Tagli alla spesa pubblica in mano a chi spende… (Della serie: Non sarà Cottarelli a tagliare la spesa pubblica…)
«Cottarelli sa bene che casi come quelli di Palazzo Chigi (uno spreco
gigantesco di risorse, con compensi e appalti illegali e
ingiustificati, ndr) rivelano un problema. I tecnici come lui lo
chiamano ‘asimmetria informativa’: solo chi ha sabotato un motore sa
come rimediare. Solo i dignitari di ciascuna amministrazione possono
andare a colpo sicuro là dove si annidano gli sprechi nei loro uffici e
intervenire. Cottarelli capisce di aver bisogno della
collaborazione dei mandarini dello stato, soprattutto se spendono
troppo. Sa anche che è come chiedere ai tacchini di celebrare il Natale».
Così Repubblica in un articolo del 7 gennaio sulla spending review.
L’idea “geniale” di Carlo Cottarelli, neo designato commissario alla
spending review al posto di Enrico Bondi – passato ad altro incarico
prima come addetto al casting della lista montiana Scelta Civica e poi come
amministratore delegato dell’Ilva, nonché commissario di governo
nello stesso gruppo, incaricato cioè di controllare se stesso – fa il
paio con l’idea espressa qualche settimana fa da Yoram Gutgeld, nuovo
economista di riferimento di Matteo Renzi in sostituzione dell’ultraliberista
Luigi Zingales finito in gloria nella lista di Oscar Giannino.
Interrogato su come organizzerebbe la spending review , Gutgeld aveva
risposto: la devono fare gli addetti ai lavori. Per esempio, al ministero
della difesa la devono fare i generali. Gutgeld sembra ignorare che i
generali la loro spending review l’hanno già fatta: si chiama aerei F35 ed
Eurofighter, fregate Fremm, portaerei Cavour, guerre ribattezzate
missioni di pace, ecc. Ma non solo. Ci sono anche stipendi e prebende di
ogni genere (auto blindate, case principesche, domestici gratis,
viaggi aerei con spigole e altro, comprese le indennità di missione per
i tanti che se ne stanno comodamente a casa) per una pletora di alti
ufficiali che costano allo Stato quanto e forse più della vituperata
“politica”. Non che questa costi poco; anzi. Ma dei costi della politica
ormai si indignano tutti, compresi quelli che ne beneficiano; dei costi
dei padroni delle Forze armate non parla mai nessuno: top secret. Staremo
a vedere che cosa ci combinerà in proposito il Cottarelli.
In realtà l’idea di affidare ai mandarini della Pubblica
Amministrazione (i responsabili dei vari servizi) il compito di
tagliare i costi dei propri uffici non è meno assurda di quella di
affidare la gestione della drammatica situazione dell’Ilva di Taranto a
uno che si è lasciato (o fatto?) sfilare sotto il naso i miliardi di
Parmalat recuperati dalle banche complici degli imbrogli di
Callisto Tanzi; o di affidare a un esperto di macroeconomia come
Cottarelli il compito di fare la spunta alla lista delle spese, grandi e
minute, di Ministeri, Regioni e Comuni.
E’ ovvio che i suddetti mandarini non gli diranno un bel niente (non
rispondere mai è il loro mestiere) e se gli diranno qualcosa sarà solo per
imbrogliare le carte. In fin dei conti, se lo Stato costa troppo, la
responsabilità è solo loro. E i benefici anche. Alla fine il risultato
sarà quello già praticato da Bondi, e prima di lui da Brunetta, e prima
ancora da Tremonti: tagli lineari a tutti gli enti e ministeri (tranne
quello della Difesa). E ciascuno poi se la cavi come può (per esempio,
come i direttori didattici, già presidi, costretti a tirare a sorte a
quali supplenti pagare lo stipendio per il lavoro svolto. E a quali no!).
Naturalmente il problema di un paese strangolato dall’austerity non si
risolve solo con una spending review, né solo spostando risorse da una
voce di bilancio all’altra (per esempio dalle spese militari e dalle
Grandi opere all’istruzione, alla ricerca o alla manutenzione del
territorio); anche se entrambe queste cose sono necessarie. Per
salvare occupazione, reddito, convivenza e apparato produttivo
bisogna pompare nell’economia risorse nuove e aggiuntive,
indirizzandole verso quei settori che garantiscono un futuro perché
sono il cuore della conversione ecologica a cui prima o poi (meglio
prima che poi) nessun paese si potrà sottrarre. E non solo cercando di
accaparrarsi un percento in più di export, a spese di altri paesi che
cercano la loro salvezza nello stesso modo.
Ma c’è una strada diversa da percorrere per fare la spending review?
