si chiede anche una figura slanciata, e la figura balto-orientale non è vista come attraente, e comunque è
molto comune fra gli ebrei orientali. Ma sotto le circostanze della vita e della mentalità moderna, le coppie
ebraiche dall’aspetto più nordico hanno comunque meno figli rispetto al resto dei loro correligionari, come
generalmente è il caso delle famiglie ricche. Quelle unioni quindi non aiutano certo a rafforzare il contenuto
nordico nel popolo ebraico.
c) Schizzo sulla composizione razziale
dei gruppi ebraici più importanti
I dati disponibili non sono certo sufficienti per arrivare ad un giudizio definitivo sulla composizione
razziale dei diversi raggruppamenti ebraici. Ma facendo uno studio comparato delle misure antropometriche
e dei risultati dello studio razziologico dei diversi raggruppamenti ebraici (cfr. la sezione [a] di questo stesso
capitolo e anche i lavori dei già citati Livi e Pittard), ne viene fuori il quadro che passiamo subito a
descrivere. Sia ricordato in ogni caso che in ragione dell’insufficienza degli studi razziologici fatti sugli
ebrei fino ad oggi, se questi risultati non hanno un valore scientifico assoluto, ne hanno comunque uno come
buoni “indicatori provvisori”.
Si è già parlato della diversa composizione razziale degli ebrei meridionali (sefarditi) e orientali
(aschenazi): i primi sono prevalentemente orientalidi, i secondi prevalentemente levantini. In termini
generali, si può affermare che la predominanza della razza levantina nel popolo ebraico è tanto più
accentuata quanto più il gruppo considerato è stanziato vicino al Caucaso. Gli ebrei del Caucaso sono
levantini in modo assolutamente preponderante, cosa inevitabile visto le documentabili mescolanze con la
popolazione locale, avvenute ancora nei secoli precristiani o al massimo nell’alto Medioevo. Questi ebrei
sono quelli che si sono allontanati di più dall’aspetto originario dell’ebreo dei tempi dell’entrata nel Canaan
(1.400 – 1.200 a.C.), prevalentemente orientalide. L’immagine originaria dell’ebreo, o per lo meno quella che
doveva ancora avere al tempo dei re (verso il 1.000 a.C.), dev’essersi conservata con il massimo di
approssimazione fra gli ebrei della Palestina, della Siria, dell’Arabia meridionale, fra gli ebrei ’spagnoli’ e la
maggior parte degli ebrei meridionali (sefarditi); fra gli ebrei dello Jemen (Arabia meridionale), e ancor più
fra quelli del Nordafrica, Egitto incluso, dove il “naso ebraico” è meno frequente. Questi sono coloro che,
presumibilmente, hanno conservato meglio la composizione razziale dell’ebraicità arcaica; forse ancor
meglio di quelli della Palestina e della Siria dei nostri giorni. Gli ebrei dello Jemen sono diversi da tutti gli
altri, probabilmente in ragione di un maggiore contenuto di razza camitica e forse anche di una razza
pigmoide. Gli ebrei dell’Egitto dimostrano anch’essi un importante influsso camitico, a quanto risulta dalla
81
loro notevole altezza media. La relativa scarsità di “nasi ebraici” fra gli ebrei stanziati fra l’Arabia
meridionale e il Marocco dev’essere attribuita alla predominanza della razza orientalide, mentre la scarsità
di essa fra certi raggruppamenti ebraici della Russia è determinata dagli influssi balto-orientali ed estidi. Dal
punto di vista razziale, gli ebrei dell’Arabia meridionale, quelli stanziati da molto tempo in Palestina e in
Siria, quelli del Nordafrica e del Caucaso, assomigliano più alle popolazioni circonvicine; mentre gli altri
raggruppamenti ebraici, chi più chi meno, ma in generale in modo abbastanza evidente, si distinguono dalle
popolazioni ospitanti.
Gli ebrei orientali sono quelli allontanatisi di più dal tipo arcaico dell’ebreo. Il nesso con gli ebrei originari
è costituito dalla componente razziale levantina, e molto meno da quella orientalide. Le componenti razziali
balto-orientali, estidi, mogolidi e sudetiche, delle quali si è già parlato, li distinguono in modo più
accentuato dal resto degli ebrei, e sono state determinanti per far sì che gli ebrei orientali – che adesso
costituiscono la grande maggioranza dell’ebraicità – abbiano ormai un minimo di contenuto “semitico”,
quando per “semitico” si intenda il complesso somatico-psichico caratteristico della razza orientalide.
Gli ebrei orientali, in ragione delle influenze ricevute da razze est-europee, sono meno diversi da tante
popolazioni est-europee, soprattutto slave, di quanto non lo siano altri gruppi ebraici. Viceversa, sono tanto
più diversi dalle popolazioni dell’Europa centrale e occidentale quanto minore tra quelle popolazioni (in
certe zone dell’Europa meridionale) è l’influsso levantino e orientalidi, o quanto meno (nell’Europa centroorientale)
esse dimostrano influssi balto-orientali. Gli ebrei orientali – e in generale tutti gli ebrei – sono,
razzialmente, molto diversi dalle popolazioni ospitanti nell’Europa Nord-occidentale e nelle zone d’oltremare
popolate da emigrati nord-ovest-europei.
Non pochi osservatori hanno descritto le differenze fra gli ebrei meridionali (sefarditi) e quelli orientali
(aschenazi) come segue: i sefarditi avrebbero un aspetto più ‘distinto’ e una figura più ‘nobile’, delle
proporzioni corporee più eleganti, un naso più sottile e stretto e meno protrudente, degli occhi molto scuri e
brillanti. Al contrario, gli aschenazi avrebbero un aspetto molto meno distinto o nobile, una corporatura più
tozza e poco elegante, un naso più carnoso e pendente, labbra più grosse, bocche più larghe e, spesso, capelli
crespi. Queste differenze si spiegano facilmente quando in due gruppi umani, dove uno è prevalentemente
orientalide e l’altro prevalentemente levantino. Quest’ultimo ha ricevuti anche molti altri disparati influssi
quindi, in ragione del sua figura mista, perciò necessariamente disarmonica, ha un aspetto molto meno
“nobile”. Che ci siano anche differenze di tipo animico fra i due gruppi, è stato dimostrato da Nemecek per
mezzo di studi psicologici portati a termine fra gli alunni ebrei nella Nuova Scuola Commerciale di Vienna.
Fra gli aschenazi c’era una certa vivacità e rapidità nei processi intellettuali, mentre i sefarditi avevano “una
natura più calma, improntata dalla tranquillità orientale” (1).
Degli influssi camitici e mongolidi nel popolo ebraico si è già parlato.
Weissenberg ha studiato razziologicamente 12 leviti e 34 ‘kohanim’ (sedicenti discendenti di Aronne) – i
leviti e i ‘kohanim’ assicurano che sono discendenti dei grandi sacerdoti degli ebrei della Palestina e quindi
appartengono a stirpi che non hanno mai contratto matrimonio al di fuori dalle loro specifiche cerchie. Dei
‘kohanim’ si assicura che almeno da 2.000 anni non hanno mai contratto matrimonio con conversi
all’ebraismo, ma occasionalmente con le loro figlie; di conseguenza non era il caso di aspettarsi distinzioni
importanti fra costoro e gli altri ebrei del loro ambiente circostante. Invece Weissenberg trovò che, sia fra i
leviti che fra i ‘kohanim’, c’erano meno dolicocefali, o tendenzialmente tali, che nella media dei gruppi
ebraici ai quali questi (sedicenti) discendenti di alti sacerdoti appartenevano.
Ne segue, molto probabilmente, che questi leviti e ‘kohanim’ che, razzialmente si distinguono a malapena o
non si distinguono affatto dal loro ambiente ebraico, non costituiscono gruppi razzialmente specifici o
devianti – almeno per quanto è permesso concludere dal numero, relativamente esiguo, delle misure fatte dal
Weissenberg.
82
Gisela Lampertówna ha fatto una studio razziologico degli studenti ebrei dell’università di Lemberg; e ha
cercato di determinare il loro misto razziale utilizzando il metodo di calcolo “diagnostico-differenziale” di
Czekanowski. I suoi risultati sono stati i seguenti (1):
Tipo antropologico
—————————————————————–
Orientalide
Mediterraneo (occidentale)
Armenoide (levantino)
—————————————————————–
Nordico
Subnordico (qualcosa come balto-orientale-nordico)
Alpino (qualcosa come estide)
Lapponoide (qualcosa come estide)
Preslavo (qualcosa come balto-orientale-sudetico)
Dinarico
Forme miste dinarico-subnordico
—————————————————————–
Totale
—————————————————————–
Conteggio %
individuale
—————————————————————–
14 18,67
9 12,0
7 9,33
—————————————————————–
3 4,00
17 22,67
11 14,67
9 12,00
2 2,67
2 2,67
1 1,33
—————————————————————–
75 100,01
In questo gruppo diventa subito evidente che le influenze europee costituiscono oltre il 50% del misto
razziale. Gisela Lempertówna ne deduce che forse (a meno che si tratti di un misto razziale locale – gli
studenti provenivano tutti dai tre vojvodati più sud-orientali della Polonia) “i risultati rappresentano una
selezione del tutto particolare” (p. 819). Gli influssi europei, molto pronunciati nel tipo fisico del gruppo
prescelto, indicherebbero che nell’insieme psicologico dovevano esserci forti tendenze verso l’attività
scientifica; e questo sembra essere confermato dai risultati ottenuti.
L’idea che i tratti ereditari orientalidi, o quelli di un misto camitico-orientalide, diano un aspetto “nobile” o
addirittura “aristocratico”, è diffusa fra gli stessi ebrei. Il tipo ideale del “nobile”, secondo il punto di vista
ebraico, rintracciabile anche nei quadri di pittori ebrei, dimostra generalmente i tratti somatici della razza
orientalide. Ci si può anche accorgere che una donna o una ragazza che viene descritta da ebrei o da nonebrei
come una “bella ebrea”, è quasi sempre di razza prevalentemente orientalide. Assieme a questo ideale
di bellezza dai tratti orientalidi, si constata che fra gli ebrei residenti in Occidente emerge spesso l’ideale di
bellezza dai tratti nordici; e questo fatto spesso si riflette in un’”oscillazione” del gusto fra l’uno e l’altro,
oppure nella combinazione dell’immagine dell’ebrea prevalentemente orientalide con i capelli biondi o con
altre indicazioni di influsso nordico (cfr. [b] più sopra).
83
È interessante come l’idea che l’occidentale si fa dell’”ebreo puro” derivi quasi esclusivamente dalla figura
levantina. Questo è particolarmente vero per quel che riguarda le pubblicazioni umoristiche e le
rappresentazioni caricaturali, come, per esempio, la maggior parte dei disegni riprodotti da Fuchs nel suo
Die Juden in der Karikatur [Gli ebrei nella caricatura] (1900). Anche un quadro come quello di Böcklin,
“Susanna al bagno”, testimonia la stessa cosa. Siccome un dato popolo si accorge subito di quei tratti che in
un altro sono diversi dai suoi, o che al suo interno sono rari, esso li utilizza nelle rappresentazioni del popolo
straniero. Gli occidentali hanno così percepito la componente levantina come il tratto più ovvio nel
misto razziale ebraico.
Uno degli studi comparati più circostanzati di una popolazione tedesca e di una ebraica, stanziali nello
stesso territorio, è stato portato a termine da Ammon sulla base di misure e di constatazioni sui ragazzi di
leva del Baden. I risultati da lui ottenuti per la media dei due gruppi furono: “Gli ebrei sono più piccoli,
hanno le gambe più corte, sono più dolicocefali, sono più scuri, più sviluppati, più pelosi e con più barba,
sono meno pesanti, hanno il torace più stretto” (1) dei giovani di leva tedeschi del Baden, che ci si deve
rappresentare come un misto razziale estide (alpino)-nordico-dinarico con un lieve influsso occidentale
(mediterraneo). Gli ebrei del Baden sono più dolicocefali (hanno la testa meno corta) dei tedeschi della
stessa regione, ma non perché siano più nordici – se così fosse avrebbero dovuto essere anche più alti, snelli,
biondi e pesanti, con il torace più amplio e meno precocemente sviluppati – ma, presumibilmente, in ragione
di influssi di razza orientalide e occidentale (mediterranea).
L’aspetto generale dei giovani ebrei descritti da Ammon, di massima è lo stesso che potrebbe avere un
qualsiasi altro raggruppamento ebraico, cioé quello di un misto razziale plurimo. Ammon continua dicendo
“che i giovani ebrei di leva si rivelano subito, anche al primo colpo d’occhio, come appartenente ad una
razza fortemente mista. Il loro aspetto si scostava da quello stereotipo dell”ebreo’ in tutte le misure possibili,
fino all’irriconoscibilità totale” (cit., p. 664). Ma gli ebrei non sono una “razza fortemente mista”, come dice
Ammon, ma – almeno per quel che riguarda gli ebrei orientali – un popolo fortemente misto o, più
esattamente, un misto razziale plurimo al quale fa da base un incrocio orientalide-levantino.
Wolberg fece una volta il tentativo di studiare, usando i metodi della psicologia sperimentale, le differenze
razziali animiche fra un misto razziale ebraico e uno tedesco; e Nemecek fece lo stesso con degli studenti
della Nuova Scuola Commerciale di Vienna. Wolberg trovò che i non-ebrei erano definitivamente superiori
per quel che si riferiva a capacità di osservazione, attenzione “visiva”, memoria, riconoscimento a posteriori
e nel mettere insieme i dettagli per formare un’”immagine visiva” (1). Si può presupporre che facendo questo
studio – di per sé insufficiente per raggiungere una vera conclusione – Wolberg avesse in mente di
dimostrare qualcosa di specifico: e cioè che nei misti razziali dei popoli occidentali, soprattutto se è presente
un influsso nordico importante, ci sono presumibilmente più tratti ereditari favorevoli al pensiero visivo che
nel misto razziale ebraico. È mia opinione che, per esempio la capacità per le rappresentazioni geometriche
e per quelle di altorilievi e bassorilievi e per le proiezioni, ecc., sia molto più accentuata fra i popoli
occidentali – soprattutto, forse, fra quelli che hanno un influsso nordico più forte – che non fra gli ebrei.
Secondo Nemecek, lo studente “cristiano”, cioè, di massima, non-ebreo, pensa in modo “reale”; quello ebreo
(cioé: di fede mosaica), in modo “verbale”. Questo significherebbe che egli pensa in un modo più staccato
dalla sensazione visiva e più legato a parole e a concetti. Nemecek volle vedere in questa tendenza “una
innegabile e forte pulsione all’intellettualità negli studenti ebrei”, ma egli stesso esprime il dubbio che in
realtà si tratti solo della conseguenza di una maturità precoce (2).
d) Movimenti e atteggiamenti ebraici
Il modo in cui gli ebrei si muovono e gli atteggiamenti che adottano sono sempre stati percepiti dai popoli
occidentali come qualcosa di estraneo. Questo è testimoniato sia da racconti che da rappresentazioni
grafiche. Illustrativa in proposito è sempre l’opera di Fuchs, Die Juden in der Karikatur [Gli ebrei nella
caricatura].
84
Non tutti gli ebrei si muovono “ebraicamente”. Molto spesso questo tipo di movimenti si manifestano in
modo inconsapevole, contro la pressione di un ambiente umano razzialmente diverso e quindi caratterizzato
da un tipo di movimenti e atteggiamenti diversi. Viceversa, quanto più numerosi sono gli ebrei in una data
popolazione, tanto più liberi sono di “muoversi” in un ambiente ebraico, allora il loro modo di presentarsi
diventa più specifico, e come tale è stato descritto in molteplici modi e occasioni. L’”ebraicità” affiora nei
movimenti degli ebrei dell’Europa orientale più che in quelli dell’Europa occidentale o centrale.
In un articolo sugli “Attori ebrei” pubblicato nel “Kunftwarts [Verso il futuro]” (anno 7º, 1893/94, p. 135)
si afferma che gli attori e le attrici ebraiche, quando si presentano singolarmente in mezzo a non-ebrei,
sviluppano movimenti che di “semitico” non hanno niente, ma quando si incontrano fra loro, allora gli
atteggiamenti “semitici” affiorano in modo del tutto naturale: “Quando un’attrice ebrea si trova isolata fra
non-ebrei, si farà notare per la sua declamazione ampia e la coloritura barocca del modo di presentarsi, ma
quando rinuncia ad ogni specificità semitica, allora ne risulta una figura armonica e distinta. Invece si può
osservare che ogni volta che diversi attori ebrei lavorano insieme, si palesa immediatamente un tipo diverso
di linguaggio artistico, alieno dalla consapevolezza realistica dei tedeschi. Il primo modo di presentarsi
affiora inconsapevolmente, anche nella foga della rappresentazione, e va ad esprimere una volontà di
colorire la declamazione per mezzo dei gesti; il secondo è più mirato. Se dal loro modo di comportarsi si
vuol indovinare quello che sta succedendo, si deve pensare che stiano inscenando una pantomima. In questo
caso gli atteggiamenti acquistano facilmente la natura di un linguaggio mimico convenzionale che
accompagna quello parlato; e anche gli attori non-ebrei, sotto queste condizioni, soggiacciono facilmente a
questa modalità pacchiana”. Ma questo modo di fare degli attori può essere detto “pacchiano” soltanto
quando viene esercitato su un palcoscenico di spirito occidentale, dove si vuole impersonare genti
occidentali; mentre su un palcoscenico di spirito ebraico o levantino dove si impersonano genti levantine sul
tipo del Shylock di Shakespeare, questo modo di fare l’attore può essere classificato come “genuino” e
“corretto”.
I palcoscenici offrono molte opportunità di poter osservare i movimenti “ebraici”, nonché il modo in cui le
maniere ebraiche e non-ebraiche di rappresentazione si influenzano reciprocamente. I movimenti degli attori
ebrei si presentano come del tutto “puri” solo quando interpretano pezzi scritti da autori ebrei e ambientati in
ambienti ebraici. Sui palcoscenici tedeschi, io non ho mai visto rappresentazioni che diano l’impressione di
essere tanto autocentrate e unitarie e tanto “stilisticamente genuine” come nel Teatro Ebraico di Vienna,
dove venivano rappresentati pezzi scritti da librettisti ebrei, di massima in lingua jiddisch, e dove gli
atteggiamenti degli attori, che lasciavano trasparire la natura ebraica fino ai più sottili dettagli, facevano un
effetto particolarmente convincente.
Non c’è dubbio che una parte degli atteggiamenti degli ebrei dell’Europa orientale non è dovuta ad
ereditarietà ma ad abitudini, punti di vista e precetti trasmessi attraverso le generazioni – ma che comunque
hanno la loro origine nelle caratteristiche ereditarie animiche di genti per le quali un certo tipo di movimenti
è diventato esemplare. In ogni caso, una parte dei movimenti caratteristici degli ebrei dell’Europa dell’Est,
devono essere visti come tratti acquisiti; il resto, e sono la maggiorannza, come tratti ereditari. In quei
movimenti che sono comuni a tutti i gruppi ebraici, si possono riconoscere anche dei veri tratti razziali
ereditari. Fra quegli ebrei o “mezzi ebrei” nei quali, somaticamente, si riconoscono influssi razziali europei,
e quindi hanno un aspetto “poco ebraico”, la loro “ebraicità” si manifesta spesso proprio attraverso il modo
di muoversi. In casi del genere capita allora che la figura corporea e il movimento provengono da due linee
ereditarie diverse.
Un’osservazione attenta della maggior parte di quegli ebrei che non presentano alcun “atteggiamento
ebraico”, rivela che essi dimostrano una certa rigidità e compostezza nel modo di presentarsi; un’attenzione
tesa sul proprio comportamento e un’attenzione scrupolosa a quei modi di presentarsi e di comportarsi che
sono considerati “corretti” dalla popolazione ospitante. Di molti di questi ebrei “corretti”, abbastanza
frequenti in Germania, soprattutto nel Nord, si può affermare a buon diritto che sono sempre sul “chi va là”
per non ‘lasciarsi andare’. Essi vivono sotto una condizione di tensione continua, in parte inconsapevole, ma
sempre predominante.
85
Anche Walther Ratenau deve essersi accorto del modo particolare di muoversi proprio a tanti ebrei. Nelle
sue “Impressionen [Impressioni]” (1902), capitolo “Ascolta Israele” (p. 4), egli descrive l’impressione che i
suoi correligionari fanno all’interno delle popolazioni della Germania settentrionale: “Strana visione! In
mezzo alla vita tedesca ecco una stirpe umana diversa e separata, brillante e ovviamente dotata, dai
movimenti flessibili che rivelano sangue caldo. Sulla sabbia brandemburghese, un’orda asiatica!” – e sempre
nella stessa opera (p. 12), Rathenau parla dell’”aspetto ebraico, di tipo sud-orientale”. Questo aspetto sarebbe
determinato da “struttura dinoccolata, spalle alte, piedi disarticolati, forme molli e tondeggianti”, e causato
(lamarckianamente) da “degenerazione somatica”, conseguenza di “duemila anni di miseria”. Ai suoi
correligionari (sempre partendo da premesse lamarckiane, secondo le quali esiste un’”ereditarietà dei
caratteri acquisiti”, il chè è scientificamente falso), egli consiglia di “dedicarsi”, per un paio di generazioni,
alla “resurrezione del loro aspetto” e quindi di perdere certi specificità motorie: “Voi vi dovete preoccupare
particolarmente di non essere obiettivo di scherno, in ragione del vostro incedere incerto, furtivo e
inelegante, da parte di una razza che invece è stata allevata nella dura disciplina militare”. Rathenau aveva in
mente anche i movimenti e gli atteggiamenti degli ebrei, quando gli rinfaccia che “fate fatica a trovare il
giusto mezzo fra l’abiezione scodinzolante e l’arroganza più infame” (p. 13). Rathenau ha quindi valutato le
qualità razziali del suo proprio popolo con la misura delle idee della bellezza proprie dei popoli occidentali,
mentre, viceversa, molti disegnatori ebraici contemporanei rendono invece estremamente esplicito quanto
ripugnanti siano, per loro, i movimenti e gli atteggiamenti occidentali.
i movimenti caratteristici degli ebrei sono difficili da descrivere, ma più facili da imitare. I movimenti
della testa hanno sempre qualcosa di dondolante, così come quelli delle spalle, il che, in tanti ebrei, fa
l’effetto di un pupazzo imbottito. In molti ebrei la testa sembra spostata in avanti assieme al collo, e così il
colletto si discosta dalla nuca; e anche il movimento con cui avviene questo spostamento sembra essere
caratteristico in molti ebrei. I movimenti del corpo, nel suo insieme, sono spesso improntati da quella
mollezza e rilassatezza di cui parlava Rathenau, il che dà loro un andamento certamente poco militaresco.
L’incedere “ebraico’ ha qualcosa di furtivo e strascicato; e Schleich parla di un “incedere a tentoni,
strascicato, viscido” (1). Schaaffhausen osserva che “gli ebrei camminano con le punte dei piedi puntate
direttamente in avanti e alzano la suola del piede meno di noi, il che fa apparire l’incedere di persone di
basso rango come qualcosa di strascicato” (2). Qui egli non parla degli ebrei nel loro insieme, ma di “molti
di loro”; ma ci sono comunque osservatori capaci di riconoscere con sicurezza chi fra tutte le persone che li
circondano è un ebreo soltanto osservando il modo in cui cammina. L’opinione di Schaaffhausen è che i
versetti di 1 Mosé 32, 24 – 31, nei quali si descrive la lotta di Geova con Giacobbe e come Giacobbe ne sia
uscito con il bacino disarticolato, potrebbero voler dare una spiegazione e un’origine ad un modo di
camminare comune fra gli ebrei notato dagli altri popoli. L’incedere con le punte dei piedi puntate in avanti
è proprio di altre popolazioni che contengono un influsso negroide.
L’incedere di molti ebrei è condizionato anche dai piedi piatti. le ricerche fatte da Salaman durante la
guerra fra le truppe presenti nell’esercito inglese, trovò che fra gli inglesi 1 su 40 aveva i piedi piatti, mentre
fra 6.000 soldati ebrei la frequenza era di 1 su 6 (3). Molte ebree, anche su di un pavimento piatto,
camminano come se stessero salendo.
I movimenti delle braccia sono caratterizzati dal fatto che l’avambraccio, fino al gomito, sta appiattito
contro il corpo, mentre il braccio accompagna vivacemente il parlare con i suoi movimenti. Anche il modo
di camminare, che in molti casi fa un effetto goffo, si svolge con l’avambraccio attaccato al corpo, mentre il
braccio è diretto trasversalmente verso l’esterno e verso il basso. Rathenau vedeva negli stringimenti di
spalle, nei movimenti dei gomiti e nel posizionamento verso l’esterno delle palme delle mani che osservava
nei suoi correligionari, l’effetto di “riflessi della paura”, cioè di quei riflessi che un tempo servivano per
deviare i ceffoni (4).
Le immagini di esercitazioni di ballo eseguite in scuole di danza dirette da ebrei e frequentate quasi
esclusivamente da loro, danno un’idea molto chiara di quali siano i movimenti ebraici, in modo diretto
oppure osservandone le imitazioni fatte da non-ebrei. Ci sono certi atteggiamenti che, in Occidente, non
sono quasi mai riscontrabili se non fra ebrei (cfr., per esempio, le Figg. 256 e 257).
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Nei tipi di movimenti finora considerati si devono vedere soprattutto espressioni di tratti ereditari somatici
- struttura delle ossa e dei muscoli, ecc. Invece i movimenti più sottili dei muscoli del viso, nonché certi
atteggiamenti, devono essere visti come espressioni di tratti animici. Schleich, sul foglio ebraico appena
menzionato, descrive alcuni di questi tratti: “Si pensi all’espressione che accompagna la parola intraducibile
“nebbich”; oppure allo sguardo di intendimento, tipicamente ebraico, che gli ebrei si scambiano quando
sono arrivati a mettere in chiaro le loro intenzioni rispetto ad un terzo. Si pensi alle loro espressioni di
lamento e di tenerezza, al loro modo di piangere e di lagnarsi, ai loro sguardi in situazioni pericolose, alla
loro espressione di trionfo quando hanno vinto al gioco, ecc.” Quando si faccia la somma dei gesti che
Schleich enumera nella sua descrizione dell’anima ebraica, ne risulta una certa percentuale di tratti ereditati
che per l’occidentale appaiono estranei, o, appunto, “ebraici”.
Ma ciò che in questo caso deve essere visto come “ebraico”, non è certo esclusivo del popolo ebraico.
Anche se certi atteggiamenti “ebraici”, in contesti svariati, non divengono espliciti se non fra loro, rimane il
fatto che i presupposti somatici e psichici degli atteggiamenti in questione, o ad altri ad essi simili, esistono,
forse con qualche variazione, anche presso le popolazioni del Medio Oriente e addirittura dell’Europa sudorientale,
e comunque fra tutte quelle popolazioni che rivelano una composizione razziale non troppo
diversa da quella ebraica. Dal punto di vista razziologico, i movimenti “ebraici” vengono ad essere la
variante specificamente ebraica di movimenti propri alle popolazioni del Medio Oriente, cioè di quelle
popolazioni nelle quali il misto razziale di base è orientalide-levantino.
e) Il Mauscheln [modo di parlare ebraico]
Il verbo (tedesco) mauscheln [parlare in mdo ebraico, con pronuncia ebraica] viene dallo jiddisch
“Mosche” o “Mausche”, che vuole dire Mosé; ed è usato per designare il modo particolare in cui parlano
molti ebrei; il modo in cui vengono emessi i suoni singoli e l’intonazione variabile quando viene sviluppata
una frase. In tedesco, il verbo “jüdeln” è sinonimo di mauscheln; e jüdeln viene definito nel Deutsches
Wörterbuch [Vocabolario tedesco] di Paul (1921) come “quel modo di parlare che dimostra specificità
ebraiche”. Schudt ha descritto il Mauscheln [il sostantivo derivato dal verbo mauscheln] “l’accento, la
pronuncia e il modo di espressione proprio della conversazione ebraica, che diventa evidente non appena un
ebreo apre bocca” (1).
Riccardo Wagner descrive il Mauscheln come “il modo di pronunciare i suoni proprio degli ebrei, che è
fischiante, stridente, ronzante, svogliato”. Egli trovava le medesime caratteristiche anche nella musica di
compositori ebrei, soprattutto nelle canzoni, in quanto “il canto è la più alta espressione di un discorso
appassionato” (2). Wagner tentava di spiegare il Mauscheln come una conseguenza del fatto che l’ebreo
parla le lingue dei popoli in mezzo ai quali vive, ma le parla sempre da straniero.
Ma non tutti gli ebrei mauscheln parlano all’ebraica; molti parlano la lingua del luogo bene come gli
indigeni, mentre fra alcuni, che ovviamente hanno fatto uno sforzo per parlar “bene”, si nota una pronuncia
forzata. Ci sono anche ebrei per i quali il Mauscheln è diventato ripugnante. Casi del genere sono
menzionati da Hans von Bülow, il quale parla di un caso nel quale un ebreo rifiutava la musica “ebraica”
(nel senso dato a questo termine da Wagner), citando una lettera a George Davidsohn del 20 febbraio 1884:
“Si ricordi quanto fatale e quanto opprimente e doloroso fu per il nostro grande Ferdinand Lassalle il suo
modo di parlare “ebraico”; quanto appassionatamente il nostro indimenticabile amico Carl Taufig reagiva
contro il tono “ebraico”; pensi a quella memorabile serata nel salone della Casa Municipale di Monaco di
Baviera, quando il maestro di cappella Levi, schiattando dalla rabbia, urlò dal palcoscenico: ’se devo per
forza dirigere ancora questa contorta opera di tono “ebraico” (ne taccio il nome, perché ci sono ancora
diversi a cui piace), preferisco iscrivermi all’Associazione Antisemita’. Quindi auspico una lotta contro il
Mauschel da parte di tutti coloro che non parlano all’”ebraica” e di tutti quelli – grazie a Dio, numerosi – che
vogliono cessare di parlare in quel modo” (1).