Certo che sì. Innanzitutto va detto che il problema esiste davvero.
Accanto e, spesso, persino all’interno di servizi che devono ridurre all’osso,
e anche oltre l’osso, l’erogazione delle attività e delle prestazioni a
cui sono preposti ci sono sprechi, favoritismi e vere e proprie
malversazioni che gridano vendetta. E accanto o all’interno di servizi
dove il personale è insufficiente, spremuto oltre i limiti della
sopportazione, malpagato e sempre più precarizzato (e da un po’ di
tempo anche insultato come parassita e mangiatore di pane a ufo) ci sono
persone, per lo più raccomandate, o vere e proprie enclave di un
personale che non fanno assolutamente niente; o che quello che fanno
sarebbe meglio che non lo facessero. E nessuno ne risentirebbe. E le
cose procederebbero anche più spedite. Chi abbia lavorato anche un
minimo a contatto con la Pubblica amministrazione lo sa bene. Ma
nessuno, ovviamente, lo sa meglio di chi nella Pubblica
amministrazione o nei servizi pubblici, locali e non, ci lavora.
Ma intanto, se si vuole fare – e bisogna farla – una vera spending review,
che non si traduca in un ennesimo strangolamento dei servizi pubblici
e delle relative prestazioni, non c’è altro modo di procedere che
partire dal basso: in ogni ufficio, in ogni servizio, in ogni istituto,
in ogni reparto bisogna chiamare a raccolta i lavoratori (quelli che ci
stanno: inizialmente forse pochi, ma destinati a crescere mano a mano
che il processo va avanti) e fare in modo che si interroghino
reciprocamente per individuare, da un lato, le operazioni inutili,
gli sprechi e il malaffare che tutti conoscono, il personale
superfluo; dall’altro, le carenze di organico, di professionalità, di
formazione, di risorse, di strumentazione, di prospettive di
progressione di carriera (anche questa va promossa, e sottoposta a
un controllo condiviso). Poi questo confronto va esteso includendovi
anche una consistente rappresentanza dell’utenza: che si tratti di
sanità, di igiene urbana, di trasporto pubblico, di istruzione o di
semplici pratiche amministrative: quelle che impegnano imprese e
singoli con intere giornate di code, con montagne di pratiche e di
spese inutili, con caterve di personale addetto solo a tenervi dietro.
Allora sì che i risultati comincerebbero a saltar fuori. Nessuno ci
rimetterebbe, perché la quota di dipendenti pubblici sulla
popolazione dell’Italia è inferiore a quella degli altri paesi europei;
solo che, come tutti sanno, è mal distribuita e male utilizzata. Si
tratterebbe quindi di promuovere su base volontaria (e con
prospettive di carriera e garanzie di adeguata formazione) quella
mobilità da un servizio all’altro – se non incentivata, certamente
non punitiva – che i responsabili della funzione pubblica stanno invece
da tempo cercando, per lo più inutilmente, di imporre in forma
coercitiva.
Già bravo! Diranno in molti. Ma se pensi che i mandarini non
collaboreranno con il commissario e, anzi, imbroglieranno le carte,
perché mai non dovrebbero fare altrettanto anche i dipendenti pubblici
in posizioni non apicali? Innanzitutto perché per loro non si
tratterebbe di collaborare con un commissario, che ha il solo
obiettivo di tagliare loro l’erba sotto i piedi, ma di collaborare tra
di loro e con l’utenza, per rendere il loro servizio più efficiente, ma
anche il loro lavoro più soddisfacente e i loro rapporti reciproci e
con pubblico più trasparenti e meno competitivi.
In secondo luogo perché ciascuno di coloro che in qualche modo si
percepiscono o vengono percepiti come avvantaggiati – e che
potrebbero vedere la propria posizione minacciata da chi si trova in
condizioni peggiori – dovrà comunque argomentare la difesa dei suoi
vantaggi e rispondere alle contestazioni altrui; oppure sottrarsi al
confronto, che è come riconoscersi in torto. Terzo, perché in un
processo del genere nessuno tendenzialmente ci rimette e per molti
possono aprirsi prospettive di miglioramento. O comunque si può
pervenire alla formulazione di proposte e rivendicazioni in cui la
maggioranza delle persone coinvolte possa riconoscersi. Quarto,
perché un processo del genere finirebbe comunque per coinvolgere la
maggioranza della popolazione, cioè anche molti di coloro che del
Pubblico impiego non fanno parte, ma che ne subiscono le trasformazioni
e il declassamento imposto dall’austerity. Insomma, l’inizio di una
rivoluzione pacifica.
Guido Viale – (www.guidoviale.it)
Fonte: Il Manifesto