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Riccardo Strauss ha tentato, nella sua “Salomè”, di rendere musicalmente il Mauscheln degli ebrei
eccitati, in quella parte dell’opera dove intervengono le dispute fra i cinque ebrei (2). Pezzi musicali di
compositori ebrei che, probabilmente senza volerlo, vi introducono il Mauscheln, indicano che questo modo
di parlare non dipende soltanto dalla qualità degli organi vocali ma anche da caratteristiche psicologiche che
possono trovare la loro espressione nelle tonalità di un pezzo musicale.
Il Mauscheln non è esclusivo di quegli ebrei che parlano in tedesco, ma può essere percepito anche fra
ebrei che si esprimono in altre lingue. Rohlfs dice di aver ascoltato ebrei, in Nordafrica, che biascicavano sia
l’arabo che il tamasihrt (una lingua berbera dell’Africa Nord-occidentale) “ebraicamente” (3). Vambery
racconta che “L’ebreo di Bagdad parla in arabo, ma con un tono nasale e un accento straniero” (4). Il medico
e razziologo ebreo Weissenberg menziona il “grido rantolante’ che molti ebrei emettono quando sono
eccitati (5). Dirr, in base a certe sue osservazioni nel Medio Oriente, informa che “Ho potuto constatare che
gli ebrei del Daghestan parlano il tatische con la stessa cantilena con cui quelli della Germania parlano il
tedesco” (6). Anche il modo in cui gli ebrei parlano le lingue caucasiche avrebbe la stessa tonalità, nonché il
cosiddetto “persiano ebraico”. Mach, nei suoi “Prinzipien der Wärmelehre [Pricipi di teoria del calore]”
(1900), racconta come un professore liceale ebreo gli avrebbe assicurato che “poteva riconoscere un ebreo
come tale, anche senza vederlo, dal suono di una sola parola da lui pronunciata”. – Adesso, la radio offre
l’opportunità di percepire il Mauscheln in tutte le sue sfumature; e ci sono ascoltatori, ebrei e non-ebrei che,
dopo aver ascoltato solo qualche parola di qualcuno che parla per radio, sono in grado di giudicare se si
tratta di una voce ebraica o non-ebraica – e questo sia che la voce percepita parli o canti. Non è da escludersi
che si possa arrivare a registrazioni fonografiche del Mauscheln, con lo scopo di studiarlo scientificamente
dopo averlo ridotto a note acustiche, o a qualche altro tipo di rappresentazione grafica.
Un certo Mauscheln è percepibile anche nel canto di vari cantanti ebrei: questa o quella nota suona un
poco diversa, il ritmo un poco instabile, la presentazione d’insieme diversa rispetto ai cantanti non-ebrei.
Stapel ha constatato questi fenomeni nel canto di bambini ebrei, e li ha descritti dal punto di vista di una
sensibilità musicale tedesca, del tutto diversa: “Nelle vicinanze di una stazione balneare del Mar Baltico, mi
toccò di ascoltare come un gruppo di bambini, che non vedevo, cantasse canzoni popolari tedesche. Non
solo mancava il ritmo giusto nell’accompagnamento orchestrale, ma nel suono c’era qualcosa di stanco,
stridulo, automatico e piatto, che non si accordava assolutamente con il contenuto delle canzoni. (Questo è
difficile da rendere verbalmente, ci si accontenti di un’indicazione.) In ogni caso: non avevo mai sentito dei
bambini tedeschi cantare in quel modo. Sembrava qualcosa di impossibile. Quando i bambini svoltarono
dietro l’angolo della strada e potei vederli, si sciolse l’indovinello: si trattava di un gruppo di studenti ebrei in
ferie, diretti da un insegnante ebreo” (1).
Lo studio delle collezioni di barzellette ebraiche – incomprensibili se si rinuncia a leggerle imitando una
pronuncia “ebraica” -, come per esempio quelle di Moszkowski Der jüdische Witz und seine Philosophie
(1923) o di Sammy Gronemann, Tohuwabohu (1925), usando i procedimenti proposti da Kutz e Sievers,
darebbe sicuramente la chiave per capire, dal punto di vista linguistico, la natura essenziale del Mauscheln.
Ma su quali tratti razziali si basa il cosiddetto Mauscheln? Mach, nella sua opera citata, ha tentato di dare
come spiegazione che: “Anche se dei suoni, al completo, non sono innati, per una data razza sono innati
certi elementi acustici”. Non è del tutto chiaro che cosa Mach intendesse per “elementi acustici”. Ma è lecito
immaginarsi che il suo orientamento nell’indicare la via per identificare l’origine del Mauscheln sia stato
l’ammissione che in ogni razza c’è una preferenza per certi suoni – e questo sembra essere confermato dalle
statistiche del contenuto fonetico di diverse lingue. È raro che i suoni possibili nello strumento linguistico di
una razza, o da essa favoriti, non possano essere pronunciati da un’altra, o che i toni usati dall’una non
possano essere imitati dall’altra. Perfino i suoni ‘a schiocchi’ delle lingue boscimanesche possono essere
appresi da individui di altre razze. Ma non c’è dubbio che la stuttura dello strumento linguistico, sempre più
o meno variabile da razza a razza – per non parlare delle diverse inclinazioni ereditarie – abbia un effetto
sulla scelta dei suoni. Il Mauscheln degli ebrei, o comunque di molti fra loro, sarebbe un tentativo di seguire,
a modo loro, l’andamento fonetico della lingua adottata – e quindi un tentativo di adattare alla lingua
esogena, che l’ebreo parla, le proprie preferenze fonetiche. Quegli ebrei che si mantengono quasi
esclusivamente all’interno di cerchie ebraiche, sono meno soggetti a “correzioni” dal loro ambiente e meno
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sospinti a “parlare bene” rispetto a quelli che hanno frequenti contatti con non-ebrei. Ne segue un maggiore
Mauscheln fra gli ebrei orientali della Russia e della Polonia e un suo indebolimento fra gli ebrei
dell’Europa occidentale, al punto che può essere praticamente soppresso.
Il carattere “rantolante” della parlata di molti ebrei e il modo in cui, presso tanti ebrei orientali, viene
pronunciato il suono ‘ch’ (come, in tedesco, “flach”, “Krach”), fa sospettare che il Mauscheln possa essere
influenzato da caratteri ereditari propri alla razza orientalide – quella alla quale, originariamente, erano
proprie le lingue semitiche. Brockelmann indica una determinata tendenza fonetica quando, a proposito delle
lingue semitiche, scrive: “Fra le consonanti predominano quelle gutturali e le palatali, nonché quelle
sibilanti e dentali” (1). Già nei suoni gutturali e palatali si percepisce quale sia la tendenza fonetica delle
lingue semitiche, forse soprattutto in un certo suono gutturale (della laringe), descritto dal Brockelmann
come originato da una ‘forte compressione della laringe’ e la cui imitazione, da parte di genti di lingua nonsemitica
e non-camitica, diviene molto difficile. Per studiare il modo in cui questo suono è originato sono
state prese fotografie ai raggi Röntgen della laringe di un siriano semita (1).
È interessante notare come, al sopraggiungere del meticciato in un popolo di lingua semitica, i suoni
gutturali cambiano o vanno del tutto perduti. Almeno nel caso dell’akkadico (babilonese-assiro) è
indispensabile presupporre un processo del genere per giustificare la pedita di quei suoni. Si è già parlato, al
Cap. III, di quale sia stato l’effetto dell’incrocio orientalide-levantino su quel ramo delle popolazioni
semitofone. Anche Brockelmann (cit., p. 22) attribuisce all’incrocio razziale il fatto che l’akkadico avesse
perduto “tutti i suoni gutturali, perfino le semplici consonanti occlusive” ed anche i “suoni fricativi tonici
palatali”. Viceversa, l’arabo antico (cioè la lingua che dal punto di vista razziologico aveva conservato, con
più esattezza, il “patrimonio fonetico originale” delle lingue proprie della razza orientalide) e in termini
generali anche i dialetti dei beduini (prevalentemente di razza orientalide), sembra sia in grado di conservare
meglio i tratti arabi originari che non i dialetti, pure arabi, parlati dalle popolazioni urbane e contadine nelle
quali c’è un evidente influsso levantino.
Sembra che gli ebrei della Palestina, dal punto di vista della loro fonetica, abbiano seguito le stirpi
confinanti. Così gli efraimiti non riescano a pronunciare correttamente il suono sch ebraico nella parola
schibboleth (”corrente”), ma si tradiscano sempre con il loro sibboleth (2). La pronuncia scorretta
dell’aramaico dei galilei, testimoniata in Marco 14,70 e in Matteo 26,73, era probabilmente dovuta al fatto
che gli influssi levantini e, a quanto sembra, non minori influssi nordici in galilea, avevano determinato in
tendenze fonetiche non-semitiche (3).
Se dovesse effettivamente esserci un’influsso fonetico della razza orientalide nell’ebraicità, soprattutto
evidente nel Mauscheln (nonostante il fatto che il popolo ebraico abbia perso molto del suo contenuto
orientalide originario), questo influsso, presso gli ebrei ortodossi, potrebbe essere attribuito all’esercizio
continuato delle letture in lingua ebraica. Ma bisogna tener presente che la pronuncia dell’ebraico, anche fra
i più accaniti lettori del Talmud, manca dei suoni più caratteristicamente semitici. Ne segue che, quando si
vuole spiegare razziologicamente l’insorgere del Mauscheln, bisogna ricordare anche le tendenze fonetiche
delle lingue caucasiane (alarodiche), cioé quelle che una volta erano proprie della razza levantina, razza ora
preponderante nel misto ebraico.
Anche il bisbigliare (sigmatismo) di tanti ebrei ed ebree, e quindi la loro incapacità di pronunciare
correttamente il suono s delle lingue occidentali, può forse essere visto come un tratto razziale. Lenz lo
considera possibile (1). Ma potrebbe trattarsi facilmente anche di uno di quei tratti ereditari “patologici” che
insorgono all’interno di tutte le razze, e che poi possono accentuarsi attraverso le generazioni. In questo caso
però si sarebbe accentuato in modo relativamente forte.
Non c’è dubbio che il Mauscheln è dovuto non solo a tratti ereditari degli organi fonetici, ma anche a tratti
ereditari psicologici riconducibili alle svariate razze che compongono il misto ebraico. L’effetto dei tratti
ereditari somatici dev’essere identificato nei suoni specifici del parlare; quello dei tratti ereditari animici
invece, nel tono della pronuncia. All’effetto della sovrapposizione di una o più anime razziali diverse si potrà
attribuire il fatto che già la cantilena ebraica antica era contrassegnata da un tono nasale e da un tremolio
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della voce, nonché nel tono con cui certi ebrei ortodossi orientali leggono il Talmud (2).Nel caso del
Mauscheln sembra che la tendenza a cantilenare con voce nasale si sia trasmessa al parlare quotidiano.
Anche fra certe popolazioni o raggruppamenti non-ebraici che hanno spesso rapporti con ebrei, si può
percepire occasionalmente un tono fonetico che ricorda il Mauscheln. Il modo di parlare di alcuni
francofortesi non-ebrei, certe espressioni di alcuni breslaviani non-ebrei, e il tono con cui certi modi di dire
vengono pronunciati a Berlino, tradiscono l’influenza fonetica del Mauscheln.
f) Specificità odorifera
Fishberg (1) dice che il primo a parlare di un odor Judaeos fu il poeta alto-medioevale di lingua latina
Venanzio Fortunato (morto nel 600). Costui assicurava che l’acqua battesimale liberava gli ebrei dal loro
odore caratteristico: “Abluitur Judaeos odor baptismate divo, / et nova progenies reddita surgit aquis, /
vinceos ambrosios suavi spiramine voces, / vertice perfuso chrismatis efflat odor.” (Carmina, V, 5.)
Secondo Fishberg, molti teologi cristiani hanno tentato di diffondere la credenza nel potere disodorante
dell’acqua battesimale, in modo che gli ebrei fossero indotti a farsi battezzare. Questi teologi, inoltre,
avrebbero mantenuto viva la diceria che gli ebrei avevano un odore specifico.
Si è spesso parlato di un “odore ebraico” – foetor Judaicus -, proprio degli ebrei, o comunque di parecchi
fra loro. Questa affermazione è stata poi spesso utilizzata per diffamarli.
Non sono soltanto gli ebrei ad avere un odore specifico; ogni popolo e ogni razza, e anche ogni
particolare misto razziale, ha un suo proprio odore. Di questo ci sono parecchie testimonianze; ma lo
studio scientifico degli odori caratteristici non è stato ancora intrapreso, e il loro riconoscimento può essere
difficile anche per chi abbia un olfatto molto sottile. La maggior parte delle lingue poi sono particolarmente
povere di vocaboli che si riferiscano al senso dell’olfatto.
La caratterizzazione degli odori di popoli e razze, già di per sé difficile, va incontro ad una ulteriore
difficoltà. Ciò che deve o può essere definito come “odore caratteristico” di una popolazione o di una razza,
ha due componenti: 1. quello ereditato, 2. quello acquisito. L’odore ereditato dipende da tratti ereditari
razziali, quello acquisito dipende dagli effetti ambientali nel senso più ampio, e quindi dal luogo geografico,
dall’abitazione, dal vestiario, dal tipo di alimentazione, dall’occupazione, dall’abitudine alla pulizia o alla
sporcizia e via dicendo.
Quando, per esempio, Leon Daudet (1) fa il tentativo di descrivere l’odore delle donne di diverse parti
della Francia, egli si accorge che c’è sempre una sovrapposizione fra l’odore ereditato e quello acquisito.
Anche se queste svariate stirpi francesi spesso risultavano essere misti razziali diversi, che sicuramente
avevano odori caratteristici diversi, in nessun caso si doveva sottovalutare l’effetto dell’odore acquisito
dovuto ad ambiente e occupazione. Henning, nella sua opera (che, sull’argomento, è particolarmente
importante) “Der Geruch [L'odore]” (1924; soprattutto pp. 54, 55, 56 – 58), dà un elenco degli “odori etnici”.
Oltre a Henning, ci sono stati altri autori che hanno preso in considerazione l’odore dell’uomo singolo e il
ruolo sociale del senso olfattivo; fra i quali Andree, nel capitolo “Odori etnici” dei suoi “Ethnographische
Parallelen und Vergleiche [Confronti e paralleli etnografici]” (nuova serie, 1889, p. 213 – 222) ed Ellis, nel
capitolo “L’odore” della sua opera “Die Gattenwahl beim Menschen mit Rücksicht auf Sinnesphysiologie
und allgemeine Biologie [La scelta matrimoniale nell'uomo, con attenzione alla fisiologia sensoriale e alla
biologia generale]“, 1922.
Nei casi menzionati da questi e da altri autori, non è mai chiaro quale sia la proporzione ereditata dell’odore
constatato. In molti casi si tratta quasi esclusivamente di odori acquisiti e quindi facilmente perduti o
cambiati, ma c’è quasi sempre anche una componente erditata che qualche volta è predominante: solo questa
componente deve, a buon diritto, essere detta l’”odore razziale”, mentre la combinazione dell’odore
ereditario e di quello acquisito potrebbe essere detta “odore etnico”.
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Andree (cit., p. 217) afferma che le genti di razza camitica hanno un “odore negroide”; ma ci si può
domandare se gli osservatori hanno fatto veramente una distinzione fra l’”odore razziale” della razza
camitica (etiopica) e quello della razza negroide. Può invece darsi che l’odore acidulo che molte stirpi
camitiche portano addosso, sia nelle persone che negli oggetti di uso corrente, in ragione delle loro attività
di mungitori e di consumatori di latticini, possa averle distinte olfattivamente da quelle stirpi negroidi che
non allevano bestiame ma che praticano la deforestazione a scopo agricolo. Quando dei negri affermano che
le donne occidentali “puzzano di cadavere” (cfr. Daudet, cit., p. 112), essi non percepiscono affatto, o
comunque non tengono per sgradevole il loro proprio odore – che per gli europei invece è spesso
insopportabile. È un fatto di validità generale che la maggior parte degli uomini chiama “puzza” l’odore di
razze, o misti razziali, diversi dal proprio.
In una certa lingua sudamericana esistono parole specifiche per l’odore dei “bianchi”, per quello dei negri e
per quello degli indiani; in Cina i cani riconoscono gli europei, anche se vestiti alla cinese, dall’odore. Capita
spesso che genti di determinate stirpi riconoscano persone o gruppi di persone appartenenti ad altre stirpi
dall’odore, anche quando questi si sono camuffati. Sembrerebbe che il senso dell’olfatto dell’occidentale,
soprattutto se abita in grossi centri urbani, sia molto insensibile; mentre molte popolazioni extraeuropee lo
usano bene come un qualsiasi altro senso. In generale, un popolo o una razza trova sgradevole l’odore di
un’altro popolo o di un’altra razza – esso quindi diventa una “puzza”. Le diverse razze “non possono
annusarsi a vicenda’ – questo detto popolare, che esprime una ripugnaza istintiva, è molto significativo.
Henning dà parecchi esempi di queste casistiche. Sia i singoli che i popoli e le razze non sembra si
accorgano del proprio odore: ne sono saturati, e saturato ne è anche l’ambiente nel quale normalmente si
muovono.
Il giapponese Adachi ha tentato di descrivere l’odore degli europei – cioé: la specificità olfattiva degli
europei – da un punto di vista giapponese (1).Secondo lui l’odore degli europei e, ancora di più, delle
europee, è molto interessante: spesso pungente e rancido, altre volte dolciastro oppure amaro. Per i
giapponesi appena arrivati in Europa esso è molto sgradevole, soprattutto quello delle ascelle; poi si
incomincia, un poco alla volta, ad abituarcisi e alla lunga, soprattutto quando proviene da una donna, può
diventare addirittura eccitante. Gli studi di Adachi hanno rivelato che le ghiandole ascellari degli europei
sono molto più grandi, e qualche volta visibili a occhio nudo, rispetto a quelle dei giapponesi, che non sono
mai visibili se non al microscopio. Adachi afferma pure che i giapponesi, anche se soggetti ad abbondante
sudorazione, non sono mai particolarmente ‘puzzolenti’. Egli ci dà anche la notizia che gli individui
particolarmente ‘puzzolenti’, se maschi sono esclusi dal servizio di leva; se donne, è per loro molto difficile
trovare marito. – Io sono incline invece a pensare che anche i giapponesi siano molto poco sensibili al loro
proprio odore, mentre è probabile che dei non-giapponesi, o comunque dei non-asiatici, si rendano conto
anche di un ‘odore giapponese’.
Adachi non dice niente sulle differenze fra le diverse razze europee; e neppure in che misura gli odori da
lui percepiti fossero dovuti alla semplice sporcizia fisica. Anche quando si prende in considerazione che la
razza nordica ha una maggiore tendenza a mantenere la pulizia corporea, si deve probabilmente presupporre
che, all’interno dei misti razziali presenti in Occidente, la razza nordica è caratterizzata da un odore più
debole. L’uso di profumi, deodoranti, ecc. – che servono ad occultare particolarità olfattive – aumenta fra i
popoli occidentali in proporzione all’incremento della percentuale di individui scuri di pelle, di occhi e
capelli.
L’odore degli umani è determinato dalle emissioni di vapori della pelle, soprattutto nella regione ascellare,
nonché dagli odori originati nei capelli, nelle parti sessuali, ecc. Si possono percepire anche variazioni
nell’odore dello stesso individuo, nel quale ci può essere un odore particolare nel collo, nella nuca, ecc.
Diversi poeti si sono accorti di questo fatto, e lo hanno descritto sottilmente accorgendosi occasionalmente
anche di differenze razziali. Il poeta ebreo Ephraim Mikhaël (1866 – 1890), nella sua poesia “Dimanches
Parisiens [Domeniche parigine]“, descrive così le parigine che incrocia per la strada:
… laissant dans l’air
Une senteur de violettes
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Mourantes, et de blonde chair.
[... lasciando nell'aria
Un profumo di viole
Morenti, e di carne bionda].
In termini generali, Karl Vogt sembra avere colto nel giusto quando afferma che l’odore degli esseri umani
“è loro proprio, come l’odore di muschio al topo muschiato, e dipende dalle emanazioni delle ghiandole
sudorifere” (1).
Ci sono diversi acidi grassi che intervengono nella composizione di questi odori (2), per cui si può
ammettere che le diverse razze umane emettono acidi grassi diversi, o che le proporzioni in cui quei grassi
sono emessi cambiano da razza a razza, e forse anche da individuo a individuo. Un buon inizio per la ricerca
razziologica di questi fenomeni potrebbe essere il testo di Schiefferdecker, “Die Hautdrüsen des Menschen
und der Säugetiere, ihre biologische und rassenanatomische Bedeutung, sowie die muscularis sexualis [Le
ghiandole della pelle umana e dei mammiferi, il loro significato biologico e anatomico-razziale, e il
muscularis sexualis]” (1).
Il Vecchio Testamento riporta, in diversi luoghi, come gli ebrei avessero un acuto senso per le percezioni
olfattive (2). In questo libro, l’avversione che un popolo poteva avere per un altro è raffigurata con immagini
olfattive (per esempio, 1 Mosé 34, 30; 1 Samuele 13, 4): un popolo si è reso “puzzolente” in relazione a un
altro, il che corrisponde anche al modo di dire “non potersi annusare”. Basta leggere il Cantico dei Cantici
per rendersi conto dell’ampiezza delle osservazioni olfattive e dei confronti che gli ebrei facevano
continuamente. C’è un luogo (4, 11) dove l’odore delle vesti della ragazza è ricondotto a quello del vento
nelle montagne del Libano; e questo tradisce la grande attenzione che veniva data agli odori provenienti
dalle persone. Il Talmud (Baba Bathra 16 B) menziona una ragazza dall’odore tanto gradevole che veniva
chiamata col nome di una pianta profumata (3), e prosegue (Berakhoth 43 B) dicendo; “Cos’è che dà
godimento all’anima ma non al corpo? – Rispondi: l’odore”. – In 1 Re 1, 1 – 4 segg. è raccontato come Abisag
di Sunem, una bella vergine, fu messa a giacere vicino al vecchio Davide; con l’idea, riportata da Joseph, che
una ragazza vergine “con il suo alito e le sue esalazioni” potesse ringiovanire un vecchio (4) – una
superstizione, questa, conosciuta come “sunamitismo” proprio in ragione della sua menzione in quei versetti
del Vecchio Testamento e che a Parigi, nel secolo XVIII, diede origine alla pratica professionale delle
’sunamiti’. Secondo il Talmud (Synhedrin 93 B) il messia ebraico arriverà a giudicare gli uomini “profumato
e giudicante” (5). Sempre il Talmud (Baba Bathra 16 B) loda coloro la cui professione consiste nella
preparazione di profumi; e promette (Berakhoth 43 B): “Un giorno i figli di Israele diffonderanno un ottimo
odore” (1).
Il poeta romano Marziale (43 – 104) parla di un odore specifico degli ebrei nei suoi epigrammi (IV 4). Nel
secolo IV, Ammiano Marcellino riferisce che l’imperatore Marco Aurelio (161 – 180), quando attraversò la
Palestina per andare in Egitto, si sentiva spesso disgustato dai modi ineducati e dalla puzza degli ebrei (2).
La terza lettera della parola che Ammiano utilizza per decrivere la “puzza” non è chiaramente leggibile, per
cui in un’edizione anteriore (quella di Cornelissen) non fu riportato fetentium ma ferventium; per cui
Ammiano non avrebbe voluto indicare che gli ebrei erano puzzolenti ma che erano “ardenti” o “cocenti”,
descrivendo in questo modo con due parole diverse il carattere tumultuoso degli ebrei (fervere e tumultuare).
L’ultima edizione di Ammiano (quella di Clark) ritorna a rendere questa problematica parola come
fetentium, data dal Thesaurus linguae latinae (vol. 6, 1912 – 26) sotto la voce “foeteo”. Sembrerebbe quindi
che questa notizia, data dai romani, sulla particolare qualità olfattiva degli ebrei, sia del tutto assicurata (3).
Schudt, nel capitolo XX delle sue Jüdische Merkwürdigkeiten {particolarità ebraiche] (1714), descrive
“La puzza degli ebrei di Francoforte e di altri luoghi” e assicura che gli ebrei lasciano dietro di sè, negli
ambienti che frequentano, un odore particolare. “Alcuni pensano che questo odore sia connaturato agli ebrei
perché perfino i loro bambini ancora piccoli puzzano” (p. 349). Anche le infermiere pediatriche dei nostri
giorni si sono accorte che neonati geneticamente diversi hanno odori specifici, a seconda che i genitori siano
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stati chiari di pelle, di capelli e di occhi, oppure scuri ed essi stessi con la tendenza a divenire scuri; ebrei o
non ebrei.
Ma Schudt non tralascia di indicare anche il problema della sporcizia e, citando il versetto 4 Mosé 11,5,
ricorda come gli ebrei siano ghiotti di aglio, e quindi lascia aperta la questione degli odori ereditati e di
quelli acquisiti. Il dizionario dei Grimm (vol. IV, 2, 1877, p. 2.534) attribuisce al vocabolo “jüdern” del
dialetto franco-henneberghese il significato di “puzzare come un ebreo o puzzare da ebreo”.
Jaeger, nella sua “Entdeckung der Seele [Scoperta dell'anima]“, 1880, p. 141, cita un detto del giurista e
storico ebreo Eduard Gans: “Noi ebrei non perdiamo mai l’odore della nostra razza, anche dopo diecine di
incroci”. E Schopenhauer (1) parla di un „foetor judaicus“. Non c’è dubbio che un determinato odore è
spesso descritto come “odore giudaico” quando è dovuto a sporcizia o all’uso dell’aglio, ma allora si tratta di
un odore acquisito e non ereditato. La sporcizia di tanti ebrei, soprattutto se provenienti dalla Polonia o dalla
Russia, è proverbiale, e ha originato tutta una serie di barzellette che circolano anche fra loro. Quanto al
gusto per l’aglio, con l’odore che ne consegue, è condiviso dagli ebrei anche con tanti italiani e sud-francesi.
L’aglio, menzionato già in 1 Mosé 11,5, è lodato dal Talmud ed è stato ripetutamente raccomandato dai
rabbini. Nell’alto Medioevo era considerato un afrodisiaco in ambienti ebraici (2).
È del tutto chiaro che odori dovuti a sporcizia o all’uso dell’aglio non devono essere classificati come
“tipicamente” ebraici; mentre invece esso è percepibile piuttosto fra gli ebrei benestanti e puliti dell’Europa
centrale e occidentale. L’autore, per esempio, percepì l’odore ebraico tipico in modo molto netto quando, per
diverso tempo, andò a mangiare in una mensa “rituale” frequentata da pochi non-ebrei ma da moltissimi
ebrei i quali, nella stragrande maggioranza, erano impeccabilmente puliti. Anche quando non c’erano ebrei
gli ambienti in questione avevano un odore, subito percepibile, che all’autore sembrò smorto e dolciastro.
l’”odore razziale” degli ebrei, o almeno di molti fra loro, è stato descritto in modo diverso da osservatori
diversi; e ho già notato come le descrizioni dei fenomeni olfattivi siano generalmente inesatte o insufficienti.
La ricerca razziologica – in questo caso la fisilogia razziale – ha fatto recentemente notevoli progressi con lo
studio dei gruppi sanguigni; e si ripropone di risolvere i problemi degli ‘odori razziali” per mezzo di analisi
chimiche. Bisogna studiare la composizione delle emanazioni corporee, soprattutto del sudore; e il risultato
sarà probabilmente che le diverse razze della Terra secernono acidi grassi diversi, oppure li secernono in
proporzioni diverse: sarà allora possibile dare una “formula chimica” per ogni “odore etnico” e per ogni
“odore razziale”. In questo modo si potrà stabilire se l’”odore ebraico” è determinato principalmente dai tratti
ereditari della razza orientalide, di quella levantina o di altre razze.
g) I gruppi sanguigni nel popolo ebraico
Manoiloff ha tentato di evidenziare le differenze che intercorrono tra un gruppo di ebrei e uno di non-ebrei
attraverso lo studio dei gruppi sanguigni. Studiando il sangue di 982 russi e di 380 ebrei egli riuscì, con i
suoi risultati, a distinguere, prima nell’88% dei casi, poi nel 91,7%, il sangue dei russi da quello degli ebrei
(1). I campioni di sangue furono prelevati sempre a persone con almeno tre nonni russi “puri” o ebrei “puri”;
e, ricorrendo a reagenti chimici, riuscì a distinguere il sangue degli uni da quello degli altri. Il metodo usato,
che qui non può essere descritto in dettaglio, rivelò che i due tipi di sangue, rispetto a due coloranti,
reagivano in modo diverso: “Il colore violetto-kressyl scompare completamente o quasi nel sangue ebraico, e
ne risulta un colore azzurro, variabile dal pallido al vivido. Nel sangue russo esso scompare solo
parzialmente, opppure non scompare affatto. Il processo di ossidazione è molto più rapido nel sangue
ebraico che in quello russo, con il risultato che in quest’ultimo si ottiene un colorito rosso-blu o addirittura
rossiccio”. – “Questi risultati ci autorizzano a sostenere che i processi di ossidazione sono più rapidi nel
sangue ebraico che in quello russo” (cit. p. 2.188). Se Manoiloff è riuscito, in questo modo, a distinguere il
sangue ebraico da quello russo, egli ha dunque trovato un modo per distinguere il sangue di un dato misto
razziale da quello di un altro misto razziale, e non per identificare razziologicamente i due tipi di sangue – e
neppure uno che possa essere usato in modo generalizzato per distinguere il sangue di una popolazione da
quello di un’altra, perché con questo scopo ci vorrebbero non uno ma molti procedimenti concomitanti. In
ogni caso, i risultati di Manoiloff non permettono alcuna conclusione sulla composizione razziale sia dei
russi che degli ebrei.
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Ci si può comunque aspettare che le ricerche sui gruppi sanguigni, che negli ultimi anni ha fatto grandi
progressi, possano permettere di distinguere gli ebrei, a partire dalle caratteristiche del sangue, dai misti
razziali occidentali (non ci si dilungherà in questa sede sulle Blutziffern [dati numerici sulla composizione
sanguigna] o “Blutgruppenformeln [formule del gruppo sanguigno]“, designazioni tecniche usate nella
ricerca ematologica). Nella pubblicazione “Zeitschrift für Rassenphysiologie [Rivista di fisiologia
razziale]“, dedicata a questo tipo di ricerche, Wellisch (basandosi però su presupposti ancora non del tutto
verificati) ha tentato di classificare gli ebrei sulla base dei risultati disponibili all’interno dei gruppi
sanguigni conosciuti (1). Egli ha trovato che sia gli ebrei orientali che quelli meridionali (che, per quanto
imparentati, all’”analisi serologica” si dimostrano diversi), dal punto di vista dell’analisi del sangue si
collocano “fra orientalidi e levantini”, una condizione che egli tenta di rappresentare graficamente come
nella Fig. 258.
Wellisch, sulla base delle sue ricerche, arriva alla seguente visione d’insieme per quel che riguarda la
“composizione razziale” degli ebrei:
—————————————————————–
Razze originarie
—————————————————————–
Levantini
Orientalidi semitici
Amoriti ariani (nordici)
Unni (mongoloidi sud-ovest-asiatici)
Negri (egiziani)
—————————————————————–
—————————————————————–
Aschenazi Sefarditi Ebraicità complessiva
50 10 46
22 72 27
12 2 11
14 8 13
2 8 3
—————————————————————–
100 100 100
Nel fare questi calcoli si è presupposto che i sefarditi siano un decimo e gli aschenazi nove decimi della
totalità degli ebrei. Nel misto razziale ebraico, secondo Wellisch, si riscontrebbe (dal punto di vista
dell’analisi serologica) circa l’11% di elemento nordico; il che concorda, grosso modo, con quanto è stato
calcolato più sopra in questo stesso libro. Ma lo stesso Wellisch dice anche, che siccome i suoi risultati sono
ancora relativamente scarsi, ciò che è stato raggiunto “non deve essere visto come definitivo”.
h) Salubrità e patologie
Nella mia “Rassenkunde des deutschen Volkes [Razziologia del popolo tedesco]” ho raccolto le scarse
relazioni che sino ad ora sono state constatate fra le diverse razze europee e le diverse patologie. Qualche
constatazione è stata fatta anche in altri continenti. Questi studi sono generalmente conosciuti come studi di
patologia razziale. Una malattia che può essere molto pericolosa per genti di una certa razza, colpisce gli
individui di un’altra che abitano lo stesso territorio in misura molto più debole. Una razza è più sensibile a
determinate malattie e un’altra ad altre; lo sviluppo di una data malattia è diverso in pazienti di razza diversa,
ecc. Siccome ogni razza è il risultato di un processo di selezione durato per millenni in un determinato
ambiente, questo fatto non ha niente di strano. I processi di selezione rappresentano adattamenti diversi
a determinati ambienti, la conseguenza è che nei cambiamenti ambientali una razza avrà patologie diverse
rispetto a un altra. All’interno di popoli diversi ci si può aspettare l’accumulazione di quelle malattie alle
quali i suoi componenti si sono dimostrati sensibili; fatto determinato, in qualche caso, dal misto razziale
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proprio di ogni specifico popolo. È probabile che certi squilibri nella costituzione fisica e animica, che si
manifestano come sensibiltà per determinate malattie, abbiano la loro origine nelle mescolanze razziali.
Non bisogna MAI dimenticare che ogni incrocio rappresenta LA ROTTURA DI DUE EQUILIBRI:
somatico e animico, raggiunti attraverso lunghissimi processi di selezione che hanno dato origine a
due complessi genetici e fenomenici distinti; quindi, in ogni meticcio, i risultati di due processi di
selezione NATURALMENTE DIVERGENTI vengono messi insieme PER FORZA.
Anche questo va visto come una causa dell’insorgere di certe malattie.
Sembra che già nel Medioevo ci si fosse accorti che la sensibilità a certe malattie era diversa fra ebrei e
non-ebrei. Per esempio si dice, con una certa probabilità di verosimiglianza, che gli ebrei sopravvivevano
alla peste più facilmente che i non-ebrei (1). Nei caso degli ebrei, la loro minore sensibilità per la peste
potrebbe essere stata originata dal fatto che quella malattia, già nel Medio Oriente e nell’Europa orientale,
aveva eliminato gli individui ad essa più sensibili per cui, le stirpi ebraiche sopravvissute, che poi si
trasferirono in Occidente, possedevano ormai i tratti genetici che le rendevano parzialmente immuni. Questa
spiegazione è data solo a mo’ di esempio e non intende essere l’inizio di una discussione sul problema della
peste; ma indica quale può essere l’origine della maggiore o minore sensibilità di popolazioni diverse a
malattie diverse.
La scomparsa dei gruppi meno idonei per circostanze ambientali relativamente difficili, può probabilmente
fornire una spiegazione per quella particolare tenacia nella lotta per la sopravvivenza che caratterizza il
popolo ebraico dei nostri giorni. Secondo diversi studi, i cui risultati Livi (2) riproduce sotto forma di
tabelle, a partire almeno dal secolo XIX la mortalità degli ebrei è diminuita in tutte le fascie di età. Uno
studio americano ha rivelato che di ogni 100 non-ebrei (americani) nati in una determinata data, la metà – 50
- possono aspettarsi di morire entro i seguenti 47 anni; di ogni 100 ebrei ne moriranno la metà enrtro 61
anni. Il conosciuto psichiatra e studioso di razziologia ebreo Lombroso ha constatato che, in Italia, di ogni
1.000 bambini ebrei ne muoiono 21,7 prima di avere compiuto il 7º anno, mentre di ogni 1.000 italiani ne
muoiono 45,7, più del doppio. La migliore condizione economica degli ebrei rispetto ai non-ebrei sembra
avere poco a che vedere con questi fenomeni, mentre è importante la capacità ereditaria di sopravvivenza
propria degli ebrei, a sua volta determinata da selezione. Non a caso l’aspettativa di vita media degli ebrei è
superiore a quella dei non-ebrei anche dove sono più poveri o vivono in abitazioni inadeguate, o dove, come
a Nuova York, passano la maggior parte del loro tempo in bottegucce insalubri. Resta comunque il fatto che
la maggiore aspettativa di vita degli ebrei rispetto alla popolazione circostante è più accentuata fra quelli
abbienti dell’Occidente che non fra i meno abbienti dell’Europa orientale.
C’è chi ha voluto vedere la causa della minore mortalità degli ebrei, nel fatto che avrebbero una maggior
cura dei loro figli. Inoltre, è stato indicato che l’ebreo va dal medico molto più facilmente del non-ebreo.
Morbosamente attaccato alla sua salute è costantemente attento al suo benessere fisico e psichico, al punto
che molti sono permanentemente ossessionati dal terrore di essere malati. Weissenberg parla della nosofilia
e della nosofobia degli ebrei, che alzerebbe la cifra reale dei malati ebrei molto più in alto di quanto essa
non lo sia realmente (1). Anche Lange parla “di un ansia ebraica e di una necessità di essere spesso dal
medico” (2). Ci si è riferiti anche alle leggi molto strette che gli ebrei mosaici osservano sul consumo di
carni e, in generale, sui cibi. Così, per esempio, si è constatato che a Londra un terzo della carne che
raggiunge il mercato viene rifiutata dagli ebrei perché ‘inappropriata’. Tutte queste cose possono anche
essere dei coadiuvanti, come deve esserlo il fatto che gli ebrei, in generale, consumano pochi alcoolici. Ma
bisogna pensare che sono pochissimi gli ebrei che lavorano all’aria aperta – il che evita loro molte malattie
dovute al freddo – e che altrettanto pochi scelgono occupazioni con un alto tasso di incidenti gravi. Finora
anche il suicidio era molto raro, almeno fra gli ebrei dell’Europa orientale.
La tubercolosi e i casi di polmonite e di tifo sono meno frequenti fra gli ebrei che fra i non-ebrei; e sembra
che questo valga anche per la malaria, il vaiolo, la peste e l’epilessia. Invece fra gli ebrei sono più frequenti i
casi di malattie cardiache, cancro, o altre forme tumorali maligne, e diverse malattie metaboliche come il
diabete; nonché certi disturbi psichici come la paralisi progressiva (3) e la pazzia maniaco-depressiva (1),
che fra gli ebrei si manifesta con un particolare “tratto ‘raziocinante’ del tutto particolare (Quängeln)” (2). Lo
sviluppo clinico della paralisi è generalmente diverso fra gli ebrei che fra i non-ebrei. Frequente fra gli ebrei
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è l’idiozia congenita, l’isteria e la dementia precox: “la forma più frequente di malattia mentale fra gli ebrei”
(Sichel). La sindrome clinica della cosiddetta idiozia familiare amaurotica è quasi esclusiva degli ebrei.
Cohn trova che fra loro è particolarmente frequente lo spasmo torsionale (movimenti spasmodici della testa
all’indietro) e lo zoppicare intermittente (3). Pilcz afferma che “Tutte le condizioni psicopatiche di origine
ereditaria-degenerativa, soprattutto la demenza periodica e il complesso di inferiorità neuropsicopatico,
nonché l’isteria, sono particolarmente frequenti fra gli ebrei. Questo vale anche per quelle psicosi atipiche
che evitano ogni diagnostica e prognosi” (4). Nel campo dei disturbi psichiatrici gli ebrei superano di
gran lunga i non-ebrei.
Gallus ha trovato che fra gli ebrei c’è una grande frequenza di difettti rifrattivi dell’occhio – quasi l’80% di
tutti i casi da lui incontrati – e questo lo attribuisce a “degenerazione endogena” (5). Sia anche menzionato
che nell’ebraicità si trova un’alta proporzione di ciechi e sordomuti.
Fra gli ebrei è relativamente frequente una sindrome degenerativa conosciuta come “appiattimento
sessuale”, che si manifesta con un certo grado di confusione dei caratteri sessuali fisici e psichici. La
tendenza all’ermafroditismo, fra gli uomini e fra le donne, è particolarmente frequente. Il dimorfismo
sessuale sembra essere poco accentuato; e questo, forse, è un tratto dovuto alla componente levantina nel
composto razziale ebraico.
Stigler ha parlato di questo fenomeno in una sua conferenza, “Die rassenphysiologische Bedeutung der
sekundären Geschlechtscharaktere [Il significato che i caratteri sessuali secondari hanno per la fisiologia
razziale]” (6), nella quale ha detto: “Secondo me, la particolare frequenza con cui fra gli ebrei si manifesta
l’appiattimento sessuale, è un fenomeno che merita attenzione. Questo diventa particolarmente ovvio quando
si studiano, per mezzo dei più sottili reagenti, l’influsso delle secrezioni ghiandolari interne sui caratteri
sessuali somatici. Le caratteristiche sessuali fisiche in loro sono spesso confuse. Molto frequenti sono le
donne con il bacino relativamente stretto e le spalle relativamente larghe, e gli uomini con il bacino largo e
la spalle strette. Il docente dott. Thaler mi ha indicato come l’irsutismo (’maschilità’) accompagna spesso,
nelle ebree, problemi nelle mestruazione e malformazioni del bacino. Il prof. Pilcz ha potuto confermare, in
base alla sua esperienza, la relativa frequenza dell’omosessualità fra gli ebrei. Ma molto tipico è il
comportamento somatico. Fra le ebree è molto frequente una femminilità fisica indefinita accompagnata da
caratteri psicologici poco femminili, soprattutto dalla regressione di istinti specificamente femminili, come
la passività, e dalla soppressione di certi impulsi psicomotori tipicamente femminili (per esempio la
timidezza nel presentarsi in pubblico), il che spiega la preponderanza di donne ebree nei movimenti
sovversivi. Un importante indicatore è il fatto che gli ebrei tendono sempre a voler cancellare le differenze
fra i sessi nella vita professionale e sociale ignorando l’importanza dei caratteri sessuali secondari, che
invece, fra la gente normale, sono istintivamente conservati ed enfatizzati. Nei maschi ebrei si dà
spessissimo il caso che le caratteristiche psicologiche sessuali siano indefinite, con la conseguenza che gli
uomini normali, anche quando sono meno intelligenti, hanno un istinto più sicuro. Si dà addirittura il caso
che le donne ‘mascoline’ siano spesso viste come attraenti fra gli ebrei. Questo potrebbe costituire il
passaggio verso un’infantilismo molto frequente. I movimenti femministi trovano una vasta risonanza nei
circoli intellettuali ebraici. Ad una frequente ipersensibilità dolente negli uomini, nelle donne si
contrappongono spesso caratteristiche poco femminili, come una smodata tendenza ad eccellere nella vita
pubblica. Qui si tratta, probabilmente, di una soppressione generalizzata dei processi istintivi subcoscienti
nella corteccia cerebrale e nei centri subcorticali in favore dei processi puramente “intellettuali” della stessa
corteccia. C’è una vastissima e convincente evidenza di come fra gli ebrei ci sia un’importante confusione
nei caratteri sessuali secondari”.
In alcune delle manifestazioni patologiche degli ebrei negli ultimi tempi si è notato un cambiamento.
L’alcoolismo e le sue conseguenze cominciano a farsi notare anche fra loro: “Mentre nel passato (fino a
pochi decenni fa) l’alcoolismo era praticamente assente fra gli ebrei, ci sono sempre più indizi del fatto che il
devastante veleno alcoolico si è insinuato ormai anche nelle famiglie ebraiche” (1). Interessante il fatto che
sia l’alcoolismo che la sifilide sono poco frequenti fra gli ebrei dell’Europa orientale, mentre sono in
aumento fra gli ebrei che abitano in Occidente e fra quelli che escono dallo stretto isolamento in cui
vivevano in Europa orientale. Quindi, “la partecipazione al progresso culturale è andata insieme a non pochi
96
pericoli anche per la razza ebraica” (2). Sembra sia un fatto che, dal tempo della cosiddetta emancipazione
degli ebrei, ci sia stato un aumento nei casi di suicidio, paralisi e castighi penali, delle criminalità, della
mortalità e dei matrimoni misti (3). In Germania, il tasso dei suicidi fra gli ebrei è aumentato
considerevolmente, mentre è molto basso fra quelli mosaico-ortodossi dell’Europa orientale.
Ullmann ha dato una visione d’insieme completa della condizione sanitaria degli ebrei in Europa nel suo
lavoro “Zur Frage der Vitalitàt und der Morbidität der jüdischen Bevölkerung [Sul problema della vitalità e
della morbidità della popolazione ebraica]” (4). Egli, nella medesima pubblicazione, ha enfatizzato quelle
circostanze ambientali, economiche e professionali, che hanno potuto influenzare le fenomenologie
patologiche fra gli ebrei, e non soltanto sulla loro qualità razziale. Già la distribuzione delle età nella
popolazione ebraica favorisce l’insorgere di determinate fenomenologie patologiche piuttosto che di altre, e
queste fenomenologie sono diverse da quelle che si trovano fra i non-ebrei. Inoltre, un’influenza è dovuta
alla diversa distribuzione delle occupazioni fra ebrei e non ebrei, indicata da Ullmann con la tabella
seguente, tratta dalla statistica occupazionale derivata dal censimento del 1907 in Germania:
—————————————————————–
Agricoltura
Industria e attività professionali
Commercio e movimento di merci
Impiegati o liberi professionisti
Pensionati (autonomi che non lavorano)
Addetti a servizi domestici
—————————————————————–
% di persone attive
—————————————————————–
Ebrei Non-ebrei
1,0 28,9
22,6 42,9
55,2 13,4
6,6 5,5
14,2 8,4
0,3 1,3
Questo dà una impressione in parte inesatta, in quanto nelle cifre ufficiali sono classificati come ebrei
solo quegli ebrei che sono di religione mosaica, mentre gli ebrei di altra religione sono visti come non-ebrei
(”cristiani”). Ciò vale anche per il seguente quadro, riportato da Ullmann, nel quale viene indicata la
percentuale degli ebrei dell’Europa centrale e occidentale fra le classi benestanti:
—————————————————————–
Industria
Ebrei
Non-ebrei
Distribuzione e attività professionali
Ebrei
Non-ebrei
Commercio
Ebrei
Non-ebrei
(Il resto, fino ad arrivare al 100%, appartenevano a una posizione intermedia, come impiegati.)
—————————————————————–
In posizioni dirigenziali Lavoratori o aiutanti
46 31,5
16,2 77,1
58,8 24,5
97
39 39,9
40,3 28,0
8,6 74,8
Ullmann continua mettendo insieme dati che, sulla base delle statistiche ufficiali, dimostrano
generalmente come gli ebrei di fede mosaica abbiano un livello economico superiore alla media. Quale sia il
contributo genetico e quale quello ambientale alla situazione sanitaria degli ebrei, può essere determinato
più agevolmente facendo il confronto fra ebrei (ebrei geneticamente, e non quali appartenenti alla religione
mosaica) e non-ebrei di condizione economica il più simile possibile. Ullmann pensa, per esempio, che l’alta
posizione professionale di diversi ebrei sia un fattore contributivo importante per quell’alta percentuale di
diabetici che ci sono fra loro, in quanto “perdite finanziarie importanti, emozioni forti improvvise, ansietà,
interruzioni di ogni tipo, ecc., hanno certamente un influsso sull’insorgere e sulla gravità della sindrome
diabetica” (cit. p. 38). Anche l’alta incidenza dei suicidi viene spiegata in base alle stesse cause.
Il fatto che la donna di casa ebrea raramente abbia un’attività professionale ha un suo influsso sulla bassa
mortalità infantile. Gli ebrei generalmente seguono alla lettera i consigli dei medici, e questo contribuirebbe
ad impedire lo sviluppo di molte malattie appena incipienti, mentre il minor consumo di alcool
contribuirebbe a innalzare l’età media e a diminuire l’incidenza stessa di diverse fenomenologie patologiche.
Così Ullmann conclude che i fenomeni patologici fra gli ebrei dipendono più da “cause sociali, economiche,
igieniche e psicologiche” che da fattori razziali. Se studi più approfonditi dovessero confermare le
conclusioni di Ullmann, rimarrebbe comunque il fatto che la particolare composizione razziale degli ebrei
continuerebbe ad essere il fattore determinante delle loro specifiche patologie, in quanto è da essa che
dipende la loro posizione economica, sociale e psicologica.
Se invece nuovi studi dovessero rivelare che, contrariamente all’opinione di Ullmann, la composizione
razziale degli ebrei è un fattore diretto e non intermedio nella loro situazione medica, il problema non
sarebbe ancora risolto. Ci si potrebbe chiedere se questa situazione medica può essere spiegata sulla base dei
tratti ereditari delle razze presenti nel misto ebraico, nel qual caso si dovrebbe riscontrarne una situazione
simile presso tutte le popolazioni medio-orientali con una composizione razziale analoga. Oppure, se la
condizione medica degli ebrei non sia dovuta tanto ai tratti ereditari delle razze componenti, quanto piuttosto
agli sviluppi selettivi specifici che il misto razziale ebraico ha storicamente subito. Ma in questa casistica le
circostanze sono talmente complicate che non deve sorprendere se le ricerche al riguardo non hanno ancora
oltrepassato la constatazione dell’esistenza di differenze obiettive fra le patologie degli ebrei e dei non-ebrei,
senza poterne dare una spiegazione nè biologica nè storica.
i) Criminalità
Il tipo di criminalità predominante fra gli ebrei non è mai la stessa che predomina fra la popolazione
ospitante, ed è riconducibile al misto razziale diverso degli uni e delle altre, con le sue particolari
caratteristiche psicologiche. Questa differenza sarà analizzata essenzialmente per quel che riguarda la
criminalità degli ebrei stanziali in Germania.
Quando si considerano i fatti criminali più frequenti fra gli ebrei, si deve ricordare che le statistiche
ufficiali classificano come ebrei soltanto quelli che sono di fede mosaica, e in Germania gli ebrei di fede
mosaica sono solo una parte dell’ebraicità, per cui tutta una serie di atti criminali eseguiti da ebrei vengono
segnalati negli atti ufficiali come imputabili a cristiani, o ad aderenti a qualche altra religione non-mosaica.
E’ evidente che il numero ufficiale degli aderenti alla religione mosaica ha un valore molto limitato per quel
che riguarda l’etnologia e la razziologia.
Una percentuale relativamente alta della condanne per diffamazione ricadono su ebrei (di fede mosaica); e
Aschaffenburg atribuisce questo alla “loro natura infiammabile, che si manifesta con gesticolazioni,
logorrea, urla e facile eccitabilità” (1). Gli ebrei commettono in molto minor misura quel tipo di infrazioni
relazionate con l’ubriachezza o con il sentimento della propria forza fisica, come, per esempio, risse o lesioni
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corporali; ma ormai c’è una certa tendenza all’aumento di questo tipo di infrazioni come conseguenza,
secondo Sichel, del loro “adattamento all’abitudine ormai generalizzata dell’uso degli alcoolici” (2).
Viceversa, gli ebrei hanno una maggiore partecipazione a tutte quelle attività criminali truffaldine legate con
le attività professionali, con il commercio e la manipolazione di denaro. “Gli ebrei, che sono generalmente
attivi nell’industria e nel commercio, dimostrano livelli di criminalità superiori a quelli dei cristiani nel
campo delle azioni delittuose possibili soprattutto in quei campi: la truffa (in minor misura il furto diretto), il
ricatto, la falsificazione di informazioni, bancarotta semplice e fraudolenta, usura e inosservanza dei
regolamenti aziendali” (3).
Per quel che riguarda i furti, la criminalità ebraica è inferiore a quella dei “cristiani”, nel campo della
ricettazione, uguale, in quella dello spergiuro, superiore. In Austria, gli ebrei incorrevano più spesso in
condanne per furto, assassinio e incendio; in Russia, come in Olanda, gli ebrei avevano una percentuale
molto più alta di crimini contro il buon costume che la popolazione non-ebraica. Anche in Germania la loro
presenza è considerevole fra i lenoni e i ruffiani, essi detengono oltre la metà della distribuzione di
pubblicazioni pornografiche e la loro partecipazione è parimenti alta nel campo degli aborti e delle molestie
sessuali. Viceversa, almeno in Germania, la loro partecipazione è scarsa in certi tipi di crimini contro il buon
costume, come lo stupro, le molestie ai bambini e le attività sessuali contro natura. L’incesto e l’infanticidio
sembrano essere rari fra gli ebrei. Le statistiche criminali olandesi e tedesche indicano che la diffusione di
letteratura pornografica è un’attività essenzialmente ebraica, come quasi esclusivamente ebraico è lo
sfruttamento delle prostitute. Wulffen afferma che “Quasi tutti i trafficanti di ragazze per la prostituzione
sono ebrei della Polonia e della Galizia, in contatto fra loro” (4). In una pubblicazione ebraica, The Jewish
Chronicle [La cronaca ebraica] del 2 aprile 1910, sta scritto che “Se gli ebrei potessero essere espulsi dalla
società, il traffico delle ragazze per la prostituzione scomparirebbe quasi interamente e si ridurrebbe
ad una misura insignificante”.
Che ci siano certe correlazioni fra l’ebraicità e l’associazionismo criminale, è suggerito anche da tutta una
serie di parole ebraiche che si sono infiltrate nel cosiddetto Rotwelsch, il gergo criminale. Secondo Hirt (1),
questo gergo contiene “una sequenza di espressioni specifiche, delle quali molte provengono dall’ebraico,
cioé, è chiaro, dalla lingua parlata dagli ebrei in Germania. Questo è illuminante su quale sia stata la
provenienza degli asociali, o con quali cerchie essi siano stati collegati”. È già stato indicato come gli ebrei
dimostrino una grande “abilità nell’ignorare le leggi e a non lasciarsi raggiungere dalle sanzioni penali” (2).
È probabile che le grandi disponibilità finanziarie dei tanti e grandi capitalisti ebrei siano utilizzate anche
per tentare di deviare le ricerche dei funzionari della polizia. Il processo Sternberg, che ai suoi tempi fu
tanto celebre, gettò una luce molto chiara sulla potenza di quei capitali. (Si trattò di un processo contro un
grande banchiere berlinese, accusato di ripetute molestie sessuali su bambini.) Ad un’agenzia privata di
investigazioni furono promessi 50.000 marchi se l’accusato poteva essere ‘dimostrato’ innocente, dei quali
12.000 erano già stati pagati. Un funzionario fu corrotto; il direttore della polizia, che doveva denaro
all’accusato, fu convinto a intercedere perché si sospendesse il processo; dei testimoni furono pagati per
ritirare le loro testimonianze; degli impiegati di aziende che dipendevano da Sternberg furono messi a
raccogliere firme per una petizione di grazia in suo favore, ecc. E’ lo scenario tipico per una certa qualità del
crimine ebraico. Il giudizio del criminologo Wulffen è che “Non solo il modo in cui l’atto criminoso contro i
“buoni costumi” fu portato a termine dimostra la caratteristica tipicamente ebraica di voler danneggiare i
cristiani; ma tipicamente ebraico fu il modo in cui Sternberg e la sua cerchia, per difendersi, misero in
azione il capitale contro l’ordine costituito” (3).
Il criminale ebreo sembra essere molto più sottile e calcolatore di quello non-ebreo, che invece tende ad
essere più rozzo e violento e meno portato alla premeditazione. I tipi di azione criminosa, i modi in cui essa
viene condotta a termine, e l’atteggiamento adottato davanti alle investigazioni poliziesche, sono diversi a
seconda della diversa composizione razziale del criminale. Su questo non ci sono dubbi, anche se, come è
già stato indicato, non esistono statistiche univoche che si riferiscano agli ebrei, in quanto, come ebrei, sono
classificati non tutti coloro che geneticamente lo sono, ma soltanto quelli di fede mosaica.
Uno studio criminologico serio della criminalità specificamente ebraica (già richiesto in diverse occasioni)
dovrebbe essere fatto confrontando criminali ebrei e non-ebrei all’interno di un medesimo reato; in quanto,
99
siccome gli ebrei sono molto più numerosi in certi crimini , è naturale che essi lo possano essere anche nel
modo più agevole. Una classificazione degli ebrei a seconda della loro attività, consentirebbe di assegnare
ad ogni categoria specifica il numero di eventi criminosi ad essi imputabili; e questo numero specifico
dovrebbe essere aumentato per includere non solo gli ebrei di fede mosaica, ma ovviamente anche quelli
nominalmente di un altra religione. Una ricerca fatta sul tasso di criminalità ebraico a seconda dell’attività,
rivelò che gli ebrei sono molto più inclini allo spergiuro e alla truffa dei non-ebrei della stessa professione, e
sostanzialmente più orientati verso l’usura (1).
Segall, in un suo riassunto – “Die kriminalität der Juden in Deutschland” (2) – basandosi sulle notizie
ufficiali per gli anni 1915 e 1916, tenta di dare una spiegazione delle particolarità delle infrazioni penali
delle quali i colpevoli furono ebrei: 1. La condizione economica mediamente migliore degli ebrei,
diminuisce la tendenza per certi tipi di infrazioni, come il furto e la rapina. 2. l’educazione media più alta
degli ebrei diminuisce la tendenza alle azioni criminali violente (assassinio, omicidio, crimini contro la
sicurezza pubblica, intrusioni domestica, stupro, ecc.). 3. la struttura sociale diversa degli ebrei e dei nonebrei,
la maggiore presenza ebraica nel commercio, nell’industria e, in particolare, in certi tipi di commercio
come quello del bestiame, la lotteria, la manipolazione del denaro e del credito, ecc.; la loro forte
partecipazione alla pubblicistica e all’editoria, ecc., contribuiscono a che l’attività criminale ebraica sia più
accentuata nei campi delle infrazioni contro le leggi sui fallimenti, sui regolamenti dei mestieri, sul riposo
domenicale e sull’usura. 4. in quanto abitanti di grandi città, gli ebrei hanno una maggiore partecipazione
alle infrazioni contro i buoni costumi e contro la diffamazione; e ad aggravare questa ultima casistica,
contribuiscono anche gli attriti causati dall’antisemitismo dei non-ebrei.
A diminuire la criminalità ebraica contribuiscono, oltre al senso pratico e al forte senso della famiglia,
nonché “la castità delle ebree nubili” (Wulffen) – anche se questo è messo in dubbio da Theilhaber. Per
esempio, in Prussia, nel 1905, il tasso di nascite illegittime fra gli ebrei fu del 3,74%, fra i non-ebrei il
7,45%. A favore dell’ebreo sta anche il suo senso del risparmio e una certa diligenza nell’incrementare la sua
educazione. Contro di lui sta “lo spirito commerciale degli ebrei” (Wulffen) e, in generale, la sua estraneità
razziale ad un ambiente straniero con valori morali diversi dai suoi.
k) Alcune notizie sulle opinioni che nel secolo XIX valevano e
che adesso non valgono sulla specificità razziale degli ebrei
C’è stata una lunghissima disputa sulla natura razziale dell’ebraicità, disputa che approssimativamente si è
conclusa solo negli ultimi anni. Molto spesso si è fatta confusione fra i concetti di “razza” e di “popolo”,
oppure questi concetti non sono stati capiti e neppure percepiti. Molto spesso, quando si parlava di ebrei, il
fatto razziale veniva ignorato ed essi erano considerati come se fossero razzialmente indistinguibili dai
popoli occidentali. Solo dopo interminabili discussioni ci si accorse che non avevano ragione nè quelli che
dicevano che gli ebrei sono una “razza”, né quelli che negavano loro ogni specificità razziale. In seguito si
darà un riassunto dello sviluppo delle idee più interessanti sulla natura razziale degli ebrei:
Il problema della loro storia e composizione razziale fu discusso vivacemente durante tutto il secolo XIX e
in modo particolare alla svolta dei secoli XIX e XX; ma i risultati soddisfacenti sono arrivati solo negli
ultimissimi tempi. Nelle cerchie extrascientifiche, gli ebrei sono sempre dei “semiti”; nel senso che sono una
razza o che appartengono alla razza propria delle popolazioni del Medio Oriente. Usando come riferimento
le lingue parlate dai loro antenati, l’ebraico e l’aramaico, l’etnologia li aveva collocati fra i “semiti” – così, per
esempio, fece Peschel, nella sua “Völkerkunde [Etnologia]“, ancora nel 1897. In qusto senso, ma solo nel
senso che essi appartennero nel passato all’ecumene dei popoli di lingua semitica, li si può ancora,
significativamente, classificare etnologicamente come semiti. Ma non bisogna trasmettere al non-specialista
l’idea che ci sia una “razza semita”. Per la razziologia, e per la classificazione del genere umano in gruppi
ereditariamente uguali, il termine “semita” non è utilizzabile. Il termine “antisemitismo” è risultato solo
dalla classificazione etnologico-linguistica, e non dalla ricerca razziologica. Questo termine significa
qualcosa come “inimicizia verso gli ebrei”, ed è stato scelto male anche come descrittivo di sentimenti
popolari, perché viene utilizzato per indicare l’inimicizia verso gli ebrei da parte degli arabi e di altre
popolazioni di lingua semitica. Sembra che il primo a utilizzare il vocabolo “antisemitismo” pubblicamente
100
sia stato Wilhelm Marr. Egli era nemico dell’ebraicità, e fu il fondatore, nel 1880, di una “Antisemitenliga
[Lega degli antisemiti]” (1).
L’uso dell’aggettivo popolare “semitico” nelle ricerche razziologiche dirette al popolo ebraico ha reso più
difficile, fino ai nostri giorni, il riconoscimento della sua vera composizione razziale. Sembra che Ilkow sia
stato il primo a rendersi conto che gli ebrei erano un misto razziale e non una razza, come invece era
opinione corrente dei suoi contemporanei, opinione che continua ancora fra i non-specialisti. In questo misto
egli distingueva fra “non-semiti brachicefali” e “semiti dolicocefali”, questi ultimi frequenti soprattutto fra
gli ebrei delle terre del Mediterraneo, mentre i primi lo erano soprattutto fra quelli della Russia (2). Quindi
Ilkow deve essersi già allora accorto che fra gli ebrei meridionali predominava la razza orientalide e fra
quelli orientali quella levantina. Fu von Luschan, grande conoscitore delle popolazioni medio-orientali, a
riconoscere nel popolo ebraico un plurimo misto razziale. Egli pubblicò uno studio, nel 1892, nel quale
descrisse il misto razziale ebraico come composto principalmente da amoriti “ariani” (nordici), da “semiti
puri” (secondo la sua terminologia: orientalidi) e, in massima misura, da “ittiti” (secondo la sua
terminologia: levantini) (1). Più avanti von Luschan lasciò cadere il suo originale presupposto, cioè quello
che ci fosse negli ebrei una componente nordica – ma commise un errore, cfr. i capp. II e V di questo libro.
Difficile è determinare se l’influsso nordico nel popolo ebraico sia dovuto soprattutto agli amoriti o ad altre
popolazioni medio-orientali con classe dirigente nordica. In ogni caso, von Luschan aveva giustamente
riconosciuto che i “semiti puri” – cioé le genti di razza prevalentemente orientalide – erano già minoranza
quando gli ebrei erano diventati completamente sedentari in Palestina, mentre gli “ittiti” – cioé le genti di
razza prevalentemente levantina – erano diventati la maggioranza. Questi “ittiti”, visti come gruppo
ereditariamente costante, vennero da lui chiamati, posteriormente, razza “armenoide” (2), in quanto constatò
che quel tipo era rappresentato più comunemente nel popolo armeno. Nel suo studio del 1900 “The Races of
Man [Le razze umane]“, Deniker distinse, come Ilkow, due filoni diversi nel popolo ebraico, “uno che si
avvicina alla razza araba, l’altro a quella assiroide” (p. 424) – cioé, in termini moderna: uno di razza
orientalide e l’altro di razza levantina. Dopo la diaspora, questi due gruppi si sarebbero mescolati con genti
di altre razze e sottorazze. Sembra che Deniker non si sia accorto che già nella Palestina arcaica gli ebrei
avevano acquisito una componente razziale nordica, ma presume che essa sia arrivata attraverso incroci
successivi.
Le prime misure antropometriche su gruppi ebraici, portate a termine con criteri moderni, furono
intraprese da Wagenseil su “spagnoli” e altri ebrei della Turchia. Usando i risultati di Wagenseil,
Hauschildt, nel 1920/21, arrivò alla conclusione che il “tipo ebraico” doveva essere visto come un “tipo
misto”, intermedio fra quello “ittita”/levantino, nella sua terminologia, e quello “orientalide” (la razza
orientalide, descritta nel cap. II di questo libro). Nel contempo, Hauschildt classificava gli ebrei nel contesto
etnologico e geografico dei popoli medio-orientali, ad essi analoghi in composizione razziale; il che facilitò
molto gli studi successivi (3). Nel 1922 Wagenseil pubblicò il suo testo: “Beiträge zur physichen
Anthropologie der Juden und zur jüdischen Rassenfrage [Contributi all'antropologia fisica degli ebrei e sul
problema razziale ebraico]” (1), dopo di che le designazioni di razza “levantina” e “orientalide” divennero di
uso generale. In questa pubblicazione io propongo invece un composto razziale ebraico non dissimile da
quello già proposto da Baur-Fischer-Lenz (Menschliche Erblichkeitslehre und Rassenhygiene [Teoria
dell'ereditarietà umana e igiene razziale], 1a. edizione, 1921), che nelle sue linee generali ho ritenuto valido
già nella mia “Rassenkunde des jüdischen Volkes [Razziologia del popolo ebraico] posta in appendice alla
prima edizione della “Rassenkunde des deutschen Volkes [Razziologia del popolo tedesco]” (1922) – dalla
quale, come già detto, è derivato poi questo stesso libro. Il volume “Anthropologie [Antropologia]“, parte
III, sezione V dell’opera enciclopedica “Kultur der Gegenwart [Cultura del presente]” (1923), nel contributo
scritto da Fischer sull’insieme delle razze della Terra, si propone la stessa idea della composizione razziale
degli ebrei data in Baur-Fischer-Lenz. La designazione di “razza orientalide” è dovuta a Eugen Fischer,
subito accettata da Mollison (2), mentre quella di “razza levantina” fu utilizzata, sembra, per la prima volta
da R. Pöch. Questi vocaboli hanno sostituito quelli di “semitico” e “armenoide” usati da von Luschan.
Wagenseil e Fischer avevano quindi dato una spiegazione razziologica della differenza fra i sefarditi
(prevalentemente orientalidi) e gli aschenazi (prevalentemente levantini), già riconosciuta, ai tempi suoi
(1884), da Ilkow. Si può quindi affermare che i tratti razziologici fondamentali dell’ebraicità sono stati
101
riconosciuti in modo definitivo verso il 1920/21; e così si è messo anche il punto finale a tutta una serie di
discussioni sterili, di tipo sia scientifico che extrascientifico, trascinate per tanto tempo. Ma sia i nazionalisti
ebraici che i nemici degli ebrei (gli “antisemiti”), asserirono appassionatamente che gli ebrei erano una vera
“razza”; e questa affermazione fu in modo altrettanto appassionato, osteggiata sia dagli ebrei liberali
(’assimilazionisti’) che da non pochi non-ebrei, i quali negavano l’esistenza di una “caratteristica razziale
ebraica”. Ma quando invece si vede negli ebrei uno specifico misto razziale, bisogna anche ammettere che,
sebbene non siano una “razza”, essi sono comunque portatori di non pochi caratteri razziali i quali,
anche se non sono esclusivamente loro, e quindi non possono essere classificati propriamente come
“ebraici”, li indicano inequivocabilmente come un popolo di origini razziali extraeuropee.
l) Qualche notizia sulle fenomenologie genetiche di
ebrei e meticci di ebrei
Nel contempo, si è potuto appurare che gli ebrei, in conseguenza di processi di selezione e meticciato,
hanno conservato ben poco di quella razza che originariamente era la loro e alla quale dovettero la loro
originaria specificità semitica linguistica e psicologica: quella orientalide. Si è anche potuto appurare che la
maggior parte degli ebrei si collocano razzialmente vicino alla maggior parte degli armeni. Questo era già
stato dichiarato da Sofer, che partendo dalle analogie razziali fra questi due popoli, affermava che “la grande
similitudine fra loro non ha a che vedere con fatti contingenti (persecuzioni, emigrazioni, ecc.), ma è
certamente dovuta a fattori razziali” (1) – in altre parole, dovuta alle caratteristiche animiche ereditarie
della razza levantina, predominante in ambedue questi popoli.
Prima che le cosiddette leggi di Mendel (cfr. cap. VII) fossero riscoperte, e che, di conseguenza, ci fosse il
grande sviluppo della scienza dell’ereditarietà e della selezione, alcuni tratti animici e somatici del popolo
ebraico erano attribuiti, in senso lamarckiano, all’”influenza dell’ambiente” (storia, modo di vivere,
pregiudizi, ecc.) e quindi considerati modificabili. Tutta una serie di tratti psicologici e fisici riscontrabili fra
gli ebrei furono ripetutamente attribuiti, lamarckianamente, all’ambiente, e dichiarati “ereditabili” in poche
generazioni – per esempio, le conseguenze della vita nel ghetto, le persecuzioni, l’odio per gli ebrei da parte
dei non-ebrei, ecc. – Ma da allora i principali studiosi della teoria dell’ereitarietà si sono dichiarati
contro l’”ereditarietà dei caratteri acquisiti”, cioé contro il lamarckismo, e a favore del darwinismo: lo
sviluppo degli esseri viventi attraverso la “selezione naturale”. Questo ha, viceversa, indicato che certi
fenomeni storici, tipo il Talmud, il ghetto, l’inimicizia verso gli ebrei – e anche caratteri fisici degli ebrei,
come le forme del cranio o del naso, il colore degli occhi, ecc. devono essere spiegati come caratteristiche
ereditarie, a loro volta conseguenza di determinati processi di selezione.
Il primo che tentò di applicare le leggi di Mendel ai meticci fra ebreo e non-ebreo e ai loro discendenti fu
il ricercatore ebreo Salaman. Con l’aiuto di alcuni assistenti, tutti ebrei, egli fece uno studio sui genitori e la
discendenza di 136 matrimoni misti fra ebrei e inglesi e fra ebrei e mezzi ebrei (metà ebrei e metà inglesi). I
suoi risultati sono utilizzabili, dal punto di vista della scienza dell’ereditarietà e della razziologia, tenendo
però sempre presente che Salaman vede negli ebrei e negli inglesi due “razze”, mentre in realtà gli uni e gli
altri non sono che misti razziali. Perciò un matrimonio misto ebraico-inglese non rappresenta un semplice
caso di incrocio di due razze, tale da essere studiato secondo le leggi di Mendel, ma un processo molto più
complesso di meticciato. I risultati numerici ottenuti da Salaman hanno, di conseguenza, un valore molto
relativo. Sono invece importanti le constatazioni sull’indubitabile ereditarietà di certi tratti “tipicamente
ebraici”. I risultati di Salaman sono del tutto analoghi a quelli ottenuti da Eugen Fischer nei suoi studi sui
bastards di Rehoboth (cfr. cap. VII).
Salaman e i suoi collaboratori trovarono che solo una minoranza dei figli dei matrimoni misti da loro
studiati avevano un “aspetto ebraico” – anche se il cosa fosse un “aspetto ebraico” non era il risultato di
un’analisi razziologica esauriente. La proporzione dei bambini “dall’aspetto ebraico” in relazione a quelli
“dall’espetto non-ebraico” risultò essere di 1 : 13 – un risultato che, contrariamente a quanto poteva essere
congetturato, indica che il marito/moglie ebreo nei matrimoni misti studiati da Salaman doveva essere
portatore di importanti influssi razziali europei, perciò non doveva avere un aspetto di “ebreo puro”: e le
102
fotografie pubblicate da Salaman confermano questo presupposto (1). Secondo lui (p. 288) il viso “nordeuropeo”,
in questi casi, si sarebbe dimostrato più forte (dominante) rispetto a quello “ebraico”. Sarebbe
stato interessante vedere se la stessa proporzione di 1 a 13 poteva essere mantenuta dopo aver seguito i figli
di questi matrimoni misti fino alla loro maturità. Infatti sembra che i tratti “ebraici” si siano sviluppati del
tutto dopo la maturità. Le ragazze dall’aspetto “non-ebraico” avrebbero potuto “ebraizzarsi” molto in fretta
fra i 16 e i 20 anni, i maschi ebrei o mezzi-ebrei fra i 18 e i 25 anni.
Salaman trovò che, in 9 matrimoni misti di ebrei con mezze ebree/mezze inglesi, la proporzione di bambini
“dall’aspetto non-ebraico” a quelli “dall’aspetto ebraico” era di 13 : 12; in 4 matrimoni misti di mezzi
ebrei/mezzi inglesi con ebree essa era di 2 : 5; e nel totale, in questi 13 casi, essa risultava essere di 15 : 17.
Se si fosse trattato di incroci fra due razze, secondo le leggi di Mendel, la proporzione avrebbe dovuto essere
16 : 16; e Salaman ne conclude: “La conclusione alla quale questi risultati obbligatoriamente conducono è
che il viso ebraico è un tratto (character) che obbedisce alle leggi di Mendel – indipendentemente dal fatto
che esso sia determinato da fattori anatomici percepibili (gross) oppure venga ad essere il riflesso nella
muscolatura facciale di determinati tratti animici” (2). Negli incroci all’interno dell’ebraicità, egli (p. 289)
presume che ci possa essere una dominanza dei tratti sefarditi (ebrei meridionali) rispetto a quelli aschenazi
(ebrei orientali), rappresentandosi questi due filoni dell’ebraicità come se fossero due razze.
Anche se le ricerche di Salaman non sono ancora definitive per potersi esprimere sulla realtà di tratti
razziali dominanti e secondari all’interno del popolo ebraico, esse possono valere come indicatore che i tratti
considerati sono ereditari, e quindi come indicatore di un dato di fatto genetico che, in Occidente, viene
spesso percepito automaticamente anche dalla gente semplice, quando osserva i risultati di matrimoni fra
ebrei e non-ebrei. Salaman, inoltre, ribadisce che l’insorgere di tratti facciali “ebraici” ha poco ha che vedere
con le circostanze ambientali: “Ho spesso visto neonati che avevano un innegabile viso ebraico”.
Nelle cerchie extrascientifiche ci si incontra spesso con l’idea che i tratti “ebraici” abbiano una “capacità di
riaffiorare” particolarmente forte rispetto a quelli non-ebraici. Questo punto di vista può essere giustificato
dal fatto che tanti tratti visti come “ebraici” sono razzialmente levantini od orientalidi, che magari non si
rivelano nei figli, ma che tornano a manifestarsi nei nipoti, pronipoti, o anche oltre. Sta di fatto che l’aspetto
“ebraico” si rivela relativamente poco nei figli di matrimoni misti fra ebrei e non ebrei; e questo era stato
osservato da Salaman, si ricordi la proporzione di 1 : 13 di cui si è appena parlato, molto inferiore rispetto a
quanto ci si potrebbe aspettare. E c’è da credere che se Salaman avesse estese le sue osservazioni ai nipoti
avrebbe trovato un’incidenza maggiore di tratti “ebraici”. Eppure, come si è già detto, gli studi di Salaman
non permettono di risolvere i problemi che essi stessi propongono. Nella casistica degli incroci razziali,
contrariamente a quanto viene normalmente ammesso, non è vero che una delle razze sia dominante rispetto
all’altra, (1). ma è vero che ogni tratto razziale, somatico o animico, è ereditato singolarmente,
QUINDI si può rivelare dominante o recessivo (1). Quella delle due razze che possiede un maggior
numero di tratti dominanti, nel misto razziale, sembrerà “imporsi”, rispetto a un’altra che ne ha di meno.
Nelle generazioni successive, all’osservatore non specializzato sembrerà che fra le razze originarie
predomini quella che possedeva più caratteri dominanti, dai quali dipendono gli aspetti più visibili della
psiche o del corpo.
“L’idea che certe razze siano di per sé geneticamente dominanti è sostenuta da un errore psicologico, e in
modo particolare quando si tratta degli incroci fra razze europee ed ebrei. Nel nipote (F2), e nelle
generazioni seguenti, ci si incontra spesso con tratti “ebraici” anche in casi nei quali l’F1 non aveva un
aspetto particolarmente ebraico. Viceversa, ci si incontra anche con casi nei quali non si possono percepire
se non tratti non-ebraici, per cui si dovrebbe parlare di un insorgere della parte non-ebraica nel misto. Studi
esatti degli incroci con ebrei hanno dimostrato che anche in questi casi, come ci si poteva spettare, quello
che insorge non è che questo o quel tratto dominante: tipo i capelli neri, il naso convesso o qualche tratto
fisionomico. Negli incroci fra ebrei orientali con il naso piatto e individui nord-europei con il naso stretto, è
dominante il naso stretto” (1).
Il concetto popolare secondo il quale, nei misti, ci sarebbe una certa predominanza dei tratti “ebraici”
potrebbe essere confermato da studi, non ancora intrapresi, sui discendenti di matrimoni misti fra ebrei e
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non-ebrei lungo diverse generazioni; studi tendenti a stabilire se le razze presenti nel misto ebraico
possiedono meno caratteri recessivi di quelle presenti nei misti razziali europei. Si tenga presente che solo
per quel che riguarda la forma del naso, intervengono almeno quattro “fattori ereditari” (forma della
radice, del dorso, delle narici, della punta), il che illustra la particolare difficoltà a cui vanno icontro
questi tipi di ricerche rispetto alle quali, gli studi di un Salaman, sono estremamente semplicistici.
Contro l’ereditarietà assoluta dei tratti razziali presenti negli ebrei, viene spesso fatta l’obiezione che quelli
di un certo territorio si distinguono da quelli di un altro nello stesso modo degli autottoni di quel territorio,
che sono diversi da quelli di un altro. Gli ebrei della Germania avrebbero “qualcosa di tedesco”, quelli della
Francia “qualcosa di francese”, ecc.. Quando si fanno affermazioni del genere, bisognerebbe sempre
appurare quali tratti specifici hanno attratto l’attenzione dell’osservatore. Molti fanno meno attenzione alla
persona che ai vestiti che indossa, o al suo modo di presentarsi; allora un ebreo inglese sarà generalmente
molto diverso da uno russo, mentre quello inglese assomiglierà di più a tanti inglesi e quello russo a tanti
russi. La maggior parte dgli osservatori, quando vedono un’altra persona, fanno attenzione più ai tratti
acquisiti che a quelli ereditati (anche quando non si tratta di vestiario o analoghi dettagli). A tratti, quindi,
che non possono essere lasciati in eredità biologica, e che sono stati mutuati da altre persone, come per
esempio il modo di presentarsi, l’atteggiamento corporeo, il modo di parlare e di acconciare i movimenti più
sottili dei muscoli facciali (molti hanno un buon occhio per percepire i dettagli dei tratti facciali). Questi
però sono dettagli che vanno soggetti a parecchie influenze esterne, variazioni paratipiche, tanto per dare
loro un nome tratto dalla scienza dell’ereditarietà, che possono trasmettere, per esempio, a tanti ebrei inglesi
qualcosa di “inglese” e a quelli tedeschi qualcosa di “tedesco”; nello stesso modo che un tedesco, dopo un
lungo tempo trascorso in Francia, può acquistare un modo di atteggiarsi e di parlare, insieme ad una
espressione facciale parzialmente “francese”. Tutte queste sono sovrapposizioni paratipiche ai caratteri
ereditati che possono essere acquisite e poi perse, e la cui acquisizione è certamente più facile per un popolo
come quello ebraico, che ha una così forte componente levantina, che non per un tedesco o per un inglese.
Questo, lo ripeto, perchè l’anima levantina ha una grande abilità di ‘intrufolarsi’ nella psiche altrui,
condizione importante per potersi adattare, consapevolmente o meno, ad un ambiente estraneo.
La lingua, e all’interno di ogni lingua i diversi dialetti, a quanto sembra esercita uno specifico effetto
paratipico, in quanto può dare facilmente una particolare espressione ai tratti facciali visibili. Inoltre, la
presenza o mancanza di determinati movimenti o atteggiamenti in un determinato ambiente, lo “stile”
complessivo delle relazioni sociali, i tratti ereditati ed ereditari della struttura muscolare delle persone che a
quello “stile” vogliono adattarsi, inducono un po’ alla volta a cambiamenti nell’espressione e nel
comportamento. Così insorgono sovrapposizioni non-ereditarie sull’insieme dei tratti ereditati, e coloro che
si muovono abitudinariamente nelle città sovraffollate e si sono abituati a queste sovrapposizioni, spesso
hanno una impressione che li porta a pensare si tratti di influssi ambientali diventati ereditari. Ma quando si
parla di influssi ambientali su diversi gruppi ebraici nel mondo, e quindi di ebrei che sarebbero divenuti
interamente “inglesi”, “francesi” o “tedeschi”, in realtà si tratta quasi sempre di questi influssi paratipici. E
questo vale, naturalmente, anche per le influenze psichiche, notevoli soprattutto negli individui
prevalentemente levantini i quali, particolarmente dotati per per la psiche altrui, e con la loro tendenza alla
perdita dell’autocontrollo, sono singolarmente predisposti ad adottare anche comportamenti razzialmente
estranei.
R. Virchow, attraverso lo studio di alcuni raggruppamenti ebraici, ha tentato di ipotizzare quali potessero
essere le possibilità di manifestazione di queste sovrapposizioni. Nel suo lavoro “Crania ethnica americana”
(1897), egli scrive (p. 4/5): “Faccio riferimento all’influsso fisionomico esercitato dai muscoli, soprattutto
dai muscoli mimici. Le differenze fra gli ebrei tedeschi, inglesi, spagnoli, polacchi, non dipendono soltanto
dal progressivo meticciato fisico, anche se esso ha avuto la sua influenza, ma anche dall’adattamento della
posizione e dei movimenti dei muscoli a modelli dettati dall’ambiente. Un compito interessante potrebbe
essere quello di determinare fino a che punto i muscoli mimici possono influire sulla forma delle ossa
craniche”.
È sempre possibile che alle variazioni paratipiche nell’aspetto degli ebrei stanziali in terre diverse, abbiano
contribuito le sovrapposizioni dovute all’adozione di modi di parlare e di camminare, e di altri movimenti e
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atteggiamenti, per potersi adattare all’ambiente circostante. Qualche volta è stato asserito che in certi gruppi
ebraici, delle caratteristiche dovute agli influssi ambientali sono diventate ereditarie. Il razziologo ebreo
Boas (di nazionalità statunitense) trovò che i figli di ebrei immigrati in America erano in media più
dolicocefali dei loro genitori; mentre quelli degli immigrati siciliani erano in media più brachicefali (1). Ma,
ancora una volta, né gli ebrei né i siciliani sono razze, ma misti razziali, per cui i figli possono facilmente
dimostrare una serie di tratti che non erano visibili nei genitori. Contrariamente a quelli che vollero
utilizzare i suoi risultati per sostenere che non esistono le differenze razziali, lo stesso Boas rifiutò di
presupporre che ci fossero influssi formativi genetici (idiotipici), ma ammise soltanto manifestazioni visibili
(fenotipiche): “Potrebbe essere che se gli stessi individui fossero rispediti nel loro ambiente originale,
ritornerebbero alle vecchie forme somatiche” (2). Di contro a tutte le presupposizioni che vorrebbero
rendere l’ambiente predominante sulla razza, e di contro a tutta una serie di antiquate nozioni lamarckiane, si
impone il fatto che gli ebrei, anche agli occhi dei non-specialisti, vengono ad essere uno dei migliori esempi
di come i tratti ereditari, fisici e psicologici, siano del tutto indipendenti dall’ambiente.
La riconoscibilità degli ebrei come tali, di cui si è parlato al cap. VII, dimostra quanta poca importanza i
cambiamenti di territorio, lingua, abitudini, occupazioni, classe sociale, posizione economica, religione e
nazionalità, pure avvenuti continuamente per molti secoli, abbiano avuto per un certo popolo, di contro ai
suoi tratti genetici indipendenti da tutti questi fattori.
Quando si confrontano le raffigurazioni di ebrei dei secoli precristiani e i tratti somatici degli ebrei attuali
stanziati in Occidente; e quando si considerano con attenzione le notizie che egiziani, greci e romani ci
hanno trasmesse sul loro comportamento, del quale Willrich (1) ha messo insieme una raccolta di
testimonianze, e lo si confronta con quello degli ebrei moderni, risultano quelle interessanti concordanze che
ammettono una spiegazione solo se si presuppone un insieme invariabile di tratti ereditari fisici e
psichici.
Soltanto la constatazione di queste concordanze, che si estendono su un arco di tempo di 2 o 3 millenni,
dovrebbe essere sufficiente per rendere sospette tutte quelle presupposizioni di tipo lamarckiano che pure
continuano ad affiorare, secondo le quali le persecuzioni e le sofferenze che gli ebrei avrebbero dovuto
subire durante il Medioevo avrebbero lasciato un’impronta, o magari originato, la natura fisica e psichica
dell’ebreo, attraverso “l’ereditarietà dei caratteri acquisiti”.
Le condizioni di vita medioevali influirono sicuramente sui processi selettivi all’interno dell’ebraicità, in
quanto, come è già stato indicato (cap. VII), contribuirono alla maggiore prolificità dei più “ebrei” fra gli
ebrei e al profilarsi della loro condizione medica, così come ancora oggi si trova. Ma la qualità animica
dell’ebraicità, determinata da tratti ereditari, era già apparsa ben stabilizzata nei secoli precristiani.
CAP. IX. IL PROBLEMA EBRAICO
Chi si appresta a trattare del “problema ebraico”, di norma deve confrontarsi con quella ‘opinione
pubblica’ occidentale che chiede la dimostrazione che il problema esisite. Questo fatto di per sé può
risvegliare, in chi ancora ha una qualche capacità di giudizio, il sospetto che il “problema” esiste veramente.
Esso inoltre è provvisto di quella particolare qualità di essere percepito come irritante da moltissima gente,
siano essi ebrei o non-ebrei. Nel caso di molti non-ebrei, la paura che hanno del potere economico e politico
degli ebrei – che al giorno d’oggi costituisce il nocciolo del dominio su tanti popoli da parte del capitale
creditizio internazionale – è un fattore importante. Haecker, nella postfazione della sua traduzione in tedesco
del libro di Hilaire Belloc “The Jews [Gli ebrei]“, libro che tratta il problema ebraico dal punto di vista
specificamente cattolico, esprime la sua convinzione che “ci sono molti intellettuali che hanno il coraggio di
dichiararsi vigliacchi quando si confrontano con il problema ebraico; che non ne vogliono sapere né sentir
parlare, e concedono che davanti ad esso si sentono presi da paura e addirittura da panico” (”Die Juden [Gli
ebrei]“, 1927, p. 217). Siccome anche la stampa occidentale dipende, in massima parte, dal capitale
creditizio internazionale in modo diretto o indiretto, essa preferisce tacere sull’esistenza di un problema
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ebraico piuttosto che discuterlo in modo serio. Eppure, al giorno d’oggi si fa largo in moltissime persone,
tanto ebrei che non-ebrei, la netta percezione che il problema ebraico stia diventando uno dei problemi più
brucianti e attuali per tutti gli stati europei e americani e per tutti i rispettivi popoli in ogni
stratificazione sociale.
Per molti di costoro il problema assume un aspetto che uno dei più profondi conoscitori dell’argomento,
Werner Sombart, ha descritto come “un problema la cui soluzione avrà conseguenze profonde per
ognuno di noi” (1).
Fin dai tempi precristiani, la discussione razionale del problema ebraico fu continuamente interrotta dalla
proverbiale “irritabilità ebraica”, che diede a tutte le discussioni sull’argomento un tono soggettivo e non
imparziale, con la conseguenza che molte fra le persone più intelligenti, sia ebrei che non-ebrei, hanno
preferito ignorarlo. Questa “irritabilità ebraica” è stata indicata anche da scrittori ebrei, come Maximilian
Harden, che una volta scrisse (sul mensile “Zukunft” di giugno 1904): “È possibile che si possa dire quel
che si vuole di qualsiasi altra religione, razza o classe sociale ma che contro Israele non si possa dire
neppure una parola critica? Questa, è una richiesta straordinaria, tanto più che viene fatta da gente
che predica ogni giorno la tolleranza”. Anche lo scrittore ebreo Conrad Alberti (mensile “Gesellschaft”,
N. 12, 1889) si espresse molto chiaramente “sull’intolleranza brutale e proprio barbara” che gli ebrei
manifestano, in contraddizione con i loro “ululati” a favore della tolleranza; e chiamò “specificamente
ebraica” la loro tendenza ad ignorare sistematicamente le opinioni altrui – tendenza che,
accompagnata dall’intolleranza, ha contribuito alla formazione di un montante “antisemitismo” il
quale, irridendo ogni tentativo di soffocamento, ha sempre trovato ascolto.
Il primo a parlare di una “irritabilità ebraica” sembra sia stato Cicerone (Pro Flacco, 28), poi ne parlò
Fichte e, nel nuovo Reich tedesco, Virchow (1). Non c’è dubbio che alcuni ebrei hanno portato a termine
lavori scientifici in modo esemplare – come è testimoniato dalle loro pubblicazioni, spesso citate in questo
libro – e hanno anche tentato in modo obiettivo di sviscerare le specificità della loro appartenenza etnica.
Altri si danno da fare alacremente e onestamente per diffondere fra i loro connazionali la conoscenza
obiettiva della loro natura etnica, e stimolarne l’amore. Ma quella parte del popolo ebraico che è
diventata potente attraverso il possesso di denaro e l’influenza sulla stampa, cerca di intralciare
sistematicamente qualsiasi studio scientifico, etnologico o razziologico, su tutti i popoli, non escluso, è
chiaro, il proprio (2). Per questo Lenz indica la “preferenza degli ebrei per il lamarckismo, cioé per la
dottrina di una ipotetica ereditarietà dei caratteri acquisiti” (3) (non a caso nella ex Unione Sovietica
marxista il lamarckismo rimase articolo di fede difeso in tutti i modi, compreso l’omicidio, sino agli anni 70’
del secolo scorso, cioè sino al momento in cui la sua stupidità non potè più essere “coperta”. Nde). “I
sostenitori del lamarckismo sono quasi tutti ebrei, pochissimi invece gli ebrei fra i suoi nemici.” Ma negli
ultimi anni la situazione si è modificata, in quanto il lamarckismo ha perso quasi tutti i suoi aderenti. La
simpatia degli ebrei per il lamarckismo deriva evidentemente dalla volontà che non ci devano essere
differenze razziali insormontabili; e così si manifesta la tendenza di tanti ebrei a nascondere e a negare la
stessa evidenza scientifica. Questa volontà di soppressione va incontro al fatto che moltissimi ebrei vogliono
presentare l’ebraicità come una comunità religiosa e nel contempo negare che gli ebrei siano un popolo, al
quale corrisponde una determinata composizione razziale che lo rende diverso dall’ambiente umano in cui
vive, soprattutto se occidentale.
Il già spesso citato razziologo ebreo Weissenberg, si riferisce alla negazione, da parte di tanti ebrei, del
fatto che l’ebraicità sia uno specifico misto razziale, come ad un “metodo sbagliato per difendersi, in
quanto non raggiunge il suo scopo e inoltre rende gli ebrei spregevoli sia davanti a sé stessi che
davanti ai non-ebrei” (1). Questa volontà di soppressione è particolarmente forte nelle cerchie degli ebrei
“liberali” e “assimilazionisti”, cioé in quelle cerchie che, in Occidente, hanno il massimo di influenza; le
stesse che insistono nell’affermare che gli ebrei non sono un popolo ma solo una comunità religiosa (2).
L’influsso delle soppressioni di cui si è appena parlato, abbinato all’”irritabilità ebraica” particolarmente
forte in tanti ebrei, è la causa principale del fatto che qualsiasi discussione aperta sul problema ebraico viene
percepita come ‘un fattore di disturbo’. Non solo, ma viene negato addirittura l’esistenza di un problema
106
ebraico, e qualsiasi discussione, per quanto obiettiva possa essere, è subito, automaticamente, tacciata di
“antisemitismo” – questo è successo in tantissimi casi, sia da parte di ebrei che di non ebrei.
Razziologicamente, la tendenza alla soppressione di certa evidenza scientifica può essere spiegata
ricordando che è una tendenza propria alla razza levantina; mentre l’”irritabilità ebraica” deriva anche dal
fatto che non pochi ebrei si sentono biologicamente estranei all’ambiente non ebraico che li circonda; da qui
lo sviluppo di una alterità che facilmente diventa odio verso tutto ciò che non è ebreo; questo anche quando
non vi è una influenza diretta delle varie prescrizioni all’odio contenute nel Talmud. Inoltre, molti ebrei, in
questo loro sentimento di alterità, si sentono contraccambiati da parte dei non-ebrei, e anche questo può
tramutarsi in odio. Questo tipo di sentimenti è stato descritto ben descritto dal sionista Cheskel Zwi Klötzel
nel suo saggio “Das grosse Hassen [Il grande odio]“: “Nello stesso modo che noi ebrei sappiamo che ogni
non-ebreo, sia pure in qualche recondito angolo del suo cuore, è antisemita e non può non esserlo,
ognuno di noi, nella profondità del suo essere, ha in odio tutto ciò che non è ebraico … Io non trovo
alcunché in me stesso che sia tanto radicato quanto la convinzione che, se a questo mondo c’è qualcosa
che tiene insieme tutti gli ebrei, è proprio questo odio grande e sublime” (1).
È quindi chiaro che qualsiasi discussione del problema ebraico porta necessariamente alla trattazione di
processi psicologici che a molti potranno sembrare misteriosi, e che in molti altri risvegliano proprio quella
diffidenza che l’appena menzionato Haecker vedeva come caratteristica di tutti coloro che non ne vogliono
sapere di un “problema ebraico”. In ciò che segue si parlerà, sia pure non in modo esauriente, del “problema
ebraico” e delle fenomenologie che la sua discussione ha innescato. In modo più dettagliato, si
considereranno tutti quegli aspetti dello stesso problema che possono essere spiegati alla luce della
razziologia. Verrà descritta la problematica dei matrimoni misti fra ebrei e non-ebrei, e poi quella
dell’influsso dello spirito ebraico sulla psiche, estranea, delle popolazioni occidentali. Ambedue queste
casistiche – qui sviluppate dal punto di vista razziologico ed etnologico – confermano che il “problema
ebraico” è un fatto reale.
*
a) La casistica dei matrimoni misti
Una buona esposizione della problematica dei matrimoni misti fra ebrei e non-ebrei è il saggio “Zur
Biologie der christlich-jüdischen Mischehe [Sulla biologia del matrimonio misto cristiano-ebraico]” di M.
Marcuse (2). Ma quando questo autore parla di matrimoni “cristiano-ebraici”, egli usa una terminologia che
bisognerebbe evitare, in quanto ciò che importa in questo caso non sono le confessioni religiose ma i
precedenti genetici. Siccome egli prende in considerazione situazioni presenti in Germania, sarebbe stato
meglio se avesse usato espressioni come: “di origine tedesca” o “di origine ebraica”, ma queste gli sembrano
‘lessicalmente poco simpatiche”. Rispetto alle cifre date per i matrimoni misti “cristiano-ebraici”, bisogna
sempre tener presente – come nel caso della criminalità ebraica – che nelle statistiche ufficiali solo gli ebrei
di fede mosaica valgono come tali. Il matrimonio fra un ebreo e una ebrea, tutti e due di religione cristiana,
vale ufficialmente come un matrimonio fra “cristiani”; mentre il matrimonio fra un ebreo o una ebrea di
religione cristiana e una persona non-ebrea anch’essa cristiana, non è classificato come un matrimonio misto,
ma sempre come matrimonio “cristiano”.
Salvo indicazione in senso contrario, quanto segue è ripreso, sia per le cifre che per le conseguenze, dalla
pubblicazione di Marcuse.
I matrimoni misti fra ebrei e non-ebrei che a quanto sembra erano lentamente aumentati di numero a
partire dal primo terzo del secolo XIX, si sono raddoppiati fra il 1901 e il 1925; per ogni 100 matrimoni fra
“ebrei puri”, fra il 1901 e il 1925 ci furono 42 matrimoni misti. La maggior parte dei matrimoni misti si
conclusero fra un ebreo e una non-ebrea, e molti meno furono quelli fra un non-ebreo e un’ebrea. Tra le
confessioni religiose non-ebraiche, i protestanti si sposano con ebrei più facilmente dei cattolici. Nel 71,5%
dei casi, il coniuge non-ebreo del matrimonio misto era protestante (1). Secondo J. Müller (2) degli ebrei
maschi che si sposarono nel 1923 il 78,7% impalmarono un’ebrea, il 19,6% una “cristiana”.
107
Matrimoni in Germania
fra ebrei fra “ebrei”
e “cristiani”
1901 – 1910 38.332 8.225
1911 – 1924 52.425 20.266
Queste statistiche, sempre secondo Marcuse, sarebbero insufficienti in quanto, “per quel che riguarda i
matrimoni fra cristiani ed ebrei, le cifre date sono minime”. Dalle statistiche ufficiali scompaiono
continuamente anche quei matrimoni misti nei quali, quando uno dei coniugi adotta la religione dell’altro, c’è
un livellamento delle confessioni religiose, per cui la maggioranza dei matrimoni misti diventano matrimoni
fra “cristiani”. In questo modo sono sottratti alle statistiche un’alta percentuale di matrimoni di vecchia data
molto più prolifici dei matrimoni misti più recenti; in quanto il clima psicologico in un matrimonio
monoreligioso, o divenuto tale, è più favorevole al desiderio di avere una numerosa figliolanza, o comunque
meno favorevole alla limitazione delle nascite. In ragione di questo errore nelle statistiche, i matrimoni misti
‘ebraico-cristiani” sembra siano ancora meno prolifici di quanto lo siano realmente. I conteggi fatti in Prussia
indicano l’11% di matrimoni senza figli contro il 35% quando si tratta di matrimoni misti; mentre le natalità
medie furono di 5 figli per coppia per i matrimoni fra cattolici, di 4 per quelli fra protstanti, di 3,8 per quelli
fra ebrei e soltanto 1,7 per i matrimoni misti.
Hanauer (cit.) per i matrimoni misti ha dato indicazioni molto significative: mancanza frequente di prole,
percentuale più alta di nati morti, divorzi frequenti e fenomeni degenerativi nella progenie.
Marcuse studia anche le ragioni per le quali i matrimoni misti limitano la loro prolificità – perché di
limitazione volontaria si tratta, e non di sterilità dovuta all’incrocio, come molti credono. Tutte le ricerche
contemporanee sembrano indicare che gli incroci fra due razze umane qualsiasi, o fra due qualsiasi misti
razziali, sono illimitatamente fecondi, anche quando si tratti di razze ancora più disparate di quelle presenti
nel misto ebraico da una parte, e nei misti europei dall’altra.
Le ragioni della limitazione delle nascite nei matrimoni misti fra ebrei e non-ebrei vanno cercate
nell’ambiente psicologico di quei matrimoni. “La maggior parte di questi matrimoni sono conseguenza o di
opportunismo o di passioni momentanee. In tutti e due i casi c’è avversione verso la fondazione di una
famiglia” (Marcuse, p. 534). I matrimoni misti sono favoriti, secondo Marcuse, soltanto dallo spirito
“moderno” e “praticistico”, che tende alla “razionalizzazione” della famiglia. Inoltre, i matrimoni misti sono
essenzialmente un fenomeno “urbano”, anzi, da “grande città”. Nel 1926 ci furono a Berlino, contro 861
matrimoni ebraici, 553 matrimoni misti; e già per il solo fatto di essere matrimoni urbani, questi matrimoni
tendono ad essere poco prolifici. Inoltre questi matrimoni trovano generalmente una forte ostilità in
ambedue le famiglie e molto spesso, perché possano realizzarsi, bisogna aspettare la morte del padre, della
madre o di ambedue i genitori di uno dei due partecipanti, con la conseguenza che l’unione avviene in tarda
età. Viceversa si danno anche un numero relativamente alto di matrimoni “precoci”, da parte di individui
trasportati da “esaltazione erotica”, attitudini di sfida, “confusione nevrotica dei sentimenti” o “crisi tardopuberali”.
Anche in questo caso le attitudini e le circostanze sono favorevoli alla scarsa prolificità se non
propria alla mancanza di figli (”noi due bastiamo l’uno all’altro ecc.”).
“È quasi sempre vero che quei matrimoni misti nei quali è l’uomo ad essere cristiano, hanno più figli di
quelli nei quali ebreo è l’uomo. La spiegazione sta nel fatto che i matrimoni misti ebraico-cristiani tendono a
concentrarsi in strati sociali più alti che quelli cristiano-ebraici” (Marcuse, p. 535). Le classi sociali più
abbienti tendono sempre ad essere meno prolifiche.
Qual’è la qualità della progenie di questi matrimoni misti? “Sta di fatto che i figli nati dai matrimoni misti
hanno livelli di intelligenza che stanno o molto al di sopra o molto al di sotto della media.” Ci sono
“relativamente molti psicopatici, nevrotici e degenerati fisici.” “Secondo Maretzki, da questi matrimoni
108
misti risultano anche un quantitativo relativamente alto di criminali.” Viceversa, fra i figli dei matrimoni
misti c’è una percentuale relativamente alta di individui molto dotati, soprattutto atleti e, sicuramente, attori
e attrici (1). Marcuse è riescito a sviscerare le cause probabili di questo fenomeno, basandosi sulle leggi
dell’ereditarietà e sulle particolarità dei tratti genetici dei genitori. Coloro che prendono la decisione di
sposarsi nonostante l’essere uno ebreo e l’altro cristiano, costituiscono una speciale minoranza come
risultato di una selezione nei loro rispettivi popoli. Il matrimonio misto è reso possibile da determinati tratti
psicologici ereditati, che poi vengono trasmessi alla progenie e si manifestano come esteriorizzazioni
degenerative, fisiche o psicologiche, oppure come intelligenze superiori, oppure come misti dell’uno e
dell’altro. Marcuse riporta l’opinione di un medico, grande conoscitore dei problemi dell’ereditarietà, al quale
egli avrebbe chiesto se i matrimoni misti devono essere visti come accettabili o se invece dovrebbero essere
impediti: “non è il caso di condannare in blocco il matrimonio misto; ma ci si incontra frequentissimamente
con casi singoli nei quali i contraenti, presi individualmente oppure nel loro albero genealogico, presentano
fenomenologie cliniche che rendono il matrimonio problematico, se non assolutamente sconsigliabile”.
I rapporti fra i coniugi, nel caso dei matrimoni misti, sono riflessi in un tasso di divorzi superiore a quello
dei matrimoni fra “cristiani”. Secondo Theilhaber (1), verso il 1911 il 12% dei matrimoni misti finirono in
divorzio. In Germania, nel 1926 una media del 14½% dei matrimoni finirono con il divorzio. Ma bisogna
ricordare che la cifra dei divorzi nei matrimoni misti (che, secondo Marcuse, è ancora più alta), corrisponde
a statistiche fatte sempre secondo la confessione religiosa e non secondo l’origine genetica. Secondo
Marcuse, l’alta percentuale di divorzi nel caso di matrimoni misti, va essere attribuita soprattutto
all’ideologia “moderna”, base della maggior parte di questi matrimoni, e alla quale abbiamo visto si può
addossare anche la loro minore prolificità. Le statistiche indicano che i matrimoni senza figli finiscono più
facilmente in divorzio di quelli che hanno figli; e, nel caso dei matrimoni misti, influisce anche la tendenza
estraniante delle rispettive famiglie.
Come si vede, Marcuse non prende in considerazione l’influsso della differenza razziale fra i coniugi, né
quando discute la qualità della progenie, né quando considera la maggiore inclinazione al divorzio. Da una
parte egli cerca le cause nella particolare categoria selettiva di coloro che vanno incontro a matrimoni del
genere, dall’altra nelle difficoltà sociali e culturali alle quali questi matrimoni vanno soggetti. Eppure, nel
considerare la maggiore tendenza al divorzio che distingue questi matrimoni, bisogna vedere nelle differenze
razziali un fattore coadiuvante immediato. Sia l’”opportunismo pratico” che la “passionalità sconsiderata” i
quali, secondo Marcuse, portano quasi sempre a questo tipo di matrimoni, hanno l’effetto che dopo un tempo
più o meno lungo, sopravviene una riconsiderazione e un’analisi che porta ambedue i coniugi a concentrare
l’attenzione ai tratti psicologici reciproci; questi, a loro volta, sono la conseguenza di caratteri animici
razziali, e come tali, forse, non sono neppure riconosciuti. L’attrice Tilla Durieux ha descritto, in un recente
libro, il suo matrimonio con l’editore ebreo Cassirer, dal quale risulta un “taglio” animico razziale che deve
essere presente in tanti matrimoni misti, anche quando non finiscono con un divorzio.
Con riferimento alla progenie dei matrimoni misti, bisogna rendersi conto che gli incroci razziali
hanno una loro intrinseca perniciosità. Ora come ora questo non può essere dimostrato in modo stringente
in quanto, anche i numerosi esempi di fenomeni degenerativi nei meticci fra razze disparate, possono essere
spiegati facendo riferimento anche alla pessima qualità individuale di quelli che si uniscono fuori dalla loro
razza. Ma si può presupporre che la ricerca, quando fosse orientata allo studio delle discordanze dovute agli
incroci – cfr. il capitolo precedente, quando si è parlato di fenomenologie patologiche – troverebbe che questi
sono obiettivamente dannosi. Ciò sembra potersi dedurre da tutto quello che è stato finora appurato dalla
ricerca genetica e razziologica e dalle opinioni degli scienziati. Basler scrive: “La maggior parte dei
ricercatori pensano, sicuramente a ragione, che l’incrocio fra razze molto diverse è sfavorevole alla
discendenza” (1). La perniciosità potrebbe essere determinata dal fatto che chi incorre in un matrimonio
misto è egli stesso il risultato di una pessima selezione; ma si può presupporre che una ricerca più
dettagliata darebbe pienamente ragione a Basler.
Si potrebbe obiettare che le razze europee si incrociano fra loro da millenni e quindi, se gli incroci fossere
intrinsecamente perniciosi, nel misto razziale dei popoli europei si dovrebbero riscontrare tante deviazioni
109
dalla media e dalla norma quante, secondo Marcuse, si riscontrano fra i meticci di ebreo e non-ebreo. A
questa obiezione si può rispondere che, attraverso i millenni, gli individui inferiori risultanti dagli incroci fra
europei si sono estinti perciò, all’interno delle popolazioni europee attuali, la possibilità di accumulazione di
tratti genetici negativi è incomparabilmente inferiore rispetto al caso dei matrimoni fra ebrei e non ebrei, che
non si erano mai verificati in un numero rilevante, almeno fino a 100 fa, e rappresentano quindi il primo
caso di incontro importante fra tratti genetici europei ed extraeuropei.
Sombart ha cercato di presentare alcuni esempi per dimostrare che gli incroci fra ebrei e non-ebrei qualche
volta danno una progenie problematica, e che “la mescolanza del sangue fra germani e semiti” avrebbe come
naturale risultato “individui intrinsecamente squilibrati” (1). Gli incroci sarebbero già di per sé dannosi, si
tratti di incroci fra tedeschi ed ebrei, o più in generale fra genti occidentali ed ebrei, o addirittura fra genti
occidentali e medio-orientali; e non soltanto in modo indiretto, in ragione cioè delle particolarità di coloro
che contraggono questo tipo di matrimoni (come pensava Marcuse). Che gli incroci siano di per sé dannosi è
il dato più probabile in quanto non comporta alcuna contraddizione con le leggi conosciute dell’ereditarietà.
È anche interessante notare come spesso i più dotati fra i meticci di ebreo e non-ebreo abbiano alcunché di
scisso – Sombart dice: di squilibrato – nella loro personalità, il chè li rende ancora meno utili, all’ambiente
umano o statale nel quale vivono, piuttosto che se possedessero una intelligenza inferiore. Quei tipi umani
che Stoddard (2) chiamava “geni perversi” (tainted genius), sembrerebbero particolarmente frequenti fra i
“mezzi ebrei”. Viceversa, non bisogna dimenticare che un individuo posto a mezza via fra due razze o due
popoli, si trova in una situazione pericolosa per il suo equilibrio psicologico, e questo, sovrapposto ai tratti
psicologici ereditati, rende oltremodo difficile anche la loro esatta individuazione. Solo una ricerca
dettagliata di simili casi potrebbe fornire le basi per decidere se la progenie dei matrimoni misti è
pregiudicata dall’incrocio in sé, o se difficoltà di ogni genere, sempre presenti in questi casi, contribuiscono
anch’esse a danneggiare l’equilibrio psichico del meticcio. -
Tutte queste problematiche sono della massima importanza per un popolo come quello tedesco (e oggi per
tutti gli europei, data l’entità dell’invasione extraeuropea ndr), in mezzo al quale abita un numero
relativamente alto di ebrei, e nel quale un numero crescente di uomini e donne incorrono in matrimoni misti
con ebrei. Anche se la prolificità di quei matrimoni è più bassa di quelli normali, essi inseriscono nel
popolo tedesco un crescente quantitativo di individui dai tratti genetici extraeuropei propri a razze che, fino
a tempi recenti, erano del tutto estranei, a differenza dei matrimoni fra tedeschi e altre genti occidentali, i
cui tratti genetici sono già in esso ben rappresentati. È inoltre un fatto che solo circa il 10% dei figli dei
matrimoni misti rimangono ebrei (1), mentre il resto, generalmente in obbedienza ai voleri dei loro genitori,
o abbandonano la fede mosaica, o ad essa non vi si avvicinano mai, e si rivolgono alla germanicità, cioé
all’ambiente popolare nel quale sono immersi. Il popolo tedesco, come ho tentato di dimostrare in diverse
mie opere di razziologia, come conseguenza di una “natalità differenziale” delle diverse razze che entrano
nella sua composizione, ha preso la via della denordizzazione, come tante altre nazioni europee. Di
conseguenza ha già perso molto della sua originale natura “germanica”; mentre ora è minacciato da influssi
di razze levantina e orientalide di cui sono vettori proprio i meticci degli ebrei. Nel contempo, esso è
soggetto ad una certa “semitizzazione” o “levantinizzazione” – cioé al contagio di spirito “semitico” o
“levantino” – che comunque è determinato dai caratteri psichici ereditari delle razze levantina e orientalide.
Ma in Germania, come in tutte le altre nazioni occidentali, gli influssi delle razze che caratterizzano
l’ebraicità penetrano nella popolazione non soltanto attraverso nascite legittime, ma anche attraverso quelle
illegittime. Il numero delle unioni illegittime, naturalmente, è difficilmente quantificabile. Il numero dei
meticci originati in questo modo è probabilmente minore di quello dovuto alle nascite legittime; ma resta il
fatto che anche queste unioni potrebbero essere relativamente numerose. A tutto ciò contribuisce
considerevolmente la stessa condizione economica degli ebrei, di solito molto superiore alla media.
La “Frankfurter Zeitung” (24 gennaio 1928) ha pubblicato un articolo di Ernst Henschel, sulla “Casa
Hirsch”. Questo articolo si riferiva a Jakob Hirsh, fondatore di quella casa di commercio: “Anche se Jakob
aveva più di settant’anni, diverse ragazze che lavoravano nella sua azienda si adeguarono alle voglie sessuale
del vecchio”. Del figlio di Hirsch, Siegfried, si riporta che “avesse più di una donna, e non si sa quanti figli
110
sconosciuti”. Ora, risulta che fra gli ebrei ci sono, proporzionalmente, più datori di lavoro di quanti ce ne
sono fra coloro che fanno parte dei popolo all’interno dei quali essi abitano e, in modo particolare, gli ebrei
sono datori di lavoro di un gran numero di impiegate (dattiloscriventi, venditrici, operaie, ecc.). E si sa che
questo tipo di lavoratrici non di rado hanno rapporti sessuali con i loro datori di lavoro. Quindi, se gli ebrei
sono relativamente abbondanti fra questi datori di lavoro, e se fra loro non sono infrequenti elementi sul
tipo di Jakob e Sigfried Hirsch, ci si può immaginare come, in conseguenza di questi rapporti, nelle classi
medie e basse delle grandi città dell’Occidente ci siano tante persone che rivelano caratteri orientalidi e
levantini. Perfino a Stoccolma mi è capitato di accorgermi di qualcosa del genere; e questo in una città dove
gli ebrei, residenti o di passaggio, sono relativamente pochi. Questi meticci di ebreo potevano derivare solo
in piccola parte da matrimoni legali, in quanto ebrei ed ebree non si sposano che eccezionalmente fra le
classi povere della popolazione. Eppure questa classe meticcia è percepibile a Copenaghen, a Berlino, a
Vienna, a Parigi. Essa è diventata un tratto caratteristico di tutte le grandi città dell’Europa; nello stesso
modo che i meticci di ebreo sono divenuti normali in molti casati nobiliari dell’Occidente (1).
Gli ebrei, nello scegliere nella popolazione ospitante persone con le quali stabilire rapporti matrimoniali o
extramatrimoniali, dimostrano una costante preferenza per individui dai caratteri nordici, soprattutto se
biondi e con gli occhi azzurri, ma anche con tratti che, in Occidente, valgono come “nobili” – quindi,
generalmente, dai tratti nordici. Si è già detto come nelle scelte matrimoniali all’interno del loro stesso
popolo, gli ebrei preferiscano persone bionde con tratti più o meno nordici. La scrittrice ebrea Anselma
Heine ricorda questa casistica con riferimento al poeta ebreo Jacobowski: “Ultimamente egli cercava
soltanto ciò che era raffinato e impreciso. Per lui era diventato un piacere vendicativo quello di dimostrare la
sua superiorità sulle donne, ed egli non guardava i plebei con un disprezzo maggiore che quando si vantava
di avere soggiogato brutalmente le donne della nobiltà” (1).
Gli accoppiamenti coniugali o extraconiugali fra ebrei e non-ebrei, sono parte integrante del problema
ebraico. Molti occidentali osservano con preoccupazione, spesso con orrore, come questi accoppiamenti
aumentino di numero e quali sono le loro conseguenze: la dissoluzione dei tratti ereditari dei loro popoli.
Ma anche quella parte dell’ebraicità che ancora osserva in modo ortodosso la sua religione mosaica, nonché i
nazionalisti ebrei, vedono in questo montante meticciato un processo dissolvente e, comunque, un
“problema” sempre più attuale, e la cui considerazione obiettiva diventa sempre più necessaria (2).
La problematica dei matrimoni misti si fa ancora più incalzante in quanto una cresente proporzione di
ebrei abbandona la fede mosaica per diventare cristiana o non-praticante – secondo la Encyclopaedia Judaica
[Enciclopedia giudaica] (vol. II, 1928, p. 1.218 sotto la voce “apostasia”), in massima parte per “ragioni
marginali” e non religiose (3). Questi ebrei che hanno abbandonato la religione mosaica, trovano poche
difficoltà nel contrarre matrimonio con non-ebrei, sia da parte della loro famiglia che di quella del rispettivo
consorte. È normale che si faccia confusione fra popolo e appartenenza razziale ebraica e confessione
religiosa, per cui si crede che l’ebreo che ha abbandonato la fede mosaica abbia perduto anche la sua
ebraicità, cioé la sua appartenenza ad una determinata continuità genetica. L’ignoranza sui fatti
ereditari e razziali è più diffusa fra i non ebrei che fra gli ebrei; ed ha come conseguenza che non si vede
nell’”ebreo” se non l’appartenente ad una determinata confessione religiosa, e non l’appartenente a un filone
razziale di origine extraeuropea, caratterizzato da determinati tratti ereditari somatici e psichici. Questa
ignoranza rende molto più scottante il problema e il pericolo dei matrimoni misti fra ebrei e non-ebrei.
b) Influsso dello spirito ebraico
Uno dei pricipali studiosi di etnologia, Haberlandt, nel suo libro “Die Völker Europas und des Orients [I
popoli dell'Europa e dell'Oriente]” (1920), scrive: “Bisogna pure che anche l’etnologia si occupi degli
influssi di tipo culturale e spirituale che l’ebraicità ha esercitato sullo sviluppo europeo e che continua ad
esercitare attraverso i più potenti mezzi di coercizione: economia monetaria, banche, letteratura, stampa e
organizzazioni aziendali a vasto raggio”. Haberlandt circoscrive poi i campi nei quali la specificità etnica
degli ebrei trova espressione: “Non c’è altro esempio nella vita dei popoli della Terra di come una stirpe
completamente sradicata dal suo centro politico-religioso, dispersa in ogni direzione, che si è posta come
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inconciliabile nemica delle potenze dominanti in Europa (ellenismo, romanità, cristianesimo) dall’antichità
ai tempi moderni, sia riuscita tenacemente a mantenere questa rigida fedeltà di una popolazione
religiosamente pietrificata. Né c’è altro esempio di un popolo che con la forza della sua razza, della sua
religione e della sua tradizione, unito e fanatizzato dalla follia semita di essere il “popolo eletto”, abbia
sviluppato una forma così particolare di parassitismo. È l’unico caso in cui si abbinano forti istinti razziali
con una consapevolezza di popolo assiduamente coltivata ed un sentimento di appartenenza alla stirpe”.
In questa sede non sarà possibile entrare nei dettagli delle casistiche riguardanti gli influssi ebraici
nell’economia, nella politica e nella cultura, menzionate da Haberlandt; ci si accontenterà di dare qualche
indicazione. L’influsso sproporzionato degli ebrei nel campo economico è stato descritto in modo esemplare
da Werner Sombart nella sua opera “Die Juden und das Wirtschaftsleben [Gli ebrei e la vita economica]”
(2a. edizione, 1927; di questa opera oggi esiste un’ottima traduzione italiana dalle Edizioni di Ar, Padova.
ndr), un’opera che, secondo Landsberger, “chissà che non possa essere il punto di partenza per la soluzione
del problema ebraico” (1). Sombart non è mai nemico degli ebrei, e, anzi, spesso ne è addirittura amico; non
a caso perfino la stampa ebraica ha lodato la sua obiettività e totale carenza di pregiudizi. Egli comunque fa
derivare il capitalismo dei nostri tempi, in modo diretto, dallo spirito ebraico e, in modo particolare,
dall’ebraicità mosaico-talmudica: “IL GIUDAISMO E IL CAPITALISMO SONO IDENTICI”. Egli
documenta “duemila anni di attività ebraica basata sul prestito di denaro” e, di conseguenza, “l’infondatezza
di quella costruzione storica” secondo la quale gli ebrei, durante il Medioevo e soprattutto ai tempi
delle Crociate, “sarebbero stati costretti a dedicarsi alla manipolazione del denaro”. Sombart indica
come proprio quelle caratteristiche psicologiche che distinguono gli ebrei, non potevano non essere causa di
forme capitalistiche sempre più varie. Sempre secondo Sombart, “è facile rendersi conto che, da quando
esiste una storia ebraica, non può essere messo in dubbio che ci sono sempre stati ebrei che hanno
accumulato grandi ricchezze, e che la popolazione ebraica è sempre stata, in media, la più abbiente”. -
L’”americanismo” – un tratto attribuito a torto alla totalità della popolazione americana – è
quell’orientamento psicologico che vede nella vita umana niente altro che un insieme di obiettivi
egoistici e di volontà di guadagno; in un mondo di lotta economica senza quartiere e di libertà assoluta
per chi detiene la potenza finanziaria. E questo “americanismo”, che ora, in Occidente spacciato per
“spirito pratico”, si rivela, in base alle considerazioni di Sombart, come niente altro che una manifestazione
dello spirito ebraico – o per lo meno di quello spirito, presente nell’ebraicità, che Goethe, nelle sue
“Maximen und Reflexionen [Massime e riflessioni]” ha descritto così: “Uno spirito che viene rivelato da
tutti gli ebrei, anche quelli meno in vista, e corrisponde ad una decisa tendenza; e che pure è qualcosa di
terreno, temporale e istantaneo”.
Anche secondo Pinkus gli ebrei, in Occidente, hanno contribuito allo sviluppo dello spirito del guadagno,
e il capitalismo moderno è stato evocato da quell’”economia intermedia” che gli ebrei, secondo la loro
natura, hanno sempre esercitato (1). Secondo Sombart, già prima della guerra (Prima guerra mondiale nde),
a Berlino un terzo di tutti i guadagni e proprietà tassabili erano in mano ebraica. “È risaputo che dappertutto
dove è possibile fare confronti, gli ebrei sono tre o quattro volte più ricchi dei cristiani” (2) – nel dire questo
Sombart si basava su statistiche ufficiali dell’anteguerra e sugli ebrei di fede mosaica.
In tempi come i nostri, nei quali tutto ormai è deciso dalla ricchezza, il fatto di essere ricchi ha permesso
loro di acquistare una straordinaria influenza. Sombart mostra delle cifre che indicano come, già
nell’anteguerra, gli ebrei fossero onnipresenti nei consigli direttivi di tutte le società per azioni, e fa vedere
come gli ebrei non solo dominano le grandi banche, ma come, per mezzo di queste, essi controllano anche le
industrie. Anche negli anni anteriori e posteriori allo scoppio della guerra, il capitale internazionale ebraico
usato per fare prestiti ebbe un influsso decisivo per l’andamento della politica delle grandi potenze. Il modo
in cui il capitale ebraico può influire sulla storia è illustrato da una notizia apparsa sulla “Jüdische Presse”
(Vienna, 15 ottobre 1920): Jakob Schiff, direttore della grande banca americana Kuhn, Loeb & Co., avrebbe
appoggiato il Giappone, che di capitale ne aveva poco, nella guerra contro la Russia, “con lo scopo di
indebolire il governo degli zar”; e nella primavera del 1917 avrebbe anche finanziato il rovesciamento del
governo russo (3). Secondo una notizia data dal “Frankfurter Zeitung” del 6 ottobre 1915, fra le principali
banche che facevano prestiti ai nemici della Germania durante la guerra ce n’erano undici che erano
112
“americano-tedesche”, i cui titolari, a giudicare dai loro nomi, erano tutti discendenti di ebrei tedeschi. – In
questo modo dal “capitalismo ebraico” si sviluppò un “imperialismo ebraico” (Dickel), che è stato descritto
proprio da un ebreo, Disraeli, nel suo romazo “Tancred” (1877). Schmitz riproduce una conversazione, tratta
da questo romanzo, nella quale un inglese parla con un’ebrea della Palestina; essa domanda a Tancred che
cosa sia più apprezzato in Europa, e quello deve rispondere: “L’oro”. E quando lei chiede: “E il più grande
possessore d’oro, è forse un cristiano?” – “Penso che sia invece della tua razza e della tua religione”,
risponde Tancred. “Chi è l’uomo più ricco a Parigi?” – “Penso che sia il fratello dell’uomo più ricco a
Londra.” – “Conosco personalmente Vienna”, dice sorridendo la ragazza, “là Cesare fa gli uomini della mia
stirpe baroni del regno, e non può fare a meno perché senza di loro cadrebbe a pezzi in una settimana” (1).
Questo resoconto, fatto da un uomo di stato dell’esperienza di Disraeli, conferma le ricerche economiche di
Werner Sombart (Die Juden und das Wirtschaftsleben [Gli ebrei e la vita economica]): “Essi divennero i
padroni del denaro, e attraverso il denaro, che fecero loro servitore, anche padroni del mondo”. Sombart
afferma che “gli ebrei sono partecipi dei ‘benefici’ dell’educazione superiore molto più dei cristiani” (2), e
questo in ragione della loro maggiore ricchezza media. Egli menziona anche le avvisaglie della loro
incredibile influenza politica già prima della guerra: “In Francia, su 84 prefetture, 21 erano in mano loro. In
Germania, essi pranzano con cucchiai d’oro alla tavola del Kaiser” (cit., p. 36). La guerra ha rafforzato
considerevolmente la potenza del capitale ebraico per prestiti; mentre il ruolo decisivo degli ebrei nel
bolscevismo, in Russia e in altre terre, è stato descritto in diverse occasioni sia da autori ebrei che non-ebrei.
Questa posizione dell’ebraicità sarebbe stata difficilmente raggiunta senza il controllo della stampa, mentre
non avrebbe potuto raggiungere il controllo della stampa e dei servizi d’informazione senza la ricchezza. La
cosiddetta opinione pubblica, oggi dappertutto viene indirizzata dalla stampa e dai servizi d’informazione. A
questo riguardo, l’autore ebreo Junius, già nel 1910, aveva detto che la posizione dell’ebraicità è del tutto
unica: “Gli ebrei si agitano in ogni cellula della nazione con una vivacità e un’effervescenza tali che già si
sente parlare di un rinascimento ebraico. Tutto va bene per loro, e non solo negli affari …” … “Non c’è
praticamente alcun scomparto della vita nazionale nel quale non si nasconda un qualche elemento ebreo.
Non c’è quasi alcuna decisione importante che sia estranea agli ebrei.” … “L’ebreo, nella sua qualità di
grande banchiere, grande commerciante, grande armatore, non è ancora il politico ufficiale, per lo meno in
uno stato ancora manovrato da funzionari; ma dietro le quinte egli è sempre attivo e irrinunciabile. Egli è
il burattinaio e l’attore, mentre per i gesti grandiloquenti è furbo abbastanza per lasciarli ad altri. E siccome
l’ebreo è incistito in profondità nel mondo capitalista, si fa sentire nei luoghi più alti ed eccelsi attraverso
von Ballin, Rathenau, Fürstenberg. È così che il barone Ernest Cassel può fare la storia mondiale e che, in
Italia, Sonnino e Luzzatti poterono diventare ministro delle finanze e ministro alla presidenza” (1).
Disraeli (”Coningsby”, 1844), aveva descritto la potenza mondiale degli ebrei con parole analoghe: “Il
mondo è governato da uomini molto diversi da quanto credono coloro che non sanno cosa succede dietro le
quinte”. Egli presupponeva addirittura che i moti del 1848 in Germania fossero stati innescati “dalle
manovre dell’ebreo” (Coninsby). (Come si vede non è poi così necessario ricorrere a documenti, veri o falsi
non importa, come i famosi “Protocolli dei Savi anziani di Sion”, sono gli stessi ebrei, e al massimo livello,
che li confermano ufficialmente. Ndr)
Dovrebbe essere chiaro come la potenza politico-finanziaria degli ebrei, anche soltanto attraverso il loro
controllo della stampa, abbia un influsso determinante sulla vita intellettuale complessiva dell’Occidente.
L’autore ebreo Goldstein ha descritto questa situazione con speciale riferimento alla Germania: “In tutte le
posizioni dalle quali non vengono tenuti lontani per forza, improvvisamente troviamo ebrei; i compiti dei
tedeschi sono stati assunti da ebrei; si è sempre più sotto l’impressione che la vita culturale dei tedeschi
debba finire in mano ebraiche.” … “Noi ebrei amministriamo la proprietà spirituale di un popolo che pure ci
nega il diritto e la facoltà di farlo. Questo fatto incredibile, formulato in modo tanto tagliente, che fa ribollire
il sangue sia agli ebrei che ai non-ebrei, richiede necessariamente che vi si pongano limitazioni. Questo
conflitto deve essere risolto in qualche modo.” … “Nessuno può mettere seriamente in dubbio il controllo
che gli ebrei esercitano sulla stampa. Soprattutto la critica, almeno nella stampa influente delle grandi città,
sta diventando un monopolio ebraico. Conosciuto è il predominio degli elementi ebraici nel teatro; quasi
tutti i direttori dei teatri a Berlino sono ebrei. Nei medesimi teatri un’alta percentuale degli attori, se non la
maggioranza, sono ebrei; mentre se non ci fosse un pubblico ebraico né teatri né sale da concerto potrebbero
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sopravivere – un fatto, questo, del quale c’è chi si gloria e anche chi si lagna. Sembra che perfino la scienza
letteraria tedesca sia in procinto di cadere in mani ebraiche. Noi non predichiamo più una ‘confessione
religiosa mosaica’ ma crediamo in un popolo ebraico, caratterizzato da tratti innati incancellabili” (1).
Se queste parole dovessero sembrare le esagerazioni di un ebreo particolarmente orgoglioso della
posizione di potenza raggiunta dell’ebraicità, ci si riferisca ad una constatazione di Sombart che conferma
tutto quanto è stato detto da Goldmann: “È inutile dire che [gli ebrei] hanno in mano il nostro mercato
artistico e musicale e il nostro teatro, nonché la nostra stampa, se non al completo almeno in modo
sostanziale; anzi, si può dire che vi esercitano un influsso decisivo” (2). -
Dal punto di vista ebraico, Goldmann ha affermato in modo particolarmente incisivo quale sia l’influsso
ebraico nello spirito tedesco: “Nessun popolo europeo è stato, negli ultimi secoli, tanto penetrato dallo
spirito ebraico quanto quello tedesco” (3).
Si può riconoscere un’influsso decisivo, anzi il completo dominio dello spirito ebraico nell’espressionismo
artistico internazionale, sia dalla parte propriamente artistica e del mestiere artistico, che da quella del
commercio delle opere d’arte. L’anima razziale levantina, caratterizzata da una forte abilità nel penetrare la
psiche altrui (cfr. più sopra), sembra trovare nell’espressionismo il suo modo di manifestazione più
appropriato. Berl ha documentato la predominanza ebraica nell’arte espressionistica: in primo piano sono, in
Russia, Kandinsky, Chagall, Segall e Steinhardt; in Francia, Picasso e Simon Levy; in Germania, Pechstein,
Meidner e Feininger (4).
Nel campo cattolico, l’influsso ebraico fu decritto come fattore di corruzione per i popoli occidentali da
Paul Keppler, che più tardi divenne uno dei principali vescovi in Germania, in quanto gli ebrei “stanno fra i
popoli cristiani come un punteruolo nella carne, essi succhiano loro il sangue, li incatenano con le catene
dorate dei milioni e con lo scettro cavo di penne intinte nel veleno, e avvelenano la morale e l’educazione
pubblica gettandovi dentro sostanze ripugnanti e putrefatte” (1). Da queste parole, e da quanto è stato detto
più sopra, diventa chiaro che anche l’influsso dello spirito ebraico ha contribuito all’insorgere di un
“problema ebraico”, per quanto tanti, sia ebrei che non-ebrei, si intestardiscono a negarlo.
Al mantenimento e all’incremento dell’influsso ebraico servono diverse associazioni internazionali di vasta
portata come, per esempio, la Alliance Israélite Universelle [Alleanza israelita universale], l’United Order
Bnai Brith [Ordine unito Bnai Brith] e altre; e, da parte ebraica, la Massoneria è stata recentemente
dichiarata un’”istituzione ebraica (Jewish institution)” (2). Lo “stretto legame fra massoneria ed ebraicità” in
Francia è stato confermato, in base alle sue esperienze, da Erzberger (”Erinnerungen [Ricordi]“, 1920, p.
145). Egli assicura che i dirigenti dell’Alliance Israélite sono essenzialmente gli stessi che dirigono il
Grande Oriente di Parigi.
Importantissima per gli ebrei è la loro presenza massiccia fra gli insegnanti delle scuole superiori
occidentali. Lì vi sono, in media, molti più ebrei di quanti dovrebbe essere in base alla loro percentuale nella
popolazione totale. Secondo Segall, a partire dal 1875, la presenza di insegnati ebrei nelle scuole tedesche è
aumentata molto più in fretta di quella degli insegnati non-ebrei (3).
Nell’università di Vienna, circa il 40% degli insegnati sono ebrei. Di particolare importanza sono gli ebrei
che accupano cattedre di teologia e posizioni dirigenziali all’interno delle diverse chiese cristiane e in tante
altre sette sparse per il mondo. Von Luschan parla “dell’alta percentuale di nomi est-ebraici” presenti “negli
elenchi di vescovi inglesi e fra i più quotati oratori della chiesa anglicana” (4).
Una delle ragioni per le quali lo spirito ebraico ha potuto affermarsi e diffondersi così facilmente in
Occidente, è che gli insegnamenti e le prese di posizione delle chiese cristiane hanno sostenuto quel “grande
inganno” che Delitzsch (cfr. il cap. IV) ha smascherato con particolare precisione: e cioé che l’idea che di
Dio aveva il galileo Gesù di Nazaret, dalla quale deriva quella che è venuta poi a prevalere in Occidente, sia
una continuazione o una rielaborazione dell’idea ebraica di Geova. L’opera di uno storico profondo quanto
Eduard Meyer, “Ursprung und Anfänge des Christentums [Origine e inizi del cristianesimo]” (1921 – 1925)
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dimostra comunque quanto sia storicamente falsa l’opinione popolare e chiesastica secondo la quale la
radice del cristianesimo starebbe nel giudaismo (1). La seguente citazione, tratta dal settimanale evangelico
“Aus Licht und Leben” di Elberfeld (N. 22, 1921), dà un’idea di quanto forte sia il legame fra la fede
cristiana e l’ebraicità, nonostante ogni evidenza storica in senso contrario: “Israele è l’unico popolo eletto da
Dio, e rimane tale nonostante la sua ostinazione; le elargizioni e la voce di Dio non riescono a farlo pentire;
ma, dopo la sua conversione, Israele, quale vero signore delle nazioni della Terra, presiederà su di loro. Tutti
gli altri popoli rimangono ‘pagani’, per Dio essi sono come gocce nel secchio, come l’obolo sulla bilancia.
Egli può frantumarli come il vasaio frantuma un vaso mal riuscito”. Simili deliranti espressioni non possono
essere che conseguenza di quel “grande inganno” (Delitzsch), secondo il quale le “elargizioni e la voce” di
Geova avrebbero alcunché a che vedere con la volontà di un Dio immaginato in senso cristiano e
occidentale. Anche se il cristianesimo fin dai suoi inizi ha dimostrato uno spirito medio-orientale (anche se
non proprio ebraico), Erbt (”Jesus, der Heiland aus nordischem Blute und Mute [Gesù, il salvatore di sangue
e carattere nordico]“, 1926), gli attribuisce invece un carattere nordico. l’etnologia deve ancora dare una
spiegazione “al grande errore storico che fece l’Europa debitrice al giudaismo del suo monoteismo e del suo
cristianesimo” (2). Ma nonostante tutto, le dottrine delle chiese cristiane dell’Occidente sono state un
importante aiuto a che lo spirito ebraico potesse infiltrarsi in Occidente (1). Il fatto è che le varie dottrine
chiesastiche DEBILITANO lo spirito occidentale, mettendolo in grave svantaggio nella sua lotta
ancestrale, ancora in atto, contro quello del Medio Oriente e, in particolare, contro l’ebraismo.
Attraverso il controllo della stampa e delle agenzie d’informazione gli ebrei ormai non hanno grandi
difficoltà nell’orientare l’opinione pubblica attuale [Zeitgeist] secondo ciò che a loro è più conveniente – cioé
in modo da allontanare la vita culturale delle popolazioni occidentali dalle loro radici per indirizzarla verso
quei “valori” validi per gli ebrei. In questo modo l’ebraicità ha contribuito ad iniettare e a rendere egemone
lo “spirito della modernità” nella vita di quei popoli sui quali si può influire attraverso la stampa. Otto
Weininger (ebreo), grande osservatore dello spirito moderno, arriva ad affermare che “non importa da
quale angolo lo si osservi, lo spirito della modernità è ebraico” (2). Il già citato Goldstein (cit.) dice, a
proposito della vita culturale tedesca, “La cultura tedesca è, in buona parte, cultura ebraica”. Riguardo alla
cultura occidentale nel suo insieme, Lenz ha notato un caratteristico amalgama fra tratti occidentali e tratti
ebraici: “Lo spirito ebraico, assieme a quello germanico, è la forza motrice principale della cultura
occidentale moderna” (3).
Da questi fatti risulta senz’altro l’esistenza di un “problema ebraico”, e chi osserva attentamente si accorge
subito che il nocciolo di questo problema non è la strapotenza economica raggiunta dagli ebrei – chi vedesse
le cose solo sotto questo punto di vista potrebbe essere facilmente vittima dell’”invidia della classe dei
non-possidenti”, cioé del risentimento (4). Il nocciolo del problema sta nel fatto che gli ebrei, usando
come strumento il loro strapotere economico e politico, esercitano il loro influsso sulla DIVERSA qualità
psichica dei popoli occidentali.
Se gli ebrei si fossero accontentati di essere semplicemente i più ricchi fra i ricchi nelle società
occidentali, il problema ebraico sarebbe molto relativo, perché la ricchezza, di per sé, può dare fastidio solo
agli invidiosi. Il problema ebraico sarebbe anche meno importante e bruciante se non si trattasse d’altro che
della problematica di certi connubi misti, in quanto, in confronto alla totalità della popolazione occidentale,
essi non sono ancora tanto numerosi da minacciare gli appartenenti alle razze europee. Ciò che invece rende
il problema ebraico così acuto nei nostri tempi è l’influsso ebraico sullo spirito dei popoli occidentali, contro
il quale lo spirito europeo si può difendere solo debolmente perché manca sia dei mezzi finanziari che dei
servizi della stampa nonchè della diffusione delle informazioni, mezzi che sono completamente al servizio
del capitale bancario ebraico. Anche secondo Haberlandt, il nocciolo del problema ebraico sta appunto
nell’influenza dello spirito ebraico su quello occidentale: “perché qui si tratta di una indisturbata
interferenza nello sviluppo del più alto portatore di cultura al mondo il quale, attraverso un continuo
processo di amalgama con questi missionari venuti dall’Oriente, rischia di abbandonare,
somaticamente e psicologicamente, quelle vie che egli, con il suo genio, aveva aperto” (1).
115
È certo difficile poter dimostrare che i valori culturali originati in Occidente dagli uomini più dotati sono,
come vorrebbe Haberlandt, i “più alti” di tutta l’”umanità”, in quanto non esiste un metro di misura culturale
che valga per tutti i popoli e tutte le razze. Ma comunque possiamo essere sicuri di qualcosa: e cioé che
questi valori – sviluppati in Occidente (Inghilterra, Francia, Germania, ecc.) in un ambiente
psicologicamente sano – devono essere i più alti PER OGNI OCCIDENTALE NORMALE, il quale ha il
dovere di difenderli contro la disintegrazione dovuta ad una infiltrazione straniera.
L’infiltrazioni culturale ebraica, ora fortissima, comporta certamente il pericolo di snaturare in modo
radicale lo spirito dell’Occidente nel suo complesso.
c) La radice dell’”antisemitismo”
Abbiamo già detto che questa designazione – usata per la prima volta pubblicamente da Wilhelm Marr (cfr.
più sopra) è stata scelta male. Un’espressione certamente migliore, che noi useremo spesso in seguito, può
essere: “inimicizia verso gli ebrei”.
L’inimicizia verso gli ebrei è documentata già a partire dalla diaspora ebraica nei secoli precristiani. Beer
vede nell’”antisemitismo” del mondo ellenistico una reazione alla “penetrazione strepitosa degli ebrei nel
mondo culturale greco” (1); ma esso comunque era già stato preceduto “dall’antisemitismo” egiziano,
babilonese e persiano. Willrich (Die Anfänge des Antisemitismus, 1922 [2]) ha messo insieme i giudizi
che scrittori greci e romani avevano espresso a proposito degli ebrei dilaganti; questi giudizi dimostrano
senza dubbio un crescente “antisemitismo”. La causa principale era l’intolleranza della fede in Geova, che
negava radicalmente gli dei degli altri popoli e qualificava quei popoli stessi come “impuri” e il loro contatto
come “contaminante”. Qualche indicazione sulla grande ricchezza degli ebrei affiora occasionalmente negli
scrittori dell’Impero Romano; ma esse rappresentano soltanto UNA delle espressioni di antipatia e NON la
causa di quell’antipatia. Questa era vista sempre nel comportamento arrogante di una minoranza
estranea e influente, che si teneva rigidamente separata da tutti gli altri.
Con la vittoria politica del cristianesimo nel secolo IV, l’inimicizia verso gli ebrei assunse, un poco alla
volta, i tratti di una inimicizia religiosa: sia l’ebraismo che il cristianesimo infatti sono improntati
dall’intolleranza religiosa medio-orientale; come successivamente è avvenuto anche per l’islam, sia pure in
misura minore. A queste cause “religiose” (nel senso specifico che la “religione” può avere nel Medio
Oriente) di dissidio fra ebrei e non-ebrei si aggiunse, verso l’XI secolo, anche un fatto economico come la
pratica dell’usura. Si ricordi che “i popoli occidentali erano immersi in un’economia agraria di tipo
comunitario, mentre gli ebrei praticavano un’economia individualistica e capitalistica ereditata dalla fine
del mondo antico, per cui esercitavano, considerandole giuste, certe attività che gli occidentali invece
consideravano ingiuste (interesse sul denaro, cambio di valute, traffico di azioni, speculazioni boesistiche,
ecc.)”. Così sta scritto nel “Jüdische Lexikon [Dizionario ebraico]” (vol. I, 1927, sotto la voce
“Antisemitismus [antisemitismo]“). Si potrebbe aggiungere che l’inimicizia economica verso gli ebrei, a
partire dal’inizio del Medioevo, non nasceva soltanto dal fatto che praticassero un’economia individualistica
e capitalistica, ma dal modo con cui la praticavano, come dimostra Sombart (Die Juden und das
Wirtschaftsleben, 1927).
Già nel secolo IV diversi “padri della chiesa” avevano denunciato la rapacità ebraica; e dal secolo XII gli
ebrei furono accusati di praticare l’usura. Il diritto canonico della chiesa medioevale proibiva i matrimoni
misti ebraico-cristiani, proibiva agli ebrei di avere servitù cristiana e di ricoprire incarichi pubblici e
proibiva ai cristiani di servirsi di medici ebrei, di coabitare con ebrei e di appaltare case o mercanzie ad
ebrei. Al tempo della Riforma, c’era un diffuso antiebraismo sia fra i cattolici che fra i protestanti, nonché
fra un grande numero di umanisti. La rivoluzione francese portò, prima in Francia e poi nel resto
dell’Europa, alla parificazione degli ebrei con i cittadini di quegli stati dove essi dimoravano – una
parificazione che, contro la volontà della maggior parte delle popolazioni occidentali (ci si ricordi di quanto
Goethe ebbe a dire al riguardo [1]), fu portata a termine, tra la prima e la terza parte del secolo XIX, in tutti
gli stati dell’Occidente. Quello fu il tempo della cosiddetta emancipazione degli ebrei. L’antiebraismo
continuò, debolmente, fino alla metà del secolo XIX, per diventare, negli anni che seguirono la fine della
116
guerra mondiale (quella del 14/18 ovviamente ndt), di nuovo “bruciante”; e questo, in forza di tutti quei fatti
che accompagnarono sia la guerra che il dopoguerra e che, per la prima volta dalla caduta dell’Impero
Romano, resero il “problema ebraico” un problema di attualità univesale. Il libro di Scheffers, valido sia dal
punto di vista economico che da quello razziologico, “Das Siegeszug des Leihkapitals [La marcia trionfale
del capitale bancario]” (1924) dimostra come, sia economicamente che politicamente, ad ogni effetto
pratico il problema ebraico coincide sempre con quello del capitale bancario internazionale.
Ma a partire da de Gobineau e Chamberlain, da Ammon e de Lapouge, da Wilser, Woltmann, Henschel e
tanti altri, soprattutto alla svolta del secolo, il problema ebraico è stato allontanato dai suoi aspetti
economici e religiosi per diventare un problema eminentemente razziale ed etnico (1).
Agli inizi del secolo (il XX ndt), la trattazione scientifica delle fenomenologie etniche, ma soprattutto di
quelle razziali, ha subito notevoli approfondimenti, dovuti ai lavori di Mendel, Galton, Schallmayer e
Ploetz; approfondimenti che si sono appoggiati sull’incredibile arricchimento della scienza dell’ereditarietà.
Anche i nemici degli ebrei, in misura crescente, basarono i loro argomenti sui risultati della scienza
dell’ereditarietà e della razziologia. Divenne chiaro allora che il problema ebraico non è né un problema
religioso né un problema economico, ma un problema razziale.
Esso, oggi, non può assolutamente essere trattato come un problema religioso, e questo semplicemente
perchè, nell’Occidente moderno, l’aderire ad una qualsiasi confessione religiosa non costituisce più un
“problema”. Le epoche delle guerre di religione, in Occidente, hanno lasciato il posto da molto tempo ad una
nuova epoca nella quale l’appartenenza religiosa è di ben scarsa importanza nel confronto reale, sia per
credenti che per non-credenti, con lo spirito materialistico e ateo (almeno a voler dare meno importanza
all’adesione formale ad una data religione che ai moventi e alle azioni degli uomini). Perciò, nel discutere il
problema ebraico, il riferimento a Lessing (”Nathan den Weisen [Nathan il saggio]“) diventa inappropriato e
superato, come è stato indicato da Sombart: “Oggigiorno, quando leggiamo Nathan den Weisen, non
riusciamo a capire bene come mai tutti i personaggi si occupino soltanto delle diverse religioni e del loro
valore relativo e a nessuno venga in mente di domandarsi quale fosse il sangue di Recha e dei Cavalieri
Templari; il fatto è che qui furono i diversi meticciati ad innescare, necessariamente, tutti i reali
conflitti” (2). Ma già ai tempi di Lessing molti ebrei influenti, seguendo la moda dell’”illuminismo”,
avevano lasciato la religione mosaica, per cui già allora era sterile voler trattare il problema ebraico come un
problema religioso. I battesimi di ebrei, sempre più numerosi nel secolo XIX, vanno visti solo in infima
parte come fatti propriamente religiosi, e ancora meno al giorno d’oggi: questo è confermato dalla
Encyclopaedia Judaica [Enciclopedia giudaica], citata più sopra. Heinrich Heine (Chaim Bückeburg), che si
fece battezzare, scrisse: “Il certificato di battesimo è il biglietto d’entrata nella cultura europea” (1); e rimase
sempre fedele alla sua appartenenza etnica ebraica (cfr. nota 1, p. 16). Ma trascorso il secolo XIX, il
problema della confessione religiosa divenne tanto poco importante che l’”entrata nella cultura europea” non
divenne difficile neppure per gli ebrei di fede mosaica – salvo che nel corpo degli ufficiali prussiani, dove
erano accettati solo se battezzati.
Avendo stabilito che i problemi politico-economici e quelli religiosi non sono altro che forme particolari
in cui l’inimicizia verso gli ebrei si manifesta, vale la pena domandarsi quale sia la sua vera natura. Quindi,
qual’è la radice dell’”antisemitismo”. Il “Jüdische Lexikon [Dizionario giudaico]” (vol. I, 1927, sotto la voce
“Antisemitismus [antisemitismo]“) dà una risposta che, in termini approssimativi, può anche essere
accettata: “La radice dell’antisemitismo sta senza dubbio nella tendenza di tutti i popoli dotati di una
identità, di impedire la penetrazione di ciò che è estraneo, consolidando ciò che è proprio attraverso il
rispetto, e allontanando l’estraneo tanto da rendendolo innocuo per la propria identità”.
Il nocciolo del problema ebraico sta dunque nello snaturamento dei popoli occidentali attraverso
l’azione di una ebraicità eccessivamente potente per il suo predomino politico-economica. La difesa
contro il pericolo che provene da quello snaturamento è alla radice dell’”antisemitismo”; così come sostiene
il “Jüdische Lexikon”. “Non vogliamo che la nostra millenaria cultura germanica venga sostituita da una
cultura mista germanico-ebraica”; e questa era l’opinione di Heinrich v. Treitschke, che si espresse in questo
stesso modo nel 1880 sulla condizione della cultura tedesca (2). In modo del tutto analogo, il moderno
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sionismo, sul quale si dirà subito una parola, non vuole che ad una cultura ebraica, vecchia di secoli, segua
una cultura mista ebraico-occidentale.
È interessante il fatto che all’interno di molti popoli tutta una serie di persone di alto e anche di altissimo
livello intellettuale si sono sempre espresse contro l’influsso ebraico, e come al riguardo si trovino
esattamente d’accordo Cicerone, Giovenale, Quintiliano, Seneca, Maometto, Pietro di Cluny, Lutero (e
anche il suo arcinemico Eck – ambedue comunque appartenenti a un’epoca apertamente antigiudaica),
Giordano Bruno, Federico il Grande, Napoleone I, Pestalozzi, Tieck, Victor Hugo, Bismarck, Treitschke,
ecc. Il brillante filosofo ebreo Otto Weininger, spiega l’antiebraismo nel modo seguente (citando a suo
appoggio altri nomi illustri): “Il fatto che tanti uomini illustri siano stati antesimiti (Tacito, Pascal, Voltaire,
Herder, Goethe, Kant, Jean Paul, Schopenhauer, Grillparzer, Wagner) è spiegabile con la loro intelligenza
superiore che gli ha fatto capire che cosa veramente fosse l’ebraicità” (1). Quando si considerino simili
persone, risulta che in nessun caso si può sospettare che le loro dichiarazioni antiebraiche possano essere
state determinate da problematiche religiose, o da intolleranza su fatti religiosi o economici (e, in
particolare, dall’”invidia della classe nullateneti”); mentre è certo che la radice della loro inimicizia va
cercata proprio nelle ragioni date dal “Jüdische Lexikon”. Renàn, in una occasione, con riferimento all’odio
verso gli ebrei ai tempi dell’Impero Romano, si espresse così: “L’odio e il disprezzo verso gli ebrei sono
caratteristici di tutti gli spiriti superiori [de tous les esprits cultivés]” (2). Il fatto che una serie di spiriti
così dotati e creativi di tutti i popoli, compresa una certa consistenza numerica di ebrei, si siano dichiarati
contrari all’influsso dello spirito ebraico, deve necessariamente essere legato al senso di responsabilità che
sentivano verso la conservazione della propria cultura; senso caratteristico di tutti gli uomini superiori.
Temevano solo lo snaturamento del proprio popolo.
“Noi desideriamo sinceramente che questa innaturale mescolanza possa avere una fine, per il bene di
tutti”. Così Sombart – che pure voleva che l’ebraicità si affermasse come fatto etnico – ha descritto la
situazione attuale. Una caratteristica di questa situazione è che anche un simile tipo di proposta, che
annullerebbe il “problema ebraico”, viene vista da parecchi ebrei come una forma di “antisemitismo” e come
un’esteriorizzazione di una mentalità intollerante e maligna. Secondo loro, affermare che esiste un
“problema ebraico” ne è un ulteriore aspetto; e questa affermazione costituisce, secondo la parte più
influente dell’ebraicità, un’espressione della mentalità “antisemita”.
Questi stessi ebrei sostengono volentieri che l’”antisemitismo” sarebbe una creazione artificiale di certe
cerchie o di certe persone motivate solo da scopi egoistici, oppure il risultato di “bassi istinti”, o
l’espressione di tendenze aleatorie di corta durata in una psicosi collettiva senza senso. Gli scopi egoistici, i
“bassi istinti”, le psicosi collettive, possono anche avere rappresentato la loro parte, in tutti i luoghi e in tutti
i tempi nei quali si arrivò all’inimicizia verso gli ebrei, ma non furono mai la causa dell’inimicizia stessa.
Questo è stato chiarito proprio dallo scrittore ebreo Fromer quando, a chi faceva affermazioni del genere,
rispose: “Voi dite che questa circostanza è stata creata artificialmente da alcune persone o da alcune correnti
di pensiero, e che quindi essa scomparirà non appena queste persone e correnti scompariranno. Ma come
spiegate che questo odio – aperto o latente – è presente e crescente in tutte le terre dove siete presenti?
e come spiegate l’innegabile fatto che sempre e dappertutto dove voi siete venuti in contatto con altri
popoli questo odio è invariabilmente insorto, anche se sotto nomi, apparenze e forme diverse?” (1).
L’estraneità razziale degli ebrei in Occidente è sempre stata la causa della reciproca avversione fra loro e
la popolazione ospitante; e questa avversione, fra gli ebrei ortodossi, è stata sempre predicata come un
comandamento di Geova, mentre fra i non-ebrei si è trasformata in “antisemitismo”. La necessaria
mancanza di comprensione fra due composti razziali diversi – ebrei e genti occidentali – genera per forza
un’avversione reciproca. Si è già menzionato come Cheskel Zwi Klötzel parla dell’”odio grande e sublime”
degli ebrei verso i non-ebrei e di come ogni non-ebreo “in qualche angolo nacosto del suo cuore” è
“antisemita”. E a Cheskel Zwi Klötzen dovranno probabilmente dare ragione tanti che hanno avuto
l’esperienza di come molti non-ebrei, in tutto l’Occidente, che pure dichiarano di avere “convinzioni”
assolutamente non-”antisemite”, quando sentono parlare di certi ebrei o anche di certi comportamenti
collettivi ebraici, senza volerlo scoprono quell’”angolo nascosto del loro cuore” denunciato da Cheskel Zwi
118
Klötzel. Si può affermare che, fra due gruppi razzialmente tanto disparati come gli ebrei e gli occidentali, i
rapporti di amicizia ci potranno anche essere fra individui singoli, ma mai collettivi, come è dimostrato dalla
storia universale; e l’”antisemitismo” è un fenomeno collettivo, come è stato validamente indicato da F.
Bernstein (1).
Ma quando F. Bernstein dice che l’”antisemitismo” sarebbe la conseguenza “di istinti malsani e sfortunati,
ancorati negli abissi della natura umana, spesso soppressi per forza e che pure riaffiorano continuamente per
cause naturali” (cit. p. 222) egli non coglie l’essenziale; né dà importanza al fatto che tanti ebrei si rendono
conto che l’avversione è reciproca. Non si tratta di “istinti malsani e sfortunati”, ma di forze animiche
razziali – forze che, lo insegna la storia, hanno aspetti sia sublimi che tenebrosi. Queste forze attualizzano
questo tipo di inimicizie; inimicizie “che traggono la loro forza dalla natura”, come ammette lo stesso
Bernstein. Egli non ha capito assolutamente il significato dell’anima razziale, perciò le varie considerazioni
che fa nel suo libro hanno tutte l’aspetto di fantasticherie e “costruzioni”.
L’inimicizia verso gli ebrei, nei limiti in cui può essere vista come una manifestazione del mondo animico,
proviene dalla preoccupazione che si ha per lo sviluppo libero della propria intrinseca natura .Per i
tedeschi, se vogliono il rinnovamento della cultura tedesca, deve valere lo stesso che vale per gli ebrei se
vogliono il rinnovamento della cultura ebraica. Come nei versi di Goethe:
“Ciò che non vi è proprio,
dovete evitarlo;
ciò che vi disturba interiormente,
NON dovete tollerarlo.”
Tutte le culture si basano sull’autocontenimento e sull’attenzione che viene data alle proprie capacità
creative. Per un popolo che non abbia ancora rinunciato allo sviluppo del proprio spirito non c’è bisogno di
alcuna artificiale macchinazione, perché possa difendersi dagli influssi stranieri i quali, come nel caso di
quelli ebraici, sono resi possibili e dirompenti solo dallo strapotere economico e politico degli ebrei.
L’inimicizia verso gli ebrei e il millenario comandamento ebreo di odiare tutto ciò che non è ebreo
sono entrambi fenomeni di psicologia razziale collettiva nella storia dell’Occidente. Il “problema
ebraico” infatti è fondamentalmente un problema razziale.
L’estraneità degli ebrei in un ambiente dalla diversa composizione razziale è stata affermata spesso dagli
stessi ebrei. Michelsohn (”Israelitischen Familienblatt”, N. 7 del 17 febbraio 1921) ha addirittura messo in
dubbio che un non-ebreo possa capire la struttura psicologica degli ebrei: “L’esperienza ci insegna che una
vera analisi psicoanalitica di un ebreo da parte di un medico non-ebreo non ha luogo se non molto raramente
e per ragioni sulle quali qui non ci si può dilungare”. – E Michelsohn prosegue dicendo che “agli ebrei
nervosi o affetti da patologie umorali è indispensabile che il trattamento provenga da un medico ebreo”.
L’impossibilità di capirsi, fra ebrei e non-ebrei, viene continuamente alla luce quando si tratta di campi di
attività umana che non si limitano a relazioni superficiali fra uomini e cose; e questo è, in Europa, tanto più
accentuato quanto più i non-ebrei in questione sono razzialmente lontani dalle genti dell’Europa meridionale
e orientale e del Medio Oriente. Dal punto di vista razziologico è significativo che antipatie istintive fra
individui, e ancor più fra gruppi, insorgono, e sono insorte, non solo fra ebrei e genti occidentali, ma anche
fra occidentali e vasti strati della popolazione egiziana, siriaca e microasiatica-neogreca. Gli elleni vedevano
nei fenici degli “emeriti furfanti” (Odissea XV, 416). Fra i cristiani medio-orientali, e in particolare quelli
della stirpe dei “levantini” (1), e gli occidentali, esiste un’avversione molto simile a quella che c’è fra
occidentali ed ebrei. Se ne può dedurre che un senso innato di estraneità razziale è sempre attivo quando
genti occidentali vengono a contatto con genti prevalentemente levantine. Interessante il fatto che
l’”antisemitismo”, che è sempre tanto più forte quanto più numerosi sono gli ebrei che coabitano con un dato
popolo ocidentale ospitante, è normalmente meno accentuato verso gli ebrei meridionali (sefarditi) che verso
gli ebrei orientali (aschenazi). La razza orientalide, predominante nei sefarditi, è percepita dalla generalità
degli occidentali come meno estranea di quella levantina, predominante negli aschenazi. C’è da credere che
119
ci potrebbe essere anche un “problema siriaco” o un “problema armeno”, se queste popolazioni, con la loro
forte componente levantina, fossero più rappresentate in Europa e in America. Sembrerebbe che a
determinare in massima parte la separazione animica fra occidentali ed ebrei possa essere la loro
componente levantina, mentre le razze orientalide, e anche camitica, in qualche caso presentano per gli
occidentali tratti addirittura simpatici. Se gli ebrei fossero ancora genti tanto prevalentemente orientalidi,
come lo furono i loro antenati del II millennio a.C., il “problema ebraico” avrebbe un altro aspetto con effetti
molto diversi; ma, per quel che riguarda l’ebraicità contemporanea presente in Occidente, vale l’affermazione
che “il nocciolo dell’anima ebraica è plasmato essenzialmente dai tratti levantini” (1).
Quegli “antisemiti” che cercano di dimostrare una qualche “inferiorità” razziale degli ebrei, possono solo
difficilmente appoggiarsi alla scienza dell’ereditarietà umana e della razziologia, in quanto è
impossibile sviluppare un qualsiasi riferimento utilizzabile per giudicare tutti i popoli e tutte le razze.
Certo, fra gli ebrei alcuni tratti ereditari patologici – classificati come segno di “inferiorità” della scienza
dell’eugenetica e dell’igiene razziale – si sono accumulati più che in qualsiasi altro popolo, ma questa loro
“inferiorità” difficilmante può essere confrontata con le “inferiorità” di altri popoli, determinate da un
diverso insieme di tratti ereditari patologici.
Quindi, il nocciolo del “problema ebraico” non sta in una reale o presunta “inferiorità” del misto razziale
ebraico, ma solo nel fatto che esso è diverso, soprattuttto nei suoi tratti psicologici, dai misti razziali
propri delle popolazioni occidentali.
L’acuirsi delle contrapposizioni occidentali-ebraiche è continuamente accelerato dall’immigrazione di ebrei
orientali. Dall’osservazione della mappa della distribuzione degli ebrei in Europa (mappa V), già Ripley
aveva concluso che “sulla Germania si affaccia un mare di nuvole minacciose, formate da una popolazione
di ignoranti e miserabili (wretched) che preme contro i suoi confini orientali” (1). Quanto è successo dal
1914 ha reso il problema degli ebrei orientali ancora più acuto. Migliaia di questi ebrei sono emigrati verso
l’Europa centrale e occidentale e verso l’America del Nord, con la conseguenza che anche in Inghilterra e in
America, secondo certi resoconti ebraici, “l’avversione verso certi strati ebraici, che fino ad allora era stata
una modesta pianta da giardino, si è messa a crescere rigogliosamente” (2). Anche certe cerchie israelitiche
hanno chiesto la chiusura delle frontiere orientali contro l’immigrazione di quegli ebrei. C’è stata una
pubblicazione ebraica che ha indicato, con particolare urgenza, il pericolo rappresentato da una simile
immigrazione. Nella mitteilungsblatt nationaldeutscher Juden [Foglio di comunicazioni degli ebrei
nazionalisti tedeschi], N. 7, 1922. Hobrecht, riguardo agli ebrei orientali, dice quanto segue: “Dal loro
punto di vista, questi individui hanno anche ragione quando scuotono dai loro piedi la polvere delle
terre dei pogrom e fuggono nel più tollerante Occidente. Anche le cavallette, dal loro punto di vista,
hanno ragione di divorare i nostri campi sui quali arrivano in nugoli distruttori. Ma ha ancora più
ragione chi difende le sue posizioni e i suoi campi, dai quali trae il suo pane e il suo ristoro. Chi
negherà che essi arrivino a nugoli? Ne vediamo attorno a noi dappertutto. Interi caseggiati, a Berlino,
vanno in mano loro, senza che ai proprietari legittimi venga mai prestata attenzione. Se ne infischiano
dei pagamenti degli affitti, se ne infischiano delle autorità che domandano il pagamento delle tasse e la
manutenzione degli immobili, se ne infischiano soprattutto dei proprietari degli immobili. A loro
interessa soltanto l”oggetto’ che, a seconda delle occasioni, si passano l’un l’altro. Ma non è vero che
siano interessati alle case. A loro interessa tutto ciò che può essere comperato e venduto per denaro”.
“Nessuno sa quanti ebrei orientali ci sono in Germania. Sappiamo soltanto una cosa, e cioé che tutte le
statistiche sono mendaci, siano esse ufficiali o private, e anche quelle delle organizzazioni ebraiche di aiuto
mutuo. La gente di cui parliamo non causa problemi agli addetti agli aiuti sociali. Quasi tutti provengono
dall’Austria germanofona, hanno passaporti legali e sono cittadini austriaci di fede mosaica. Provenienti da
Tarnopol e dintorni, hanno conquistato Vienna e poi, facendo perno su Vienna, hanno conquistato Berlino.
Dopo si dirigeranno verso Parigi e la conquisteranno. Il vuoto che è generato dal collasso del valore del
denaro li risucchia. Dall’Austria si istallano “provvisoriamente” in Germania, con tanto di passaporto
munito di fotografia e visto. Quando il passaporto è scaduto cosa si fa? Possono passare mesi prima che
venga controllato, e intanto – ci vergognamo a dirlo – in una Germania ridotta alla fame ci sono un numero
120
sufficiente di funzionari che chiudono un occhio su queste irregolarità. E dopo che il capofamiglia ha
esplorato l’ambiente, dietro arrivano moglie e figli. E dopo che la famiglia è riunita, essa trova presto
un’abitazione. Invece ci sono famiglie tedesche che per anni non riescono a trovarla. È una disgrazia per
noi quando, ai nostri amici dell’Est, va tutto bene mentre a noi non è permesso protestare”.
“Così, quelli conquistano Berlino, e non solo. In tutti i grossi centri nei quali c’è qualcosa da comperare e da
vendere, troviamo sempre lo stesso spettacolo. Ovunque essi trovano un’organizzazione, formata da
correligionari tedeschi, che facilita la loro stanzialità. Già da diverso tempo esiste un’Associazione di Ebrei
Orientali. Questa associazione, secondo quanto ha dichiarato il dirigente sionista avvocato Klee di Berlino,
ha già deciso di costituirsi ad organizzazione-guida per l’azione combinata delle associazioni galizianepolacche,
russe e degli stati confinanti. Ci si può aspettare senza dubbio che questa associazione-guida
organizzerà prima di tutto la loro immigrazione”.
d) Il futuro biologico-razziale degli ebrei
Il presunto numero degli ebrei vissuti nei tempi passati è già stato menzionato nei capp. IV e VII. Secondo
L. Livi (1) si può calcolare che verso la fine del secolo XV ce ne fossero 1.500.000 e alla fine del secolo
XVIII forse 2.500.000. Nel 1910, i diversi censimenti indicano 12.290.000 ebrei di fede mosaica. Qui, come
al solito, bisogna ricordarsi che i censimenti ufficiali non danno mai il numero totale degli ebrei, ma solo
quello degli ebrei di religione mosaica, quindi le cifre in questione sono sempre più inverificabili quanto più
ci si avvicina al secolo XIX, e quanto più si riferiscono agli ebrei dell’Europa centrale e occidentale. Anche
in Germania, il numero di cittadini tedeschi di etnia e di origine ebraica è sostanzialmente superiore a quello
dei cittadini tedeschi di confessione religiosa mosaica. Il numero di ebrei in Germania può essere calcolato
al doppio di quello degli ebrei di fede mosaica e di nazionalità tedesca. A questi, bisogna aggiungere un
numero relativamente alto di ebrei di nazionalità straniera e – dopo la catastrofe della Russia (per la
“rivoluzione bolscevica” ndt) – di ebrei “apolidi” presenti in Germania.
La tabella che segue dà un’idea della distribuzione mondiale degli ebrei di fede mosaica, secondo i dati di
Lestschinsky:
Numero di abitanti ebrei di fede mosaica:
Luogo Anno Numero % della
assoluto popolazione
totale
[TABELLA A PAG. 328]
Nelle terre in cui abitano, gli ebrei non costituiscono però una componente fissa della popolazione, ma
sono molto più mobili di ogni altro tipo di genti. Quanto è stato appena detto a proposito delle migrazioni
degli ebrei orientali, dà un’idea di questa situazione. Ma anche il resto degli ebrei sono in continuo
movimento, sia pure più o meno rapido. In tutte le terre dell’Occidente le famiglie ebraiche radicate da
vecchia data sono una rarità. Le “Jüdischen Wanderungen im letzten Jahrhundert [Migrazioni ebraiche
dell'ultimo secolo]” sono state documentate da Lestschinsky (1). Ne risulta che, nel secolo XIX, ci fu un
notevole movimento di famiglie ebraiche verso la Francia e l’Inghilterra; e i discendenti di questi immigrati
ora costituiscono la “media e alta borghesia” della Francia e dell’Inghilterra. Negli ultimi anni del secolo
XIX cominciò la migrazione in massa degli ebrei polacchi e russi, in misura preponderante verso l’America e
in minor misura verso l’Europa occidentale. L’opinione di Lestschinsky è che una determinata nazione è
tanto meno attraente per gli ebrei quanto meno è industriazlizzata. Come conseguenza di queste migrazioni
del popolo ebraico nel suo insieme, qualche volta più rapide e qualche volta più lente, la percentuale di ebrei
all’interno di ogni nazione cambia continuamente, come indica la seguente visione d’insieme, dovuta a
Lestschinsky:
121
Continente
Europa
America
Asia
Africa
Australia
Totale
in numero assoluto come % dell’ebraicità totale
1887 1925 1887 1925
8.652.000 9.343.882 83,66 63,03
986.000 4.351.000 9,53 29,32
406.000 662.000 4,00 4,47
282.000 448.500 2,73 3,03
16.000 25.450 0,08 0,15
10.342.000 14.830.832 100,00 100,00
Al giorno d’oggi il principale fenomeno migratorio ebraico è la dispersione degli ebrei dell’Europa
orientale verso tutte le nazioni con una economia monetaria fortemente sviluppata.
Fino al secolo XIX gli ebrei seguivano scrupolosamente il comandamento di “essere fecondi e di
aumentare di numero” e il loro numero, e c’è da credere sia sostanzialmente superiore a quello dei soli ebrei
di fede mosaica, continua comunque ad aumentare in quanto la loro prolificità non è mai di molto inferiore a
quella dei popoli occidentali. Ci si può aspettare che la consistenza numerica dell’ebraicità possa continuare
ad aumentare ancora per qualche tempo; ma l’aumento numerico dell’ebraicità nel suo insieme dipende
essenzialmente dagli ebrei dell’Europa orientale, ancora molto prolifici. Dal punto di vista razziologico
questo significa che la componente orientalide nell’ebraicità diminuisce continuamente, mentre le
componenti levantina, balto-orientale, estide e mongolide aumentano. La componente nordica non
aumenterà in modo apprezzabile, nonostante la preferenza che le viene accordata (si è parlato al cap. VIII
degli annunci ebraici di ricerca matrimoniale), in quanto gli ebrei, per i quali la nordicità è un valore, sono
soprattutto concentrati in quegli strati abbienti, o addirittura ricchi, che hanno una forte tendenza alla
limitazione delle nascite.
Degli ebrei dell’Europa centrale e orientale si può dire, soprattutto quando li si confronta con quelli
dell’Europa orientale, che sono già ora poco prolifici.
Città della Germania con una massima concentrazione di ebrei
di fede mosaica. Numero di israeliti per ogni 1.000 abitanti,
secondo il censimento del 16 giugno 1925
[TABELLA A PAGINA 331]
Presenza di ebrei di fede mosaica a Berlino.
122
Numero di israeliti per ogni 1.000 abitanti.
Totale 42,9
Charlottenburg 88,5
Mitte 104,7
Prenzlauer Berg 62,6
Schöneberg 76,8
Tempelhof 13,5
Tiergarten 56,2
Wilmersdorf 129,9
Zehlendorf 34,2
Alla denatalità contribuiscono, in termini generali, due effetti psicologici: 1. l’abbandono della religione
ancestrale o, meglio ancora, le convinzioni di tipo “liberale” sulla religione; 2. un tenore di vita più alto,
soprattutto se c’è una ricchezza raggiunta rapidamente. Ambedue questi effetti sono riscontrabili quando si
analizzino le cifre sulla natalità dei popoli, delle classi e delle famiglie occidentali, e sono attivi anche per
quel che riguarda l’ebraicità dell’Europa centrale e occidentale. Per chi abbia capacità di analisi, le cifre che
seguono, dovute a Krose (1), sono rivelatrici sia per quel che riguarda l’attaccamento medio alla propria
religione, sia per la condizione economica media:
Numero medio di nascite per matrimonio, in Prussia
1891 – 95 1913
Cattolici 5,16 4,75
Protestanti 4,18 2,93
Ebrei mosaici 3,29 2,22
Cifre più recenti, provenienti da altre regioni, fanno sospettare che non solo la natalità protestante tenda a
parificarsi con quella ebraica, ma anche quella cattolica, ancora più in fretta, tende a parificarsi con quella
protestante. Secondo Theilhaber, nel suo Der Untergang der deutschen Juden [Il declino degli ebrei
tedeschi] (2a. edizione, 1921) – un libro che citeremo spesso – fra il 1820 e il 1830, in Prussia, i matrimoni
ebraici ebbero in media 5,2 figli e fra il 1906 e il 1908 in media 2,4. Nel 1875, in Prussia, per ogni 1000
ebrei ci furono 32 nascite, nel 1910 soltanto 17. Se ne può dedurre che questo è un indicatore della
diminuzione rapida degli ebrei ortodossi e, nel contempo, della montante ricchezza degli ebrei in generale.
Perché un raggruppamento umano possa “sostenersi”, ci vogliono in media 4,1 nascite per
matrimonio.
Theilhaber, sulla base dei suoi calcoli statistici, dipinge un quadro poco rassicurante del futuro degli ebrei
nell’Europa centrale: essi diminuiscono di numero dopo la loro “assimilazione” – cioé: dopo aver indebolito
la loro osservanza religiosa mosaica e il loro senso di appartenenza etnica e aver adottato le mode culturali
dell’ambiente circondante. Diminuiscono di numero anche come conseguenza dei matrimoni misti, sempre
più frequenti, i cui figli – lo si è già visto – generalmente vanno perduti per l’ebraicità. Battesimi, uscite dalla
comunità religiosa mosaica, perdita o indebolimento della consapevolezza razziale, matrimoni misti, sistema
di due figli per coppia, disprezzo per la maternità, vangelo della “vita comoda”, egoismo, aumento del
numero dei suicidi e ideologia capitalistica. Ecco, secondo Theilhaber, le ragioni della decadenza delle stirpi
ebraiche in Occidente. Il numero scarso di nascite illegittime fra gli ebrei, che Wulffen tentò di spiegare in
modo diverso (cfr. cap. VIII), non è attribuito da Theilhaber a una particolare qualità morale delle ebree
nubili, anzi, “i conoscitori affermano che, per esempio, le ragazze ricche di berlino Ovest hanno
123
completamente lasciato da parte l’antica castità” (cit., p. 78). Secondo Theilhaber, gli ebrei occidentali sono
ormai irrecuperabili, tanto più che saranno perseguitati dagli altri ebrei che invece provano tenacemente a
tenere in vita l’etnia ebraica.
Forse Theilhaber era pessimista? Dalle sue cifre risulta in ogni modo, quanto poche siano, in Europa
centrale e occidentale, le famiglie ebraiche di antico radicamento in confronto a quelle di recente
immigrazione provenienti dall’Europa orientale. E’ stato spesso ripetuto che anche in Germania ora non ci
sarebbero quasi più ebrei se, quando il Reich fu fondato nel 1871, le frontiere orientali fosssero state chiuse
all’immigrazione ebraica. L’ebraicità “tedesca”, nel senso di famiglie ebree presenti in Germania da molte
generazioni, consisterebbe di pochissimi individui. Il numero esiguo di questi ebrei, potrebbe essere rivelato
da un censimento delle famigli ebree che, almeno dal 1800, hanno abitato fra le genti di lingua tedesca.
Che il “declino degli ebrei tedeschi” indicato da Theilhaber sia un fatto obiettivo, non può essere discusso,
anche se questo declino non si sta compiendo tanto in fretta, né è accompagnato dalle casistiche descritte da
Theilhaber. Per l’ebraicità nel suo insieme, la questione fondamentale è se gli ebrei orientali potranno
rimpiazzare le perdite che essa subisce nella sua parte occidentale come conseguenza di matrimoni misti e
denatalità. Vale anche l’osservazione che non è detto che gli ebrei orientali di recente immigrazione, una
volta sistemati in Europa occidentale o in America, rimarranno ugualmente ortodossi nella loro fede e
ugualmente prolifici dopo che il rapido miglioramento della loro condizione economica comincerà a dare gli
stessi effetti che ora ha sugli immigrati di più vecchia data. – Non è immaginabile alcun “potere culturale”
che abbia in sè la possibilità di arginare la decadenza di queste stirpi ebraiche con la possibile eccezione
del sionismo.
Quando si analizza lo “spirito moderno” per quel che riguarda i suoi effetti sulla prolificità dei popoli, ci si
accorge subito che esso contribuisce alla denatalità dissolvendo la volontà di avere una discendenza.
Viceversa, non c’è dubbio che sono proprio gli ebrei i principali propagandisti dello “spirito
moderno”; e questo è stato ripetutamente affermato da loro stessi.
Volendo fare un compendio di tutte le dichiarazioni scaturite dallo Zeitgeist [lo spirito dei tempi], che
inneggiano all’individualismo illimitato e a una “vita per sé stessi”; che affermano che le donne hanno il
diritto di “gestire come meglio credono il proprio corpo”; che deridono la maternità o la rendono spregevole;
che predicano il controllo delle nascite; che vorrebbero abolire i castighi penali per l’aborto; e quando inoltre
si volesse fare un compendio di tutte le dichiarazioni che deridono la religione, il patriottismo e la purezza
razziale, quando non predicano apertamente la mancanza di religione e di nazionalità (”sono cittadino del
mondo”) e il rimescolamento di popoli e razze; ci si accorge subito che la stragrande maggioranza di queste
dichiarazioni provengono da scrittori ebrei. Una parte degli ebrei considerano questi incitamenti come diretti
esclusivamente ai non-ebrei, mentre loro continuano a menare una vita improntata dalle vecchie costumanze
ebraiche. Ma la mentalità “individualistica”, nemica della vita, contagia sempre più anche l’ebraicità. La
mentalità “mammonistica”, che inneggia all’individualismo, alla mancanza di legami matrimoniali e al
particolarismo individuale, sta prendendo piede anche in tante famiglie ebraiche. In questo modo, le famiglie
immigrate dall’Europa orientale, dopo qualche generazione acquistano anch’esse una “mentalità moderna”.
Già il fatto che si stabiliscono nelle città, e preferibilmente nelle grandi città, dove, dedicandosi al
commercio – come è già stato indicato, con riferimento a fonti ebraiche – diventano rapidamente abbienti, fa
prevedere che anch’esse si estingueranno, e non tanto più lentamente delle famiglie non-ebraiche delle
medesime grandi città. Quelle cerchie ebraiche che un conoscitore profondo come Heinrich Mann ha
descritte nel suo romanzo “Im Schlaraffenland [nel paese dei balocchi]“, hanno tanto poche probabilità di
lasciare una discendenza, come le famiglie tedesche che le circondano. Queste sono conclusioni che possono
essere tratte obiettivamente dall’analisi della natalità nei matrimoni mosaici in Germania.
Nel 1924, lo scrittore ebreo Landsberger ha espresso come segue le sue opinioni sull’avere figli, nella
rivista di spirito “modernista” “Reigen [Ridda]“: “Dichiaro apertamente qualcosa che scandalizzerà la
borghesia ipocrita, e cioé che la prostituta è la donna per eccellenza. Chi vede nella madre con il mammifero
succhiante al petto qualcosa di idilliaco, e che è immune alla puzza dei pannicelli umidi, potrà anche vedere
nella madre che ha il numero massimo di figli il tipo ideale. È curioso come chi considera queste funzioni
124
animalesche negli uomini educati, le considera invece lodevolissime nelle donne”. Proposizioni del genere, a
quanto sembra, corrispondono alla mentalità di molti ebrei occidentali, mentre potranno sembrare nefande a
tanti ebrei orientali. Ma gran parte dei discendenti degli ebrei ortodossi immigrati in Occidente finiscono per
vedere, in queste “idee”, qualcosa di “progressista” e “conforme con la modernità”.
Se la mentalità contenuta in questi proposizioni dovesse diffondersi fra genti le cui caratteristiche genetiche
- dal punto di vista dell’eugenetica – fossero viste come inferiori, allora, in quanto favorevole alla scomparsa
di quelli che la professano, va vista come qualcosa di positivo per la popolazione in generale. Ma questa
mentalità fa presa anche su persone che, geneticamente, potrebbero essere di alta qualità e di conseguenza,
quando queste persone non la vedano più solo dal punto di vista dell’igiene razziale, diventa un pericolo per
la sopravvivenza per quei raggruppamenti etnici dove si diffonde. Theilhaber si era reso conto di questo
pericolo, per quel che riguardava gli ebrei, già nel 1911, cioé ancora in tempi nei quali sembravano essere
inesistenti per i prolifici ebrei dell’Europa orientale. ora invece ci sono molti segnali che anche gli ebrei
dell’Europa orientale sono stati contagiati dallo spirito della limitazione delle nascite. Secondo Eisenstedt,
l’ebraicità nel suo insieme era stata un diffusore particolarmente sensibile di idee eugenetiche valide fra gli
ebrei fino alla fine del secolo XVIII, quando ebbe luogo la cosiddetta emancipazione ebraica – fino ad allora,
erano stati protetti, dalla dilagante degenerazione e disintegrazione proprio dalla volontà procreativa. Con
l’emancipazione cominciò il pericolo della decadenza, che ormai si presenta come pericolo di “estinzione”
(1). Becker, nel suo articolo “Die Bedeutung der Rassenhygiene {Il significato dell’igiene razziale]” (1)
riproduce una frase di Fishberg, il quale avrebbe detto che “non conosceva alcuna comunità sociale,
religiosa o politica dove una positiva eugenetica ha avuto tanto valore come nel ghetto ebraico”. Ma con
l’emancipazione, questa comunità si è dissolta.
Adesso Weissenberg può ancora informarci che la natalità nei raggruppamenti ebraici della Russia sta
diminuendo; che l’età media dei matrimoni sta aumentando e che le nascite “precoci” e i casi di aborto fra le
ebree sono sempre più numerosi (2). Anche le malattie veneree, che spesso sono la causa della sterilità dei
matrimoni, sembra divengano più frequenti fra gli stessi ebrei orientali. La paralisi, che è un particolare
sviluppo dell’infezione sifilitica, è più frequente fra gli ebrei che fra i non-ebrei in Germania e in Austria (3),
mentre, a quanto sembra, in passato era piuttosto rara fra gli ebrei dell’Europa orientale. Secondo Gutmann
(cit.), i casi di sifilide fra le donne ebree sarebbero meno numerosi che fra le non-ebree; ed egli questo lo
attribuisce agli importanti impedimenti che le ebree incontrano per evere relazioni sessuali extraconiugali,
all’assenza, almeno in Germania, di una prostituzione specificamente ebraica, e al forte senso di
responsabilità degli ebrei infettati, che non si sposano se non dopo aver avuto la corrispondente licenza
medica. In ogni caso, negli ebrei sono presenti ancora tanti tratti psicologici razziali, e fra loro sono ancora
valide tante regole abitudinarie che servono per difendersi da un processo degenerativo sempre più reale
(aumento dei tratti ereditari scadenti). L’ebreo è protetto contro la degenerazione biologica meglio di tante
popolazioni europee in ragione delle sue norme etiche tradizionali e dalla sua eredità razziale conscia e
subconscia. Ma nel contempo l’ebreo che abita nelle grandi città, ed è quindi esposto all’influenza dello
“spirito moderno”, è più esposto anche al rischio di perdere la sua identità etnica che non le stirpi nonebraiche
nel medesimo ambiente. Lo “spirito moderno”, come è stato ricalcato dal già citato Weininger, è in
massima parte spirito ebraico. Secondo Basler, il popolo ebraico sta sull’orlo del tracollo “non per cause
interne, ma in ragione del montante numero di matrimoni misti” (1). Ma i matrimoni misti non porteranno al
“tracollo” se non in tempi moltio lunghi; il pericolo principale, allora, è probabilmente la bassa natalità fra
gli ebrei orientali, che si sono staccati dal loro ambiente originario.
Nel contempo, l’ambiente psicologico non-ebraico ha un effetto sugli ebrei che li porta a confusione e a
indebolimento della loro consapevolezza etnica, e quindi della loro volontà di procreazione. Anche se le
influenze non-ebraiche sull’ebraicità sono meno forti che quelle ebraiche sui non-ebrei (questo in ragione
delle loro grandi possibilità propagandistiche), esse non sono certo assenti e, per gli ebrei, sono pericolose.
Questo perchè l’adattamento ad un ambiente razzialmente allogeno rappresenta sempre, per coloro
che vi si adattano, un pericolo biologico.
La conservazione, ancora per secoli, dell’etnia ebraica dipenderebbe dall’allontanamento dallo “spirito
moderno” da parte degli ebrei più influenti, ma allora ci dovrebbe essere un’attitudine esistenziale in grado
di allontanarli dall’individualismo e rivolgerli ancora alla famiglia, alla stirpe e all’etnia. Attitudine che
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contribuirebbe a rafforzare il senso della famiglia e della maternità e a dare valore ai principi eugenetici, alla
vita rurale e alla vita modesta. Tutto questo, molto probabilmente, significherebbe proprio un rafforzarsi
della fede mosaica originaria, che contiene molte regole eugenetiche e un forte senso della comunità di
sangue, senso che, invece, fra tante popolazioni europee si è molto affievolito. -
Forse ci si può aspettare che gli ebrei si orientino nel senso appena proposto? Le cerchie politicamente e
finanziariamente potenti nell’ebraicità, faranno attenzione a Eisenstedt, a R. Becker, ad A. Czellitzer, che
vorrebbero indirizzare il loro popolo sulla via del pensiero eugenetico? Questo problema viene a coincidere
con quello dell’affermarsi del sionismo, in quanto esso significa proprio quel cambiamento di attitudine di
cui si è appena parlato. Nel prosieguo si darà proprio uno schizzo su che cosa è il sionismo, e chi siano i suoi
nemici ebraici.
Il fondatore del sionismo fu essenzialmente Theodor Herzl (1860 – 1904), un ebreo colto e distinto. Egli
pubblicò nel 1896 il suo libro fondamentale, “Der Judenstaat [Lo stato ebraico]“, nel quale proponeva la
creazione di uno stato ebraico in Palestina e incitava gli ebrei ad abbandonare la loro vita di stranieri in
mezzo a popolazioni allogene. Ne risultò un movimento che, per usare una terminologia ora di moda,
potrebbe essere detto di tipo völkisch ['popolare'] ebraico. Il primo congresso sionista ebbe luogo nel 1897 a
Basilea, al quale parteciparono rappresentanti di tutti i raggruppamenti ebraici del mondo. Nel “Programma
di Basilea” dell’agosto 1897, sta scritto: “Il sionismo ha per scopo la creazione per gli ebrei di uno stato di
diritto riconosciuto internzionalmente in Palestina”; e nel cosiddetto mandato inglese per la Palestina queste
parole vengono ripetute: si tratterebbe di un National home for the Jewish People in Palestina [uno stato
nazionale per il popolo ebraico in Palestina].
Così, una parte del piano di Herzl è già stato portato a termine [nella data della pubblicazione del libro del
Günther, 1931 - ndt]. Molti ebrei hanno aderito alle idee sioniste versando alla causa sionista notevoli
somme. Le banche ebraiche, e in particolare la “Banca Coloniale Ebraica a Londra” hanno presentato
rapporti contabili che dimostrano quanto in fretta crescano i mezzi finanziari del movimento sionista.
In vista dell’odio degli arabi per una nuova colonizzazione della Palestina da parte di ebrei, ci si può
domandare se il progetto di fondazione di uno stato ebraico in Palestina, sia pure con il supporto inglese e
americano, potrà mai avere successo. Si ricordi che ancora nel 1926 solo il 15% degli abitanti della palestina
erano ebrei, e di essi solo il 3,6% si occupavano di agricoltura (1), e che soltanto un popolamento ebraico
più consistente potrebbe trasformare il territorio da possedimento arabo in possedimento ebreico. Secondo
Salaman (2), la maggior parte dei nuovi arrivati in Palestina non hanno un aspetto veramente “ebraico”; si
potrebbe arrivare alla conclusione che essi rappresentino una selezione – soprattutto di ebrei orientali – che
tende, almeno in parte, all’attività agricola più dell’ebreo medio. Ma anche questa selezione non sembra
essere all’altezza dei compiti imposti dalla nuova colonizzazione. “Spesso i nuovi arrivati abbandonano il
duro lavoro dei campi per dedicarsi al commercio; e se non sono quelli della prima generazione, lo fanno i
loro figli. Questo sembra confermare che l’ebreo ha nel sangue lo spirito commerciale” (Brandt, cit.).
Inoltre, ci si può chiedere se la Palestina, sia pure con i suoi territori confinanti, poco adatta all’agricoltura,
sarebbe in grado di nutrire almeno parzialmente la nuova popolazione – anche ammesso che gli ebrei
dovessero adattarsi a fare gli agricoltori. Fra gli ebrei sionisti c’è anche una minoranza che pensa ad altri
territori, posti, per esempio, nella Russia meridionale. Comunque, i vecchi sionisti non si lasciano sviare dal
loro sogno palestinese.
Ma per quel che riguarda l’argomento di questo libro, il problema dello sviluppo topografico del sionismo
non è particolarmente importante. Quello che qui interessa è la valutazione del sionismo come potenza
eugenetico-razziale, dalla quale dipende principalmente il futuro razziale e biologico degli ebrei.
In altre parole, il sionismo è comparso in quel momento della storia ebraica in cui uno spirito di
dissoluzione ha cominciato a minacciare la consapevolezza ebraica del proprio sangue – nel momento in cui
(per usare un’espressione di Martin Buber [1], uno dei principali dirigenti sionisti) il “regno della figura del
disfacimento” è cominciato fra gli ebrei: “Ciò che è senza volto è diventato dominante in Israele, in quanto
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quell’ebraicità che noi riconosciamo come dirigente e ufficiale, viene ad essere in realtà il dominio della
figura del disfacimento”. Quindi, il sionismo nasce in quel periodo della storia ebraica, nel quale, come
conseguenza dell’”emancipazione”, la tendenza selettiva che in modo qualche volta consapevole e altre volte
inconsapevole stava portando gli ebrei a diventare una razza di secondo grado, è stata abbandonata da molti
ebrei influenti; e quando gli stessi comandamenti di Mosé, che raccomandavano la prolificità, sono stati visti
come antiquati. I sionisti non si stancano di indicare come la cosiddetta “emancipazione” sia diventata un
pericolo per gli ebrei; e quanto pericolosa sia per loro anche l’idea dell’”assimilazione”, cioé dell’adattamento
e del livellamento degli ebrei rispetto ai popoli europei, a loro stranieri, con la conseguente dilacerazione
della forza etnica. Da qui la lotta dei sionisti contro qualsiasi indefinizione della linea divisoria fra ebrei e
non ebrei: fra l’ebraicità e il suo confinante – chiunque esso sia. In Germania, per esempio, i sionisti si sono
manifestati ostili al “Zentralverein deutscher Staatsbürger jüdischen Glaubens [Associazione centrale dei
cittadini tedeschi di religione ebraica]“, da loro vista come nemica dell’ebraicità. In generale, i sionisti si
sono manifestati ostili contro tutti quegli ebrei che si sentono cittadini di un qualche stato europeo; quindi si
sono scontrati anche con quella parte dell’ebraicità che ora è la più potente, in quanto detentrice del potere
finanziario nell’Europa centrale e occidentale, e della quale i sionisti temono l’assimilazione finale
nell’ambiente europeo.
Scopo del sionisto, è la presa di coscienza e la trasfigurazione dell’etnia ebraica, attraverso l’affermazione
consapevole della diversità del popolo ebraico all’interno delle popolazioni ospitanti non-ebraiche. “Noi
ebrei, in ragione della nostra razza, della nostra origine orientale, e in ragione di quella scissione abissale
etnica, ideale e culturale che ci separa dalle stirpi ariane, e in particolare da quelle germaniche, non
aspiriamo assolutamente ad adottare le abitudini e l’etica tedesche. In altre parole, noi non abbiamo niente da
spartire con i tedeschi” (2). Questo è un pensiero tipicamente sionista.
Una delle affermazioni più coraggiose del sionismo è che, in ragione dell’insanabile differenza fra ebrei e
non-ebrei, la dispersione ebraica fra le popolazioni occidentali ha avuto come effetto una destabilizzazione
permenente; e che le differenze psicologiche fra i due gruppi, possono sempre esplodere come
manifestazioni di odio. Quindi, obiettivo del sionismo è staccare gli ebrei dalle zone abitate dai popoli
occidentali. Questo dovrebbe avvenire in due fasi: la prima con il ripudio delle abitudini dei popoli ospitanti
e lo sviluppo del senso di appartenenza alle loro nazionalità, concentrandosi sulla propria specifica vita
culturale; la seconda, non appena possibile, con la divisione territoriale degli ebrei dai non-ebrei attraverso
la fondazione di uno stato ebraico. Scrive Martin Buber (cit.): “Qui, noi siamo un cuneo asiatico in
Europa, che non può causare se non disturbo e fermento”.
È fra gli ebrei giovani e colti dell’Occidente che fa sempre più presa l’idea sionista. Sono proprio i liceali
ebrei, maschi e femmine, a non capire più come sia possibile che la maggior parte degli ebrei vogliano
essere contemporaneamente ebrei e tedeschi, ebrei e inglesi, ecc. Ed è direttamente a questi individui che la
“Zentralverein deutscher Staatsbürger jüdischen Glaubens [Associazione centrale dei cittadini tedeschi di
religione ebraica]” dovrebbe rivolgere la sua attenzione, se non vuol perdere ogni influenza sulla nuova
generazione (2). Inoltre, vi è il fatto che i nuovi risultati della scienza razziologica e dell’ereditarietà
incominciano a trovare attenzione presso i giovani di tutti i popoli, non escluso quello ebraico, dando basi
scientificamente solide per un nuovo approccio ai fatti etnici.
Ci sono (notevoli) romanzi e pezzi teatrali nei quali si descrive fantasiosamente come due innamorati,
uno/una ebreo e l’altro/altra non-ebreo, devono dolorosamente lottare contro l’opposizione delle rispettive
famiglie che vogliono ad ogni costo impedire il matrimonio misto. In casi del genere, gli innamorati fanno
invariabilmente appello “all’umanità, ai diritti dell’amore e alle vedute progressiste della modernità”; e
assicurano i rispettivi genitori che i loro eventuali figli non saranno “né cristiani né ebrei”, ma soltanto
“esseri umani”(?). Tutte queste cose ormai incominciano ad essere poco credibili: sia fra gli ebrei che fra i
non-ebrei. La nuova generazione, istruita della scienza dell’ereditarietà e della razza, comincia a capire
quanto valida e quanto giusta (sia pure a livello subconscio) sia la presa di posizione di quei genitori, ebrei e
non-ebrei, che vedono nel matrimonio misto un attentato contro la razza. I giovani, un poco alla volta,
arrivano a capire che gli “esseri umani” che risultano dai matrimoni misti, sono solo meticci e bastardi,
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condannati a menare una vita incerta in equilibrio fra due etnie – e peggio ancora quando si tratta di
incroci fra due razze radicalmente estranee. Essi allora non appartengono né all’una né all’altra, quindi
soggiacciono ad una lacerazione della loro natura che impedirà sempre qualsiasi forma di radicamento.
Perciò si comincia anche a comprendere che tutti quelli che consigliano l’”assimilazione” si rendono
spregevoli agli occhi di tutte e due le parti: “Quelli che ci spingono all’assimilazione o non capiscono che
a nessuno è dato evadere dalla propria pelle, e allora sono degli stupidi; oppure lo capiscono, eppure ci
consigliano forme abbiette di autonegazione e di autoumiliazione consistenti nell’imitazione dell’arianità,
assieme alla soppressione dei nostri istinti, e ci raccomandano di sforzarci per accomodarci ad una pelle
ariana, che a noi sta male, e allora ci insultano gravemente” (1). (Gli ebrei hanno imparato dagli “ariani” la
via eugenetica della propria preservazione, oggi invece siamo noi “ariani” che dobbiamo imparare da loro
ndr)
Il sionismo, necessariamente, ha già cominciato a prestare attenzione a quei valori vitali di cui si è già
parlato: etnicità, fede religiosa, famiglia, maternità, consapevolezza razziale, scelta matrimoniale in senso
eugenetico, ecc. Un libro sul tipo di “Die jüdische Bewegung [Il movimento ebraico]” di Martin Buber
trasmette, attraverso la sua visione approfondita delle dinamiche vitali, un insieme di idee riguardante
l’etnicità e la necessità, da parte di tutti i popoli che abbiano una qualche pretesa di essere popoli-guida, di
modificare le proprie Weltanschauungen (visioni del mondo ndr) facendo attenzione alle leggi della vita.
Però, almeno per il momento, fra gli ebrei vale lo stesso che è valso fra quelle popolazioni non-ebree dotate
di scarsa consapevolezza del sangue; e cioé che solo pochi si identificano con un movimento incipiente che
richiede disinteresse e anche sacrifici – quei pochi che molto spesso vengono canzonati dalla maggioranza
che li chiama “idealisti”.
Lo scrittore ebreo Max Nordau, molto vicino a Theodor Herzl, descrisse la condizione del movimento
sionista all’interno dell’ebraicità in una conferenza tenuta a Vienna, come segue: “Che i grandi finanzieri
ebrei non siano sionisti, è comprensibile. La loro ricchezza concede loro tutte quelle soddisfazioni che si
possono avere per mezzo del denaro – e al giorno d’oggi ci sono ben poche soddisfazioni che non abbiano un
prezzo in denaro. Perché dovrebbero essere sionisti? Forse per migliorare la loro condizione materiale? Non
ne hanno bisogno. Per servire un ideale etico o imprenditoriale? Essi non hanno alcun ideale, e solo
menzionare questa parola è sufficiente per suscitare in loro compassione o ilarità. Forse per evitare di essere
perseguitati o insultati? Nessuno li perseguita o li insulta. Per loro, l’antisemitismo, di fatto, non esiste. Essi
stanno nelle classi privilegiate. Lo Stato gli conferisce onorificenze, titoli nobiliari e convocazioni alle corti.
Essi considerano se stessi membri dell’aristocrazia, e l’aristocrazia accetta questa loro pretesa” (1).
Anche adesso, come ai tempi dei profeti, all’interno del popolo ebraico si profila una lotta fra quella parte
orientata verso la propria dignità e quella interessata solo a “mammona”. Quella cerchia ebraica di Berlino
che il già citato Heinrich Mann ha descritto nel suo romanzo “Im Schlaraffenland [Nel paese dei balocchi]“,
è del tutto irraggiungibile per il sionismo (almeno se la descrizione del Mann è esatta); nello stesso modo
che quei tedeschi che sono completamente isolati all’interno delle cerchie capitalistiche non capiscono nulla
di una eventuale rinascita dell’identità tedesca.
Ogni cosa sembra indicare che la parte non-sionista del popolo ebraico scomparirà un po’ alla volta come
conseguenza di denatalità. La loro scomparsa non avverrà però tanto in fretta da evitare ai popoli occidentali
un ulteriore rimescolamento razziale attraverso nascite “legittime” e illegittime da genitori razzialmente
allogeni, e neppure una ulteriore influenza psicologica ebraica per molto tempo a venire. Così come stanno
adesso le cose, solo il movimento sionista può essere in grado di determinare un diverso percorso storico.
Il futuro biologico degli ebrei può essere descritto lapidariamente così: o sionismo o estinzione.
Si è già detto quali sono le prospettive del sionismo. Ma anche fra quegli ebrei che non accettano il
sionismo, o che lo accettano solo in parte, negli ultimi anni si è andato riaffermando la consapevolezza, per
quanto debole, della qualità etnica dell’ebraicità, quale poteva ancora esistere nel secolo XIX. Un segno
sono le opere di scrittori ebrei che ricordano le prestazioni intellettuali dell’ebraicità; opere nelle quali
queste prestazioni vengono messe in relazione fra loro indipendentemente dal fatto che i loro autori fossero
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ebrei di lingua tedesca, inglese, francese, ecc.; o che i compositori, poeti, scienziati, ecc. ebrei fossero di
fede mosaica oppure no. Così, per esempio, in un vecchio libro di questo genere (Kohut, “Berühmte
israelitische Männer [Ebrei famosi]“, 1901), c’è un capitolo dal titolo “Konvertiten als Kirchenfürsten
[Conversi come principi della chiesa]“, nel quale si parla di ebrei diventati famosi come sacerdoti di
religioni non-mosaiche. Anche Wininger (”Grosse jüdische Nationalbiographie [Grande biografia nazionale
ebraica], pubblicata a partire dal 1925) parla di un’etnia ebraica, determinata dalla discendenza genetica e
indipendente dalla nazionalità o dalla religione dei singoli; dando 8.000 biografie di ebrei, uomini e donne,
diventati celebri in tempi diversi e fra popoli diversi. Da menzionarsi, su questo argomento, anche l’opera di
Dubnow, già citata in nota nel cap. I.
L’insistenza sul fatto dell’appartenenza ad un’etnia comune ha portato gli ebrei della Lettonia e dell’Estonia
ad amalgamarsi sino a diventare una “minoranza nazionale”; e iniziative per un’impostazione analoga
riguardo agli ebrei della Polonia, sono già state messe in movimento. La fondazione in Palestina del
“focolare nazionale per il popolo ebraico” ha contribuito, fra ebrei e non-ebrei, a che gli ebrei vengano di
nuovo considerati un popolo.
Con il riconoscimento e la considerazione della qualità di popolo degli ebrei – un popolo che, per qual che
riguarda la sua origine e la sua composizione razziale, è vicino alle genti del Medio Oriente – potrebbe
essersi innescata una possibile soluzione del problema ebraico, anzi, la migliore soluzione possibile per
questo problema. Il problema ebraico, nonché l’”antisemitismo”, sono nati come conseguenza di quella che il
già citato Werner Sombart ha chiamato “mescolanza contro natura”; una mescolanza di due gruppi, gli ebrei
e gli occidentali, che deve essere considerata “contro natura” in quanto, in ragione della loro “natura”, cioé
dei loro tratti razziali, una collaborazione tranquilla e dignitosa per ambedue è preclusa a priori, come è ben
dimostrato dall’esperienza storica. Parimenti preclusa è una vita culturale che possa andare bene e che sia
benefica per entrambi questi misti razziali.
Se gli ebrei diventassero “minoranze nazionali”, nel senso che si dà a questo termine nelle strutture statali
contemporanee, e se così ebrei e non-ebrei cessassero di avere nulla a che fare con le reciproche
problematiche – come è giusto che sia fra due etnie estranee – allora, del problema ebraico, rimarrebbe
ancora in piedi la questione dei matrimoni misti, ma l’”antisemitismo” perderebbe certamente la
maggior parte della sua ragione d’essere. Se, come lo vogliono i sionisti, agli ebrei fosse concesso un
territorio adeguato alle loro caratteristiche razziali – in Palestina o in qualche altra parte – nel quale potessero
fondare un loro stato, l’”antisemitismo” dovrebbe scomparire, perché anche gli “antisemiti” più convinti non
riconoscono certo un “antisemitismo fine a sé stesso”. F. Bernstein conclude giustamente che dopo che gli
ebrei fossero tutti trasferiti in un loro proprio stato nazionale ci potrebbe essere al massimo “una normale
ostilità fra un popolo e i suoi confinanti”, ma non un “antisemitismo”. Bernstein chiude le sue considerazioni
così: “Dovrebbe essere chiaro da quanto esposto in questo libro (1) che non esiste un altra possibilità di farla
finita con l’antisemitismo”. Egli crede che la soluzione del problema ebraico dipende solo dalla volontà e
dalla disponibilità degli ebrei ad abbandonare la loro stanzialità in mezzo ad altri popoli.
Certi osservatori superficiali, nonché certi ignoranti di razziologia e di scienza dell’ereditarietà,
suggeriscono occasionalmente che la soluzione del problema ebraico stia nell’”assorbimento”, attraverso
matrimoni misti, degli ebrei da parte dei non-ebrei. Raccomandano quindi quegli incroci che il già citato M.
Marcuse ha descritto dettagliatamente, e non si danno pensiero sulla difficile combinazione dei tratti
ereditari che ai discendenti di quei matrimoni verrebbero addossati. Un “assorbimento”, portato a termine
attraverso matrimoni misti, della totalità degli ebrei da parte delle popolazioni occidentali, sarebbe
concepibile soltanto se gli ebrei dovessero rinunciare alla procreazione – cosa che difficilmente potrebbe
essere garantita. E comunque la proposta dell’incrocio illimitato ha qualcosa di denigrante sia per gli
ebrei che per i non-ebrei – sull’argomento sono state citate, poco sopra, le giuste parole di un ebreo
sionista.
L’unica soluzione onorevole del problema ebraico sta dunque nella separazione assoluta degli ebrei dai
non ebrei e viceversa. A molti ebrei, e a molti non-ebrei, questa soluzione potrà sembrare dura, in quanto ci
sono parecchi ebrei che, nonostante tutto, sentono un forte senso di appartenenza verso la terra e verso i
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popoli europei. Sta di fatto, inoltre, che in Germania molti ebrei colti si sentono tanto identificati e radicati
nella vita culturale tedesca che per loro l’allontanamento da essa sarebbe qualcosa di doloroso. Ci sono
effettivamente alcuni ebrei che si sentono contemporaneamente ebrei e tedeschi, e fra questi qualcuno che è
veramente un patriota tedesco. Per costoro la proposta sionista diventa certamente una tortura psicologica.
E per i tedeschi, l’allontanamento di queste persone può essere sentito anche come una perdita. Casi del
genere si darebbero spesso se la separazione delle maggioranze di ambedue i raggruppamenti etnici dovesse
avvenire in tempi relativamente brevi. Ma, in vista della poca importanza che i popoli europei danno ai
problemi razziali e genetici, e alla poca diffusione che l’idea sionista ancora ha raggiunto, questa separazione
avverrebbe molto lentamente. L’idea della separazione netta non acquisterà una maggiore presa sulle
coscienze se non in tempi lunghi, come è sempre successo con le idee nuove non ancora radicate nelle
popolazioni.
Ci vuole quindi una modificazione nella sensibilità in ambedue le popolazioni: degli ebrei e dei non-ebrei.
Ambedue dovranno prendere coscienza dei valori biologici propri; dovranno approfondire la considerazione
e la cura per il futuro biologico della propria etnia, nonché per quel che riguarda l’ereditarietà e la razza – al
punto, come lo avrebbe voluto Galton (1), di diventare una componente della fede religiosa (a factor in
religion). Nella sua postfazione al libro di Belloc (Die Juden [Gli ebrei], tradotto nel 1927), Haecker dice
che si tratta di un libro “assolutamente cattolico”, in quanto tenta di risolvere un difficile problema
dall’interno. Prima gli uomini devono cambiare la loro disposizione, solo dopo si possono cambiare le leggi
e le istituzioni. Ma questa soluzione del problema ebraico non è legata solo al mondo cattolico, ma come si
è tentato di dimostrare, anche a quel mondo che ha fatto proprie le dottrine della scienza
dell’ereditarietà e della razziologia.

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